AMLETO

L’interesse di questo rifacimento della famosa tragedia sta nell’età del suo autore, che in quel momento aveva ventidue anni.

Tragedia in dodici scene

Amleto                       (A)

Re                                        (Re)

Regina                      (R)

Polonio                      (P)

Laerte                        (L)

Ofelia                         (Of)

Francisco                            (Fr)

Bernardo                             (Ber)

Marcello                    (Ma)

Orazio                       (O)

I Becchino                           (I)

II Becchino                (II)

Un vecchio Abate    (Ab)

Ulrico                         (U)

I   Giudice di gara               (I)

II Giudice di gara                (II)

II Giudice di gara                (III)

 

Dame, armigeri, signori di Corte, marinai, etc.



Scena I

(Francisco, Bernardo, poi Marcello e Orazio. Una piattaforma su un torrione. È notte. Francisco passeggia facendo la sentinella. Si sente qualcuno che sale).

Fr – Altolà!

Ber – Sono io, lascia perdere.

Fr – Altolà!

Ber – Ma son Bernardo!

Fr – Fermo o sparo!

Ber – (con tono di condiscendenza) Eccoti la parola d’ordine: tartaruga. Va bene, ora?

Fr – Venga avanti. Buonasera, signor tenente.

Ber – Ciao. Ma quando la smetti di essere pignolo? Non conosci la mia voce?

Fr – Io seguo il regolamento.

Ber – Così magari passi caporale.

Fr – (sorridendo) Ne sarei contento, tenente.

Ber – Ti capisco. Ma a volte sei sciocco: c’è bisogno di fare queste commedie, per avere un buon rapporto da me? (si sentono altri passi sugli scalini).

Fr – Altolà!

Ber – E smettila, ti ho dato il cambio! Vai, fila, sono amici miei.

Fr – Bene, signor tenente. (Scatta nel saluto).

Ber  Statti bene. Finalmente, Orazio! Oh, anche Marcello: non t’aspettavo.

Ma – Salve.

O – Buonasera, Bernardo. Allora?

Ber – È ancora presto, sono appena le… un cerino, per piacere. Le undici e mezza.

O – Ah, perché è puntuale. Mezzanotte, come si conviene.

Ma – Ma Orazio, perché ti ostini? Che vuoi che ci facciamo, se viene a mezzanotte, gli diciamo che è fuor di moda?

O – Ma veramente lo vedete?

Ber – Certo!

Ma – Come vediamo te.

O – Andiamo, ragazzi, a me lo potete dire: avevate bevuto.

Ma – Ti ripeto…

O – No, no, si tratta di allucinazioni, suggestioni… Le ho studiate ultimamente. Sono fenomeni che sembrano metapsichici e invece si svolgono all’interno della psiche; insomma…

Ber – Insomma, piantala e aspetta, prima di prenderci per scemi. Noi non abbiamo studiato psicologia, siamo solo due ufficiali, ma abbiamo gli occhi aperti.

O – Ma ha parlato?

Ber – No. Non abbiamo nemmeno provato a rivolgergli la parola.

O – Paura?

Ma – E che volevi, che lo trovassimo divertente?

O – Va bene, vedremo. Che ore sono?

Ber – Marcello, guarda!

Ma – Dove?

Ber – Là, sul merlo rotto… quella nuvola…

O – È una nuvola, ovviamente.

Ma – È lui, sì. Ora si avvicina… Lo vedi, Orazio?

O – Per Giove, sembra proprio… ma è lui! Col suo elmo all’indietro, la sua armatura… il re Amleto!

Ber – Prova a parlargli, tu lo conoscevi meglio di noi.

O – Io, veramente…

Ma – Non aver paura, è il nostro re, Amleto.

O – Paura, io? (cambiando tono e volgendosi all’apparizione, che è fuori scena). Sire, poiché ci comparite dinanzi in quelle spoglie che benignamente ci incutevano timore e reverenza quando la vostra saggezza regnava sulla Danimarca…degnatevi di significarci quale scopo vi induce qui, e se qualcosa possiamo fare per onorare la vostra memoria, imperocché… Svanito!

Ma – Svanito, senza dir parola. Come l’altra sera e ieri sera.

O- Non l’avrei mai creduto, Ancora al giorno d’oggi cose simili. Mi batte il cuore come auna ragazza. Perfetto: stessa faccia, stessa andatura, perfino! Vi chiedo scusa per quello che ho detto prima, amici.

Ber – Niente, Orazio, era naturale. (tacciono un po’, poi Marcello, calmo, si accende una sigaretta).

Ma – Scusate, sigaretta?

Ber – No grazie, sto tentando di smettere.

O – Ma lascia perdere, fumare è una cosa bella.

Ma – Imperocché, o Marcello… (ridono).

Ber – Forse è svanito per il tuo imperocché.

O – L’ho fatto per lui. Gli piaceva questa parlata aulica. (ridivengono seri). Penso che bisognerebbe dirlo ad Amleto. Che ne dite?

Ber – Certamente. È suo padre: forse parlerà a lui.

Ma – Sono d’accordo, è l’unica cosa da fare. Scendi, Orazio? Io vado a letto. Scusami, Bernardo, ma domattina sono di servizio.

Ber – Figurati. Per piacere, di’ che mi preparino un tè freddo.

Ma – Va bene. Orazio?

O – Scendo anch’io. Grazie, Bernardo. A domani.

Ber – A domani.

 

Scena II

(La Sala del Consiglio. Dignitari, armigeri, dame, ecc. Il Re, Amleto, Polonio, Laerte).

Re – Signori, siete qui riuniti per nostro volere, perché possiate per primi sapere quali decisioni sono state prese nei riguardi della cosa pubblica e, oggi particolarmente, nei nostri propri riguardi.

Tutti voi, onorevoli signori, non ignorate che la morte spietata, la morte cieca che d’un sol colpo recide la zizzania e il giglio, ci ha tolto, appena due mesi fa, quel lume di sapienza e di equità che fu il re Amleto, del quale altamente mi onoro di essere il fratello germano. Sono passati due mesi, ma è come se fossero due ore, due minuti, come se fosse ancora qui la sua salma venerata! Mai, infatti, dimenticheremo questo modlelo di uomo e di sovrano, e invano il tempo farà scorrere la sabbia della sua clessidra. Il ricordo di lui rimarrà sempre vivo in noi, finché ci accadrà di ammirare alcunché per virtù e grandezza.

E certo chi meglio di me, suo fratello, poteva conoscerlo? Chi più di me goderne i meriti e la ambita compagnia? Chi più di me potrà rimpiangerlo?

Ma è inutile insistere su un argomento tanto doloroso per tutti, e in particolare per me. Di me tuttavia potrei non tener conto, se in questa sala non ci fosse un dolore grande quanto il mio, e forse del mio più tenero e riconoscente. Il dolore della vostra regina. Ecco la donna che gli fu vicina, ecco l’essere che ha egli lasciato orbo e quasi privo di vita! Ecco sua moglie, la donna che amò più di se stesso, e che lo contraccambiò con un affetto e una fedeltà così sereni e costanti da far impallidire la mitica favole di Filemone e Bauci.

E il tuo dolor non dimentico, Amleto (questi ha un gesto di stizza), di cui sempre conobbi la riverente tenerezza per il mio perduto fratello. E il vostro, signori, e quello della nazione tutta.

Impossibile è purtuttavia arrestarsi alla commiserazione di noi stessi. La vita è crudele verso tutti e in ispecie verso chi ha la responsabilità del comando. Sorda al nostro –dolore, essa ci vieta il diritto alla disperazione solitaria, allo strazio silenzio del ricordo.

(Quasi cambiando tono). Così dunque, signori di Danimarca, ad evitare le incertezze del governo, a rinfrancare la nazione, ed anche per unire in un vincolo indissolubile la nostra vita e quella della vostra amata sovrana, desideriamo che ella cambi il suo ruolo di sorella in quello di signora del nostro cuore, di nostra sposa, affinché una nuova gioia possa rifiorire sulle sue guance e una nuova allegrezza penetrare nel nostro animo altrimenti inaridito. (Pausa). Speriamo… Speriamo che questo matrimonio arrechi a voi una parte dell’infinita felicità che esso arreca a noi, e che questo giorno possa essere ricordato fra le date più belle della nostra storia (pausa e brusio). Spero infine… che tu, Amleto, ieri nipote caro, oggi figlio…

A – Figlio!

Re – Figlio adorato, Amleto! Spero che anche tu gradirai di saper riuniti in un nodo sacro…

A – (con furore rattenuto e crescente) Per la verità, maestà e zio, se la bocca deve seguire quanto il cuore sente, se devo dirvi quello che penso…

Re – Basta, Amleto. Ne parleremo poi: per il momento l’ira ti vince.

A – Vi sbagliate, maestà (brusio). L’ira cui alludete non mi vince “per il momento”. Ma questo momento è la foce cui giunge il fiume del mio sdegno, e vi prego…

Re – (interrompendolo vivamente) Sono io che prego te, nipote caro, di riservarmi in privato le tue rimostranze. Questo non è il luogo.

A – Lo è, invece. Quale luogo è migliore di questo per svergognare pubblicamente una pubblica vergogna?

Re – Amleto! Se non mi fossi nipote non avresti tempo per pentirti di quello che hai appena detto. Ma io raffreno la mia collera e ti impongo di tacere.

Onorevoli signori, vi prego di scusare il mio amato nipote. Molto lo ha attristato la morte del suo prezioso padre e molto egli l’amava. Dimenticate le sue parole come io le dimentico. Grazie, per lui e per me. (Amleto si gonfia d’ira, poi va a sedersi in disparte). Per gli altri affari, abbiamo dato disposizioni al nostro primo ministro e da lui potrete apprendere quanto desiderate nel salone qui accanto. Per ultima cosa, , se non ricordo male… mi pare che Laerte avesse qualcosa da chiedermi.

La – Colendissima maestà, imploro da voi il permesso di lasciare il reggimento e tornare in Francia.

Re – Voi, Polonio, che ne pensate? Approvate la decisione di vostro figlio?

Po – In verità, maestà, a lungo egli mi ha parlato di questo suo ritorno nella terra di Vercingetorige, ed io…

Re – Vuoi che vada?

Po – Sì, sire.

Re – Va’ pure, Laerte, e torno presto ad allietarci con la tua presenza. C’è altro, Polonio?

Po – Nulla, maestà.

Re – Andiamo, allora? Signori, vogliate seguirci nel salone verde. (escono tutti, lentamente, commentando fra loro quanto è accaduto e cercando di non badare ad Amleto che rimane seduto dov’è, fino al momento in cui, rimasto assolutamente solo, si mette a passeggiare, tetro e pensieroso).

 

Scena III

(stesso ambiente; dalla porta opposta entrano Marcello e Bernardo; poi Orazio. Infine, dall’altra porta, il Re).

Ma e Ber – Buongiorno, principe.

A – Buongiorno, signori.

O – Buongiorno, mio principe.

A – Orazio! Non ti vedevo da tempo! Mi chiami principe? Spero mi accordo ancora il titolo di amico!

O – Sei molto gentile, grazie. Potremmo parlarti?

A – fate pure. Siete fra le persone che ascolto più volentieri.

Ma – Ecco: si tratta che da tre notti, mentre eravamo di guardia… Beh, è meglio che parli tu.

Ber – No, no, fa’ pure, ne sai quanto me.

Ma – Preferisco che parli tu.

Ber – Come vuoi. Da tre notti, come si diceva…

A – Ebbene?

Ber – Ebbene, è comparso un fantasma sulla torre sud…

A – Spero non siate venuti a prendermi in giro.

O – Nient’affatto, Amleto. Neanch’io volevo crederci ed ho fatto torto alla loro intelligenza: ma ieri a mezzanotte ho visto anch’io. E il fantasma… è quello del re Amleto.

A – Mio padre? Ed ha parlato?

O – L’ho invocato, ma non ha risposto. Abbiamo pensato fosse nostro dovere avvertirti.

A – Avete fatto benissimo. Sulla torre nord?

Ma – No, sud. (entra il Re).

A – Il Re. Verrà stasera, senz’altro. Scusatemi, amici, a più tardi. Maestà? (i tre escono, mentre il Re s’avvicina).

Re – Amleto, che ti è preso, oggi? Non sapevo che tua madre ed io stavamo per sposarci?

A – Sì, zio. E mai ti avevo nascosto cosa ne pensassi.

Re – Ma da questo a screditare la corona?

A – Siete stati voi a non volermi ascoltare, prima.

Re – Nipote mio, ti ho ascoltato. So che la cosa non ti fa piacere. Ma poco fa parlavi al tuo re, si tratta di affari di stato.

A – Anche la morte di mio padre è un affare di stato.

Re – (allarmato) Che vuoi dire?

A – Semplicemente che mio padre è morto da troppo poco tempo perché si possa far luogo a nozze. Non ti pare?

Re – Ah, è questo. Amleto, tuo padre è morto. Questo tempo dopo la sua morte sarebbe un tributo a delle sciocche convenzioni.

A – Lo sapevo, che l’avresti detto. Tu, eh? Religiosissima maestà, il re che rispetta i costumi del suo popolo, il re equilibrato al cui confronto io sono un pazzo…

Re – Amleto, mi induci a dire più di quello che vorrei. Sono innamorato di tua madre, veramente.

A – Peggio, religiosissima maestà. Non ti sa di sporco dormire, diciamo dormire, nel talamo di tuo fratello? Giacere con tua sorella, come l’hai chiamata oggi in consiglio? No, zio, non è permesso fare i propri comodi in questo modo. L’uomo non ha il dovere di essere santo o magari semplicemente retto: ma quello di essere coerente, sì. Non ha niente di bello e di scusabile il vostro comportamento; dico tuo e di mia madre.

Re – Sediamoci, caro. Hai fiammiferi? Grazie (accende). Ascolta. Tutto quello che hai detto finora avrebbe dovuto offendermi ma mi ha piuttosto meravigliato. Ti ho sempre conosciuto come un giovane dalle idee larghe, tollerante, scettico. Ed ecco che mi accusi in base a delle parole…

A – Le tue parole, zio.

Re – Lo so. Ma intendo ricordarti che non avresti avuto la vigliaccheria di ricordarmele se lo sdegno non ti avesse vinto. Ecco: sei sdegnato e addolorato non perché la cosa sia poi tanto contro i tuoi principi, quanto perché riguarda te, particolarmente.

A – Amavo mio padre.

Re – Certo. Ma così saresti anche tu incoerente, se distingui ciò che capita a te da ciò che capita agli altri.

A – Io…

Re – (interrompendolo vivamente) Non voglio che tu mi spieghi. Non importa. Siamo umani, e deboli. (Amleto accenna a parlare) No, non parlare.

Anch’io amavo tuo padre. È stato il mio fratello maggiore, tu non l’hai conosciuto quando l’ho conosciuto io. Lo ricordo quando aveva dodici anni: era la favola del regno. Un fanciullo studioso, colto, serio. Di me non si parlava, perché ero l’opposto: scapestrato, insofferente, a volte capriccioso… un bambino qualunque.

Poi, siamo cresciuti. A diciassette anni sembrò svegliarsi. Partecipava alle gare, schermiva da campione e, benché fosse giovanissimo, era amato in maniera incredibile dalle donne. E tuttavia trovava tempo per studiare, per leggere… era perfino ammesso ufficiosamente in consiglio.

Tuo padre è stato un uomo superiore, perfetto e felice. Io avevo tendenza alla vita mondana, ma se in un posto arrivava lui, tutti mi dimenticavano. Mi chiudevo in me stesso, ma non sapevo, come lui, mettermi a studiare e coltivarmi. Mi appartavo solo per gustare la mia amarezza. E allora ecco, veniva lui e mi offriva il suo cavallo preferito: era il massimo sacrificio e il massimo segno d’affetto. Non potevo odiarlo ed era la causa di tutti i miei mali. Capisci, Amleto? Tuo padre mi era superiore in intelligenza, in cultura, in società, dappertutto!

Io ho sempre saputo tutto questo. È stata colpa mia se sono stato inferiore a lui? Dovevo per questo uccidermi? Non lo so; non l’ho fatto.

Così fino ai suoi ventiquattro ed ai miei ventidue anni. Allora, più stanco che mai, me ne andai in Inghilterra. Lì iniziai una nuova vita e conobbi Clara, tua madre. Me ne innamorai, e lei mi ricambiava. Ero felice come non lo ero mai stato. Sigaretta?

A – No, grazie.

Re – Mi pareva d’aver dimenticato tutto nel suo amore… (accende). Furono giorni meravigliosi. Scrissi a casa che volevo sposarla e mandarono tuo padre a giudicare la mia amata. La mia amata! Non lo fu per lungo tempo. Tuo padre non solo la giudicò bene, ma la trovò bella, buona, meravigliosa… si innamorò di lei. E tua madre, stavolta sul serio, di lui. Che potevo fare?

A – Potevi forse far valere il tuo diritto.

Re – E come sarebbero rimasti?

A – Come sei rimasto tu.

Re – No, Amleto. Perché loro due si amavano e, per me, ero solo io che amavo Clara.

A – Ma c’era di mezzo la tua felicità! Papà avrebbe trovato altrove, forse.

Re –No. Tu sai che ha amato per tutta la vita solo lei. O forse, magari, hai ragione. Non so. Ero troppo abituato a cedergli tutto quanto gli piaceva. Non pensavo di potergli resistere.

Ora è morto. Perché rispettarlo ancora? Da morto può almeno lasciarmi vivere la mia vita. Comprendi, ora? Ti sembro spregevole? (pausa). Rispondi.

A – Buona giornata, zio. (esce)

Re – Amleto…

 

Scena IV

(una stanza in casa di Polonio. Laerte sta chiudendo le sue valigie. Entra Ofelia).

Of – Senti, Laerte, non avevi detto che volevi portar con te questo libro?

La – (la guarda, dapprima interdetto) Ah, ma certo, i Saggi di Montaigne. Che testa, la mia! Per piacere, vuoi sedere su questo baule? Non riesco a chiuderlo.

Of  – Ecco. (con tono allegramente teatrale) Che cosa fareste, voi uomini, senza noi donne!

La – (ridendo) Ci farei sedere su Riccardo.

Of – (c.s.) Insensibile! Spoetizzante, ecco quello che sei! Vuoi forse affermare che la parte che un servo cinquantenne poserebbe su questa valigia sia bella quanto quella che ci sto posando io?

La – Ehi, tu, non si fanno, certi scherzi! Se ti sentissero a Corte!

Of – Non mi sentono.

La – Lo spero bene. Certo, chi ha delle sorelle non potrà mai sognare della donna angelo.

Of – (assumendo pose leziose e parlando con voce di gattina) Non mi ci vedi, come angelo? Lo sai che mi dicono che i miei capelli, in controluce, sono più belli di un’aureola?

La – (dandole una manata sulle parti basse) Scendi, angelo! Lo so io chi ti vede le aureole!

Of – (tastandosi la parte colpia) Ti ho detto cento volte di non toccarmi. Hai le mani pesanti.

La – Io, vero? Tu, invece! Via, sorella, smettiamola. Consideralo un ricordo.

Of – (sorride) Un ricordo toccante. A che ora parti?

La – (guarda l’orologio) La nave parte fra un’ora. (finisce di chiudere la valigia che ha per le mani e si siede tranquillamente in una poltrona, di fronte ad Ofelia, che si appollaierà in una posa giovanile su un bracciolo da qualche parte) Mi scriverai, vero?

Of – Certo. Sei tu che non scrivi, poi.

La – Ti prometto che questa volta sarà diverso. Il fatto è che non ho molto da dire. Si fa la solita vita.

Of – Non dirlo, altrimenti sarei io che non dovrei mai scrivere un rigo.

La – Ma di che vuoi che ti parli!

Of – Di tutto! Dei ricevimenti cui partecipi, dei pettegolezzi di Parigi, delle opere cui assistito… e soprattutto, te ne prego, parlami dei vestiti delle signore: qui non hanno gusto. Fossi stata maschio anch’io!

La – Dio ce ne scampi!

Of – Te ne ha scampato, purtroppo! Mi prometti che mi scriverei tutto questo?

La – Farò del mio meglio. Ti spedirò anche riviste e libri presso Riccardo, così nessuno ne saprà niente.

Of – Bene, fratello. (corre a sederglisi sulle ginocchia e lo bacia). Laerte, sei tanto caro. Mi mancherai. Io ti mancherò?

La – Ma certo, filibustiere. Chi fumerà le mie sigarette, in Francia?

Of – Te n’eri accorto?

La – Eccome. Mi hai costretto a tenerne molte perché potessi prenderle con tranquillità.

Of – Sei il più caro fratello della terra. Ti voglio tanto bene che… me ne vergogno.

La – Piccola Ofelia! (cambiando tono) Senti, mi permetti di essere indiscreto?

Of – Non ci sono segreti, fra noi.

La – Ce n’è uno, Ofelia. Sei innamorata e non me lo avevi detto. È vero?

Of – Sì.

La – So anche di chi si tratta.

Of – (balzando dalle sue ginocchia) Chi te l’ha detto?

La – Nessuno, l’ho capito da me. Amleto.

Of – Sì, ne sei contento? Siete amici d’infanzia.

La – Sì, amici. Ofelia, ti parlo oggi perché ho rimandato questo colloquio di giorno in giorno. Sai che ti ho sempre rispettata e che non ho mai voluto immischiarmi nelle tue faccende: sei abbastanza intelligente per sbrigartela da sola. Ma questa volta è diverso, ho visto che lo ami sul serio.

Of – Anche lui mi ama.

La – Ti credo. Ma… Ofelia, ascoltami. Non vorrei darti un dolore o farti una predica. Amleto non è per te. Fammi parlare! Siamo amici da molto tempo e lo conosco bene, quasi come conosco te. Amleto è intelligente, romantico, capisco perfettamente che ci si possa innamorare di lui. Ma ti farebbe infelice, ne sono certo. È un egoista, in fondo. Non di quell’egoismo comune che abbiamo tutti: non sa nemmeno di esserlo. Non vive che per sé. Tu stessa saresti soltanto qualcosa che egli si costruisce in cuor suo. Amleto sa parlare ma non sa amare. È capace di regalarti tutto quello che possiede ma non se stesso. È capace di amarti oggi più di quanto sappiamo fare tutti gli altri, ma domani non lo interesseresti più.

Se tu stessi flirtando, non ti avrei detto niente: ma tu lo ami, e per te amare è qualcosa di più serio, di reale. Ofelia, io non faccio il direttore spirituale, non so spiegarti meglio, ma son sicuro quanto lo si può essere che Amleto ti farebbe infelice. E ancora, i tempi delle fate sono passati. Cosa sei? Una baronessina che solo l’alta carica del padre tiene a Corte, e lui è un principe, un candidato al trono, se la regina, come sembra, non avrà figli. La Corte non permetterebbe questo matrimonio. E ancora… sorella, scusami se ti sembro violento o poco delicato, ma tu sei il tipo che quando ama non ha riserve, e potresti commettere una sciocchezza, con lui.

Of – Non tengo alla verginità.

La – Non ti do torto, ma son gli altri, a tenerci. E noi siamo molto in vista, in Danimarca. Sarebbe un disonore, come si chiama, per te, per papà, per Amleto e per tutta la Corte. Capisco che tutto questo ti addolori e tu conosci abbastanza il mio affetto per comprendere come anche a me non faccia piacere dirti queste cose. Del resto, parto oggi stesso e mi fido semplicemente della tua intelligenza. (una pausa).

Of – Laerte, lo amo troppo.

La – Lo so che fai sul serio. Ma mi credi per tutto quello che ho detto? Capisci che ho gli occhi aperti e che ti voglio bene come sempre?

Of – Sì. È per questo che… mi sento rotta, dentro.

La – Scusami. Ti voglio tanto bene. Voglio soltanto che, credendo alla mia buona fede, tu ripensi a tutto questo, che tu stessa capisca quello che devi fare. (si alza) Io ti auguro di incontrare presto chi ti possa rendere felice quanto meriti.

Of – Laerte, non so nemmeno se tu possa capirmi veramente, ma io lo amo come… non so come dire, come nell’arte, come nelle canzoni, come sa amare la musica di Mozart. In fondo al cuore qualcosa mi parlava come tu hai fatto, ma io ero pronta al sacrificio di me stessa, mi pareva bello. Ora tu mi poni il problema in parole, mi metti di fronte a una decisione di cui devo rendere conto solo a me stessa. È questo il peggio.

La – Non decidere ora. Non devi sentirti legata da una promessa. Assicurami soltanto che sarai onesta con te stessa.

Of – È già troppo. Sono innamorata. Ma te lo prometto (si butta fra le sue braccia).

La – Povera sorellina. Dammi un bacio per dimostrarmi che non ce l’hai con me. Mia cara, nella tua decisione metti anche il peso del mio affetto, che non vorrebbe mai vederti infelice (Ofelia comincia a piangere, entra Polonio).

P – Figli miei, è già tardi. Laerte, attendono solo te. Su, Ofelia, basta. Non mancherà che pochi mesi. Un viaggio come gli altri, che c’è da piangere, stavolta? Diventi ogni giorno più sciocca. (li separa) Laerte, ricordati di far visita al duca di Bayonne, quello ti potrà sempre esere utile. E studia, lasciale perdere, le ragazze! Mi costi un sacco di soldi e non li rimpiango, ma non voglio che vadano a finire in tutt’altri posti che nelle librerie. Bene, va’. E riguardati. Per il medico ricordati di Ancel, da noi non si fa pagare.

Ah, senti, ricordati di spedirmi il prodotto contro il diabete, quello nuovo: ricordatene!

Riccardo! Dov’è quel buono a nulla? Riccardo! (questi compare) Riccardo, le valigie del signore sono ancora qui! Laerte, per piacere (comincia ad uscire tenendo una mano sulla spalla del figlio che gli andrà rispondendo dei “sì, papà” rassegnati, come durante le raccomandazioni che precedono), quando sarai a Parigi, dovresti fare un favore a Jensen, il nuovo ministro delle finanze. Desidera ottenere… (Ofelia guarda per un po’ Riccardo che porta fuori i bagagli, assorta. Poi, stancamente, si alza ed esce).

 

Scena V

(una torre semidiroccata del castello)

Re – (con tono allegro, giungendo sulla torre) Non ti capisco. Ora sei convinto che non ho paura? Non soffro di vertigini. Soddisfatto? Paga la scommessa e scendiamo.

A – (giungendo anche lui sul sommo) Siedi, voglio parlarti.

Re – (gioviale) Nipote mio, capisco che tu possa avere cose serie da dirmi, ma perché dovrei buscarmi un raffreddore?

A – Non essere prosaico. Sei un re, tu. Abbi coraggio anche per il raffreddore, è un rischio come un altro. Ne vuoi ancora?

Re – No, te ne prego, ancora un poco e mi ubriaco. Ma da dove t’è venuta tutta quest’allegria, oggi?

A – Chissà. Forse è questo liquore ch’è particolarmente buono.

Re – Buono, vero? Me l’ha mandato un amico (si siede su una pietra del muro, spalle al vuoto). Me l’aveva promesso da un sacco di tempo. Lo conosci? È quel duca che due anni fa…

A – Sì, lo so, lascialo perdere. Il suo liquore ha più spirito di lui.

Re – Certo! (ride) Ah ah, ben detto: quel duca non ha spirito! Buona, questa!

A – (che lo ha guardato ridere con aria seria e tranquilla) Zio, voglio esporti un problema.

Re – Proprio qui, nientemeno! Avanti, la tua è l’età dei problemi. Donne?

A – Dimmi, è brutto morire?

Re – Eh? Morire? (allarmato) Ma che vai dicendo?

A – Il problema è questo. L’altra sera sono uscito in incognito e sono andato a bere in un’osteria. C’era un tale, un pancione tutto risate e manate sul tavolo che trovava ridicola la nostra spada di Corte. Ho cercato di metterlo al suo posto e mi ha addirittura insultato, mentre tutti ridevano. Allora ho tirato fuori la spada e-

Re – Non l’avrai ucciso, spero!

A – Nemmeno toccato. Mi hanno trattenuto e lui stesso s’è immediatamente rabbonito. Ma ti chiedo, se l’avessi fatto, sarei stato condannato a morte, come dispone la legge?

Re – Ma perché sottopormi problemi così imbarazzanti, se non lo hai nemmeno toccato! Quanto mi racconti, poi, è del tutto eccezionale. Ma chi ti ci porta nelle bettole, dico io!

A – Non è questo, il punto. Rispondi: se lo avessi ucciso, sarei stato condannato?

Re – Vediamo. C’erano dei testimoni, naturalmente.

A – Ma che importa! Se uccidessi, dico, l’essere principe mi dispenserebbe dalla sanzione?

Re – Certo che no. Ma perché…

A – Dunque mi condanneresti.

Re – Dovrei farlo, la legge…

A – è uguale per tutti. Lo sappiamo, c’è scritto. Ma il tuo è un regime pressoché assoluto. In pratica potresti non condannarmi e nessuno potrebbe opporsi.

Re – Questo non significa nulla. C’è il dovere morale che sta sopra ogni potere. Mi daresti ancora un goccio?

A – Dopo. Dovere morale! Ma la condanna non gioverebbe a te, che ne avresti dolore, e nemmeno a me, che sarei morto. A chi, allora?

Re – Al popolo. Mostrerebbe che la legge non distingue tra…

A – Capisco. Sarebbe piuttosto un dovere politico.

Re – Non è escluso un dovere politico, certo.

A –E tu rispetti le regole della politica. Come ogni re saggio tu sai che un regime tanto più è forte quanto più è nello stesso tempo stimato e temuto.

Re – Senza dubbio.

A – Pensi dunque che agendo in questo modo regneresti a lungo e felicemente.

Re – Lo spero. Ma che, ora mi ragioni come Socrate?

A – Non precisamente. Socrate ragionava con le armi della logica, e anch’io ho queste armi. Ma ne ho una di più: non l’indovini?

Re – No.

A – Sei ingenuo, zio. (si alza di scatto e gli appunta in petto la spada, facendo pressione in modo che il Re, ammutolito per il terrore, non possa muoversi per non cadere o infilzarsi) Si tratta di questo. Tu mi uccideresti per la politica, perché c’erano dei testimoni. Ebbene, l’immediato pretendente al trono sono io e nessuno sa che siamo qui. Posso dunque ucciderti ed essere re.

Re – Ti prego, Amleto, non scherzare, la pietra è in bilico!

A – Il fatto è che non sto scherzando. E se la pietra cade, non farà che togliermi il disturbo della decisione finale. Ma non sbarrare gli occhi, non è il momento, voglio parlarti ancora. Anzi, poiché sei disarmato, posso abbandonare questa posa teatrale.

Continuiamo la discussione, sei interessante. Dunque, poiché non do scandalo, nessuno saprebbe chi ti ha ucciso, ed ho delle buone ragioni per farlo, potrei sopprimerti. Di’, zio, perché non dovrei farlo, secondo te?

Re – Ma… (annaspa) che discorsi son questi… esiste una morale! Non si uccide così!

A – E supponiamo…

Re – Ti prego, Amleto, sto male, fammi scendere dabbasso. Sto male, veramente.

A – Io parlo di uccidere te: che vuoi che m’importi se stati per svenire? Supponiamo, dicevo, che la morale, invece di essere un freno, fosse una spinta all’azione.

Re – Non… non può esserlo.

A – Lo è, zio. Io ho il dovere morale di ucciderti.

Re – Amleto, tu vaneggi. Calmati, te ne prego!

A – Non vaneggio. Anzi sto per eseguirti (si alza e gli va accanto, spada avanti. Il Re è annichilito dal terrore). Ecco la motivazione: nessuno ci vede, per ragionare col tuo coraggio.

Re – Io lo dicevo per difendere te!

A – Anch’io lo dico per difendere me. Primo, nessuno ci vede, e questo per la pratica. Secondo, divengo re, e questo per la politica. Terzo, e questo per la morale, applico la tua legge.

Re – Quale legge?

A – Non fingere, zio. Sai quanto me che non sono impazzito stamattina, e che la tua legge ti riguarda profondamente. Hai temuto in tutto questo colloqui che io, invece di essere pazzo, sapessi. E ad ogni buon conto hai recitato la parte dell’uomo onesto e sereno. Applausi alla recitazione, ma ora basta. Guardami negli occhi. Ho diritto di uccidere chi ha ucciso mio padre?

Rispondi (la voce di Amleto resta pacata). Me lo concedi, questo diritto.

Re – Non voglio morire.

A – E non morirai, per il momento. (torna alla sua pietra e gli butta la bottiglia) Tracanna, verme. Tirati su. Sporco bugiardo, mi avevi quasi convinto, l’altra volta, con le tue storie. E smettila di guardarmi con quegli occhi!

Re – (riprendendo un po’ di fiato) Non erano storie inventate. È tutto vero.

A – Ah sì.

Re – Veramente.

A – Mi fai schifo.

Re – (a questo punto deve aver l’aria di scaricarsi di tutta l’emozione accumulata. Si lascia scivolare a terra, appoggia le spalle al muretto della torre e la sua voce sarà calma, come di uno cui non importi più di vivere o morire. Sarà una voce stanca, carica di verità). Dici quello che vuoi. Non ti chiedo pietà, e forse nemmeno comprensione.

Tu ricordi perfettamente tutto quanto ti ho detto l’altra volta, ne sono sicuro. Ebbene, sappi che non rinnego assolutamente nulla. Ti ho detto che mi innamorai di tua madre a vent’anni, ed è vero. Ti ho detto che ne sono innamorato oggi, ed è vero. Amavo mio fratello e l’ho pianto sinceramente.

Risparmiami il tuo sorriso. Non ti chiedo la vita, ma lascia che ti spieghi.

È naturale che all’ammirazione verso mio fratello si mescolasse un po’ di gelosia, che io fossi intimamente stanco d’essere per tutta la vita il numero due. Tuttavia il mio… delitto, non è stato premeditato.

Eccoti la mia storia. Pochi anni dopo che Clara ebbe sposato tuo padre, ella non significava nulla, per me. Come ogni donna, per quanto intelligente, ella si era plasmata sul marito. Ne condivideva le idee, gli atteggiamenti spirituali, la felicità senz’ombre e l’intima, incosciente superiorità sugli altri. Tuo padre si vantava d’essere buono, e lo era, intelligente, e lo era. Ma nella sua superiorità commetteva l’errore di sottovalutare gli altri. C’era nel suo intimo una certa posizione di condiscendenza verso tutti che dava fastidio a chi non gli si sentiva inferiore intellettualmente. Incantava le folle che alzavano gli occhi, per vederlo, ma appariva pretenzioso a chi gli stava accanto. Questi suoi difetti, in origine nascosti dalla sua intelligenza, si erano andati accentuando con gli anni e con l’abitudine del potere.

Così non si accorse del progressivo staccarsi da lui di chi gli era più vicino. Anche Clara, tua madre, si era quasi stancata di lui. Conosceva ormai le sue massime, i suoi tratti di spirito, le sue idee base che incantavano chi gli parlava per la prima volta. E non sopportava più di vedergli ripetere le solite cose pretendendo un’ammirazione sempre nuova. Clara aveva su di lui il vantaggio di essere più vicina alla realtà, di percepirne i mutamenti e gli sviluppi, e questo la riaccostava a me, in cui ritrovava l’uomo comune, intelligente ma senza sofisticherie, colto ma senza pretese di teorico.

Io… io intanto ero venuto ricostruendo la mia vita. Avevo capito che a nulla valeva esser primi, essere tra i vincitori, sempre. Avevo capito che stava in me la soluzione di tutto, e che questa soluzione non era altro che l’umiltà. La coscienza che ciascuno di noi non è essenziale, non è il centro del mondo. Avevo ottenuto la pace con un po’ di malinconia per tutto il dolore ed il vuoto che vedevo nel passato.

Questo sentimento di superamento, di saggezza, mi avvicinava a tua madre: questa nuova Clara che era sola in cerca di serenità, di comprensione, di amicizia. E allora cominciarono le nostre lunghe conversazioni. Riscoprivamo gli argomenti che ci avevano avvicinati già una volta, osservavamo il progresso compiuto in questi anni di silenzio, dividevamo una sorta di tristezza del tempo che passa e insieme la dolce complicità di due esseri che si intendono.

A volte Amleto partecipava alle nostre passeggiate, ma le sue idee le buttava con autorità, con incosciente violenza. Oppure rideva del nostro psicologismo, come lo chiamava lui. Gli volevamo bene, ma era come un parente che ti disturba mentre parli con un amico.

Poi… forse riderai di me, con la mia età e il mio principio di epa. Ma non si invecchia mai tanto quanto credono i giovani. Col tempo questa amicizia si era fatta sempre più tenera, e se non cadevamo l’uno nelle braccia dell’altro era perché la nostra età e la freddezza stessa delle nostre vite ci aveva sviato da una cosa così naturale. Ma era fatale ed avvenne.

Un giorno trovai Clara piangente, mi fece pena e l’abbracciai… e la baciai. Forse non avremmo dovuto farlo, ma è così facile dirlo ora! Noi non siamo più bambini, e forse credemmo che baciarci fosse come stringerci la mano, ormai. Ci siamo sbagliati, ed io più di lei.

Amleto, sei già un uomo e devi conoscere cos’è la passione. Cosa sia non poter vedere una persona senza che le gambe ti tremino, non poterle toccare un dito senza sentire una coltellata nello stomaco. Io impazzivo per il desiderio di lei, rimproverandomi acerbamente questi sentimenti poco morali ma senza poterli minimamente dominare.

Sì, perché ci fu un periodo in cui Clara fu per me scissa in due entità: l’amica che amavo teneramente e la donna che desiderava con tutto il mio corpo. Per qualche mese riuscii a mantenere in me questa dualità senza accorgermi che l’amavo, che tutto questo era solo amore, finché un giorno…

E’ un ricordo terribile e meraviglioso. Era un pomeriggio di sole, ed eravamo scesi tutti e tre in giardino. Parlavamo del più e del meno quando tuo padre ci pregò di allontanarci perché potesse fare una dormitina. Clara ed io… andammo nel chioschetto di vimini. La desideravo talmente e l’amavo tanto che soffrivo della sua vicinanza. Mi carezzò, io la baciai… e sentii improvvisamente che anche in lei tutto era cambiato. Non era un bacio fraterno, era l’offerta del suo essere intero, corpo e anima, con una sorta di disperazione pari alla mia; con un senso del disastro dal quale ci salvava, ancora per un momento, il nostro abbraccio. Poi lei mi fuggì sussurrando il nome di lui. Lo ritrovammo che russava, compiaciuto di sé e di tutto. Non sapeva d’essere l’unico ostacolo. Gli volevamo bene, ma era la sua presenza a impedirci il dono completo, la fusione vera, assoluta. C’era in noi due lo scrupolo di tradire i sentimenti di quell’uomo che tanto ci era vicino, che così bene conoscevamo.

Ti potrà sembrare strano che avessimo tanti riguardi per un uomo che poi uccidemmo, ma non è così. Un uomo non conta. Se la sua vita è stata felice e se non sa di morire, cosa avrà perduto con essa se non il rischio di soffrire? Amleto era anziano, era in decadenza, perché fargli prolungare la serie dei suoi giorni oltre la felicità? Il suo ciclo era finito, e sarebbe stato crudele esporlo al rischio di tanto tradimento. Non potevamo farlo alle sue spalle, non lo meritava.

E’ così facile uccidere! La parola assassinio è carica di orrore e di letteratura. Ma l’azione somiglia troppo alle altre azioni. E’ cosa breve. Basta trovare il coraggio di un gesto. E noi lo trovammo.

Poi questo stesso nostro atto passò fra le cose fatali, fra le cose che sono avvenute, e noi stessi sembrammo dimenticare che ne eravamo la causa. Ne ricordammo i meriti e l’affetto, e le nostre lacrime furono quasi sincere. Così Clara ed io ci unimmo, e per me si iniziò una nuova vita. Esteriormente ho recitato la parte del re, del potente, ma nel mio intimo, ormai posso dirlo, ho ritrovato quella carica d’amore che avevo covata in tutti questi anni. Clara ed io non siamo solo amanti, siamo innamorati, ci amiamo come due diciottenni. E’ stata la mia seconda primavera. Seconda! Ma non ce n’è stata una prima.

Non ti dico che ho trovato la felicità, o che credo che duri. Ma non mi importa, è stato bello. Anche se mi uccidi, non posso pentirmi. A tutta la vita di mio fratello io contrappongo questi due mesi, e se ognuno di noi due morirà per mano umana, io avrò almeno vissuto un poco. Meglio così, che morire senz’esser mai nati.

Questo è tutto. (Tacciono, poi Amleto si alza, con la spada, che non ha mai abbandonato, in mano, e gli sta in piedi dinanzi. Il Re si alza e lo guarda, tranquillo).

A – (con voce fredda) Non ho avuto l’intenzione di ucciderti. E ne sono contento, perché ora non ne avrei a forza. Non si può uccidere chi è vivo quanto noi. (Lo guarda fisso, poi fugge giù per gli scalini. Il re rimane immobile mentre cala la tela).

 

Scena VI

 

(Una stanza negli appartamenti della Regina. Il Re, la Regina, Polonio).

Re – Così mi ha lasciato. Quando l’ho incontrato di nuovo, da basso, mi ha trattato come se nulla fosse avvenuto. Non so dirvi cosa pensi.

P – E’ necessario saperlo. Amleto è complicato, e il suo silenzio non mi dice nulla di buono.

Re – Ma avrebbe potuto uccidermi già allora!

P – E se gliene fosse mancato il coraggio?

R – Non si tratta di coraggio. Se Amleto fosse stato deciso a ucciderlo, lo avrebbe fatto.

P – Allora questo dovrebbe dire che tutto è passato?

R – Non lo so.

Re – Io non lo credo. Poteva darsi che non fosse deciso allora e che si decida in seguito.

P – Possibile? (alla Regina), Maestà, voi lo credete?

R – Non so cosa dirvi. Amleto agisce secondo logica, ma secondo la sua logica. Non si può prevedere molto, di lui.

Re – Ma infine, Clara, tu sei sua madre!

R – Ciò non significa molto. Amleto non è più un ragazzo. E del resto, anche da ragazzo, m’ha dato molte occasioni di stupore (pausa).

Re – Tuttavia, voi capite, io non posso vivere in questa alternativa. Si decide, non si decide, vivo, muoio. Incontrarlo e vedere quel suo sguardo freddo, né di odio né di affetto, quel suo sorriso cortese che mi dà i brividi, vedergli al fianco quella spada che non abbandona mai… Avant’ieri l’ho incontrato in un corridoio deserto e mi ha fermato per una petizione di certi contadini che chiedevano Dio sa cosa… e io sudavo freddo!

R – Federico, forse è stata una tua impressione, forse sei suggestionato…

Re – Clara, non essere sciocca: nessuno vuole fargli del male, ma non parlarmi di suggestione! Certo, tu non hai nulla da temere: sei sua madre!

P – E che significa? Amleto non vi ucciderebbe solo perché siete suo parente solo in terzo grado!

R – No. Non alzerebbe un dito, su di me.

P – Vorrei poterlo credere. Ma non dimenticate che eravate insieme, quel giorno…

Re – Basta così, Polonio!

P – Chiedo scusa; se Amleto vi avesse ucciso sulla torre, si sarebbe potuto pensare che l’aveva fatto sotto la spinta della rivelazione. Ma se lo facesse ora, sarebbe per fredda determinazione, e non vedo per quale profonda ragione noi dovremmo…

R – Già. La rivelazione. Ma chi gliel’ha detto? Chi, se siamo solo noi tre a saperlo?

P – Certo non io che vi ho fornito il veleno, né voi due. Ho sentito che Francisco ha visto un fantasma sulla torre sud, e che son venuti a vederlo Bernardo, Marcello, Orazio, e poi anche Amleto. Potrebbe essere questa, la spiegazione.

Re – Assurda!

P – Meno assurda dell’ipotesi che uno di noi tre abbia parlato. Voi avete commesso… la cosa, io ho partecipato. Non volevate farlo, ma avete finito col farlo. Voi mi tenete se rivelate l’affare Goteborg, oltre il veleno, s’intende, ed io ho le prove della vostra… azione. Non c’è da sospettare di noi tre.

Re – Ma nessuno parla di noi! Non sospettiamo nessuno! Ma che importa: ormai lo sa. Qui si tratta di decidere cosa bisogna fare.

R – Non fategli del male!

P – Ma Maestà, è vita contro vita!

R – Ma chi vi dice che abbia cattive intenzioni?

P – E chi vi dice che non le abbia?

R – Ma non potete ucciderlo per nulla!

P – Io non ho parlato di uccidere.

Re – Del resto, non potrei permetterlo. Gli voglio bene. (alla regina che lo guarda riconoscente:) Ti ricordi di quand’era bambino? Con quel ciuffo nero sempre sopra gli occhi?

R – E quando ti chiedeva di parlargli dei tuoi viaggi? Ti ha sempre voluto bene.

P – Ma ha parlato di ucciderlo! Anch’io lo ricordo bambino: ma ora è adulto.

R – In fondo noi tre l’abbiamo deluso crudelmente.

P – Noi tre? Che c’entro io? (Colpito:) Vi ha parlato anche di me?

Re – No.

P – Ma… sa?

Re – Non credo.

P – E se sapesse, cosa mi salverebbe? Me mi disprezza, io lo so! Quanto vale la mia vita, ora?

R – Ma forse non sa niente.

P – E la mia vita si deve fondare su un forse?

Re – Polonio, la mia si fonda già su un forse!

P – A me non importa niente, io non voglio morire! Io non gli voglio bene, scusatemi se ve lo dico in faccia. Mi ha sempre guardato dall’alto in…

R – Ma non vorrete per questo ucciderlo!

P – (calmandosi) Oh no. Certo che no. (la Regina e il Re si guardano interdetti).

Re – Dovete giurarci che non gli farete alcun male.

P – Ma ve l’ho già detto.

R – Giuratelo.

P – Vi giuro che io non lo toccherò. Ma… qualcosa bisogna pur decidere!

Re – (alla Regina) Se tu gli parlassi?

R – Oh no, no! Oggi sento troppo il peso della nostra azione. Non potrei sostenere il suo sguardo. E’ mio figlio, capite? Anche se sa tutto, preferisco conservare tra noi questa finzione di serenità, questo pietoso silenzio… Lasciatemi almeno quest’ultima illusione, ve ne prego!…

Re – Ma cosa si può fare di diverso?

P – Forse…

R – Avete giurato!

P – Ma sì, non temete. Si potrebbe provare a mandarlo in Inghilterra.

Re – Con quale scusa?

P – Una qualunque!

Re – Amleto non lo si allontana con una scusa qualunque.

P – Ebbene… gli faremo arrivare una lettera in cui gli si dice che Albert di Norfolk sta molto male e vuole vederlo. Sapete che gli vuol bene.

R – Vostro nipote?

Re – E quando arriverà e vedrà che non è vero?

P – Io andrò con lui e sistemerò ogni cosa precedendolo.

R – Ma, Albert, si presterà?

P – A lui dirò che Amleto ha un grave esaurimento nervoso e che questo era l’unico modo di fargli fare un viaggio.

Re – (dopo una pausa)  Non è impossibile.

P – Fidatevi di me: sistemerò tutto io.

Re – Ma per quanto tempo riuscirete a trattenerlo là?

P – Spero almeno per due settimane: più il viaggio, quando tornerà sarà passato un mese. Io lo osserverò in Inghilterra, e saprò dirvi cosa va ruminando.

Re – Ma… e voi stesso?

P – Oh, per me! Sarò prudentissimo e non resterò solo neppure per un momento.

R – Dunque deve andar via ancora una volta!

Re – Cara, è necessario.

R – Polonio, ricordatevi del giuramento!

P – Non dubitate (volgendosi al Re). Maestà, ci attendono in Consiglio.

Re – Andate, vi raggiungo subito.

P – (alla Regina, inchinandosi) Maestà. (al Re, con un inchino meno profondo) Sire.

R – Arrivederci, Polonio. (questi esce).

Re – (abbraccia la Regina) Povera Cara! Lo sai che non ho nulla contro Amleto?

R – (singhiozza, ma quasi di nascosto) Oh, Federico, so che tu mi ami, ma quanto è triste, tutto questo! Amleto, mio figlio! Io l’ho allattato, gli ho insegnato a parlare… Ricordi che voleva regalarmi tutto quello che gli piaceva?

Re – Sì, amore. Ma non pensarci, ora.

R – Sì, invece. Questo è il nostro castigo!

Re – Ti prego, cara! Castigo del mio amore per te? Del tuo per me?

R – Lasciami sfogare, Federico! L’hai forse dimenticato, che c’è un morto, fra noi?

Re – No, certo. Ma calmati, cara. Non piangere. E poi i morti non sono più, lo sai bene…

R – Tu ne sei proprio sicuro?

 

 

Scena VII

 

(una stanza della reggia, molto semplicemente arredata).

A – Dunque è così. Lo zio ha ucciso senza odio. Mamma lo ama. Mio padre è morto e chiede vendetta. E’ strano come io non riesca a sentirmi l’arbitro di tutte queste vicende. Io, che potrei vendicare mio padre, e per questo dovrei a mia volta uccidere. E con ciò farei del bene all’anima di mio padre? Può un’anima che aspira al Paradiso voler vendetta, può gioirne?

No, non riesco a crederlo.

E poi, chi mi obbliga a credere a codesto Paradiso? Ah già, me ne ha parlato proprio l’ombra di mio padre. Può un’ombra mentire?

Anche un teologo da quattro soldi saprebbe dirmi che codeste apparizioni sono diaboliche e che non si deve prestar loro fede. Ma per me rimane il problema: si trattava in ogni caso dell’anima di mio padre, o era Satana stesso? Perché se si trattasse di mio padre, io potrei volerlo vendicare anche se è dannato.

Vendicarlo. Ma cos’è la vendetta? Render male per male. Una cosa da fare con rabbia e con soddisfazione. E io non sento né l’una né l’altra. Avrei dovuto uccidere mio zio sulla torre, senza discutere. Ormai è passato del tempo. Dei giorni lunghi come mesi.

O forse non si tratta di questo. E’ piuttosto che mi vedo circondato da un mondo sereno. Mamma e lo zio che si amano e son quasi felici; il popolo contento di un governo giusto e intelligente; la Corte stessa vive quella vita priva di avvenimenti che sembra monotona ed è la migliore.

So che questa mia spada, per fare giustizia, porterebbe lo scompiglio in un mondo di pace. (si alza, se seduto; o contra)

Fare giustizia. Qualcosa di astratto che ormai non fa più bene a nessuno. Non ne ho il coraggio. Non sento di assumere su di me tanta responsabilità. Anche se il fato, per agire, ha bisogno di braccia umane, non mi sento di prestargli le mie.

(con uno scatto di rabbia) E tuttavia, con quale coraggio vivere qui, accanto agli attori di questo orribile dramma? Perché mai l’ombra mi ha parlato, perché mio zio si è dimostrato così umano… Perché sa sentire con quella complicazione che scoraggia il nostro giudizio? Ha ucciso il fratello per sposarne la moglie; io sono il figlio dell’ucciso: che attendo?

Nulla, attendo. E’ soltanto che questo segreto siamo solo in tre, a saperlo; quest’angoscia non tocca nessun altro, e questo… la rende un po’ irreale.

Amavo mio padre, è vero. Ma ora è morto e questo cambia tanto le cose. O almeno, non sento di alzare il pugnale in nome di qualcosa che non può più essere salvato da quel pugnale. Un nuovo morto non ridarebbe la vita a mio padre, né il nuovo ucciso imparerebbe a non uccidere. E neppure potrebbe servire da esempio per gli altri, dato che questa brutta storia deve rimanere segreta!

C’è da sentirsi scoppiare il cervello.

E poi, come uccidere un uomo che dopo il nostro colloquio sulla torre rimane sereno, non mi scaccia via, non mi fa uccidere da un sicario…

Ma perché non sono un uomo come tutti gli altri, uno di quelli che si stupiscono che si possa dominare il proprio sentimento… Invece, a forza di pensare, a volte mi pare che dovrei uccidere, senza scampo, e a volte questo mi pare un crimine assurdo.

Potessi dimenticare tutto questo. O avessi almeno il tempo di aspettare… aspettare che la mia mente trovi un verità tanto grande da sacrificarle una vita!

(volgendosi si accorge che Ofelia è appena entrata ; sobbalza, ma si riprende con un sorriso

🙂

Stavo… stavo recitando una scena…

Of – (fredda) Buongiorno, Amleto.

A – (inclinandosi in un inchino secentesco, e sorridendo) Buongiorno, madamigella! Dove sei stata in questi giorni? E perché non hai voluto vedermi? (il tono di questa ultima domanda, senza essere drammatico, è perfettamente serio).

Of – Sono stata male.

A – Amore, perché mentire?

Of – Veramente, sono stata male.

A – Mia cara, chiudi gli occhi, quando menti, se non vuoi che occhi e bocca dicano due cose diverse.

Of – Ti assicuro che io…

A – (troncando) Non importa. Non ti ho vista, ecco tutto. Ed è stato lungo. Perché accanto a te sento alleggerirsi il peso di ogni cosa, e tutto sembra tingersi di bellezza; vedo tutto attraverso te… no; cerco troppo spesso le parole, per discorsi, ambascerie, mostre e ogni genere di seccatura. Lasciami essere semplice: ti amo, Ofelia. Tu non mi hai detto altrettanto, ma non ti chiedo nulla; solo la tua presenza, il tuo sorriso, la tua mano quando, se fossi migliore, piangerei.

Of – Mi ami molto?

A – Molto? E’ una domanda indegna di te: si può amare più o meno? Ciascuno di noi ha un solo modo di amare: quello vero.

Of – Non ti chiedo aforismi. Ti sentiresti di amarmi per tutta la vita?

A – Sentirmi. Per sentirmi mi sento, e finché lo sentirò, finché sarò questo Amleto che ti sta davanti, ti amerò.

Of – Potresti divenire un altro?

A – Non è impossibile.

Of – E quell’altro, mi amerebbe?

A – Perché chiedermelo, ne so quanto te! Ma ti accorgi che parli dell’amore come se fosse un’assicurazione? O forse sono io ad essere terra terra, oggi. Scusami.

Of – (dopo una pausa) Credi che mi renderesti felice?

A – (si ferma un attimo a pensare, poi alza le spalle e comincia a parlare, soprattutto al principio, con malcontenuta stizza) Hai deciso di farmi un terzo grado sentimentale? Chi può dare la felicità? E come potrei darla io, che non la possiedo? Ti darei la mia debolezza come tu mi daresti la tua, non altro. Saremmo in due, non soli, a vivere. Ti offro i miei tormenti, e le mie gioie; la mia buona e cattiva sorte, come dice il rito.

Of – Amleto, rispondi: mi faresti felice? ti prego di rispondere con un sì o con un no.

A – Cancellare la parte che non interessa. (ha detto questo allargando le braccia. Poi ridiviene serio). No. Nessuno lo può.

Of – Se fossi tua figlia, mi daresti in sposa a te?

A – Non sei mia figlia.

Of – Ma se lo fossi?

A – Dolce Ofelia, perché tormentarmi? Sento di amarti, gioisco della tua presenza, il tuo sguardo mi fa bene, tu… (scoraggiato dalla freddezza di lei) darti in sposa a me? No. Aspetterei che nascesse un essere perfetto, un uomo quale mai si è visto, un uomo che sapesse fati interamente felice. Questo anche perché temo che invecchieresti, accanto a me.

Mi hai parlato come una ragazza da marito, oggi. Hai messo in relazione le parole amore e matrimonio, e ciò mi ha spaventato. Tutta la vita. Chiedermi se comprando il disco di una musica che mi è piaciuta, continuerò ad amarlo sempre come la prima volta. Ofelia mia, la felicità si compra senza garanzie. Non so illudermi sino a dirti che il nostro matrimonio sarebbe l’eccezione, che noi inventeremo l’amore.

Tu sei giovane e queste parole ti sembreranno ciniche e fredde, ma sono la verità. Quando vorrai pensare a sposare un uomo, non chiederti se ti amerà sempre. Esaminalo: se il suo carattere e i suoi difetti sono tali che tu potresti vivere abbastanza bene con lui anche senza amarlo, sposalo. Le sue parole, i tuoi sentimenti non contano. A sessant’anni per un matrimonio d’amore ci sono centinaia di convivenze. Pensa a questo, dunque, se cerchi garanzie.

Per quanto mi riguarda, temo di essere freddo. Non con te: se tu fossi in me, vedresti quanto sento per te e ne saresti meravigliata. Lo vedo con gli altri. Che sono “gli altri” anche se sono i miei genitori o gli amici più cari.

Sono stato troppo solo. E troppo a lungo.

Per questo ho imparato così bene la separazione tra me e gli altri. E non posso nascondermi che persino nel mio amore per te c’è la riserva che se tu mi abbandonassi, cercherei di dimenticarti. E’ un vecchi abito di dolore e di sospetto. Non so più abbandonarmi, darmi a qualcosa. Come se avessi imparato che l’unica cosa che mi resterà sempre, che non mi abbandonerà mai, è il mio stesso io. Così, già da molto tempo, la mia prima cura è quella di vivere bene con me stesso. Per me sei molto, moltissimo. Non tutto. Potrei dirti che sei tutto, è perfino un luogo comune: ma mentirei.

Ho perduto l’innocenza e i vent’anni. Son cose che non si ritrovano.

Of – Ma hai detto d’amarmi.

A – E lo ripeto. Mentirei, anzi, se ti dicessi che non t’amo. Ma temo che tu ti faccia un’idea diversa di questo sentimento.

Of – Ci pareva ben lo stesso, l’ultima volta che ci siamo visti.

A – Forse lo era. Ma vedo ora che tu sogni dell’amore, mentre io non so più farlo. Io ti amo quale sei, quale sono.

Of – Non senti che potresti cambiare, per amor mio?

A – Credo proprio di sì: ma non crederei alla solidità del mutamento. I mutamenti per amore non durano più dell’abito nuziale di certi uccelli. (Ofelia comincia ad avere dei brevi singhiozzi) Piccola, non farmi pentire della mia franchezza.

Of – Oh no! Te ne ringrazio! E dimmi, hai anche pensato alle conseguenze del nostro amore, nevvero?

A – Conseguenze?

Of – Matrimonio politicamente sconsigliabile. Che ti porterei, io? Qualche feudo che è già tuo, perché è nel tuo stato. Quali relazioni? Sono inutile, io!

A – Ofelia! Come puoi pensare cose così spiacevoli?

Of – Ti prego, non essere diplomatico!

A – Sincero, allora. Non credo nel matrimonio, ecco. Se fallimento dev’essere, dal momento che io sono il principe, è meglio che sia un fallimento fin dall’inizio ma apporti qualche utilità al paese. E poi, per sposare te, dovrei vincere l’opposizione del governo, oppormi alla Corte, sconvolgere i piani di mio padre e – oggi – di mio zio. Forse non sono abbastanza romantico per farlo. O forse, come ti dicevo prima, non credo che tanto trambusto ci darebbe una felicità che non penso esista.

Of – Non mi avevi mai parlato in questo modo!

A – Non so abbandonarmi, ecco il mio difetto. Ed ecco che mi rimproveri l’unica volta che ho ceduto al mio vero io, dicendoti non solo l’affetto che ho nel cuore, ma anche i pensieri che ho in mente.

Of – Dovevi tacere, allora!

A – E’ solo oggi che mi sono reso conto che tu mi ami da… adulta. Oggi soltanto. Credevo ti piacesse essere corteggiata con una intelligente, affettuosa amicizia. E ho detto “ti amo” perché lo sento ed è bello dirlo. Non credevo che avrebbe avuto tanto effetto. Capisci almeno che le mie parole fanno male anche a me?

Of – Che vuoi che me ne importi! Dovevi tacere sin da principio, non si deve giocare con gli altri, e quando non ci servono più, buttarli via! (piange, o, se all’attrice questo dovesse riuscire difficile, è contesa tra l‘ira e la voglia di piangere).

A – Ma perché non m’ascolti, quando dico che t’amo?

Of – E con ciò, vorresti forse che fossi la tua amante?

A – Ofelia, ho mai fatto qualcosa in questo senso?

Of – Ma sapevi che ti bastava prendermi!

A – E non ti ho presa!

Of – (lo guarda un istante, duramente) Vigliacco. Mi fai orrore! (esce velocemente dalla scena, piangendo. Piangendo, se l’attrice è in grado di farlo in maniera convincente).

A – Ora sono il puro nulla, la perfetta solitudine. Ora vivo solo in prosa. E so perfino che non mi ucciderò. In tutti i modi, la morte sembra essere qualcosa di troppo grande per la mia miseria. (Siede. Accende una sigaretta. Guarda con disperazione il fumo che ha appena espirato. Tela).

 

Scena VIII

 

(sulla tolda della nave. Orazio e Amleto sono affacciati alla murata. E’ un notte di plenilunio).

A – Così tu mi accusi di essere troppo sincero?

O – Praticamente, sì. Quando la gente ti chiede “ti piace?”, l’unica risposta è “si”. Se te lo chiedono è solo per sentirselo dire , perché ti reputano all’altezza di apprezzare le cose che loro apprezzano.

A – E se io la penso diversamente?

O – Dai loro una delusione sul tuo conto, una delusione che si volge in disistima.

A – (dopo una pausa) In fondo devo confessare che non mi interessa la stima degli altri.

O – Questo è fin troppo vero. Ma fai male. Mi fa rabbia vedere che a volte gli altri ti sopportano perché sei il principe. Sei fuori del gioco sociale.

A – Il peggio è che mi piace essere come sono.

O – (dopo una pausa) Amleto, è inutile parlare di Elsinora. Qui tu sei il principe erditario, e tutti ti ossequiano. Ma a Parigi spesso sei stato antipatico. Agisci nella vita come se sconoscessi le tante convenzioni su cui si basa la società. E lì ti comportavi con tutti senza preoccuparti di nascondere il tuo disprezzo, se del caso. Ti credevano superbo perché principe, e son solo io a sapere che non è vero. Quando sei con me sei la più amabile, umile e semplice delle persone. Eppure, dato che anch’io ho i miei difetti, è certo che mi perdoni molte cose. Con gli altri…

A – Gli altri li disistimo, mentre tu sei Orazio!

O – Questo vuol dire solo che devi essere ancor più generoso con loro. Con quelli che, secondo te… Attento, Amleto!

(nel frattempo si era avvicinato un marinaio con un pugnale, tentando di colpire Amleto. Orazio gli assesta un tremendo pugno, mentre Amleto, snudata la spada, lo trafigge senza esitare. E’ una notte di plenilunio, ma con nuvole. Dunque, pure se è opportuno che sia visibile l’avvicinarsi del marinaio mentre i due protagonisti continuano a parlare, allo scopo di rendere più credibile la scena – specie in teatri male attrezzati – sarà opportuno diminuire la luce durante la scena che segue. Si vedono altre ombre accorrere verso i due, e suona la voce di Polonio che grida “addosso, addosso!”. Orazio, che è disarmato, afferra una sbarra di legno e mena all’impazzata. Amleto lavora freneticamente di spada. Orazio raccatta la spada di un assalitore. Arrivano in coperta altri due o tre marinai, evidentemente all’oscuro del tranello, che dànno manforte ai due. Polonio continua ad aizzare i suoi, agitando anche lui una spada. Nel corso della mischia Amleto si trova ad essere vicino a Polonio: questi incrocia la spada con lui, ma dopo qualche battuta si accascia con un gemito. Alcuni marinai scappano buttandosi in mare, altri fuggono, e poco dopo tutto è calmo. Solo un marinaio ferito si lamenta, da qualche parte: infine, nel corso del colloquio tra Amleto e Polonio, si tace. Amleto si avvicina a Polonio; qualche ferito sarà portato via a braccia. L’attività, sia pure dopo la fine della zuffa, deve spegnersi gradualmente).

P – Mi avete ucciso!

O – Dove siete ferito?

P – Non importa, ne ho per poco. Mi avete ucciso, disgraziato!

O – Questo vi insegnerà i limiti della fedeltà al re.

P – Figlio d’un cane, ti sbagli! Se potessi alzarmi ed ucciderti, lo farei. Lo farei mille mille volte!

A – (ad O) E’ la prima volta che lo vedo agire di testa sua. Pare impossibile: ha un’anima privata.

P – (fra i lamenti e la rabbia che gli toglie la parola) Assassino, disgraziato… Morire per mano tua! Questo è già più che la morte!

A – (calmandosi e divenendo freddo) Volete dell’acqua?

P – No! Ucciso da te! Bambino presuntuoso!

A –Via, Polonio, assumete l’aria che si conviene: in fondo morite servendo il nostro ottimo re Federico, sua Maestà il Re di Danimarca.

P – No! Tuo zio non sarà mai un re forte. È stata un’idea mia. Me ne vanto! Ahi!

A – Suvvia, fatemi vedere dove vi ho ferito. Orazio, vedi tu che hai più pratica.

P – Orazio, anche tu… lasciami andare, ragazzo.

O – State fermo.

P – Ahi!

O – State fermo, vi dico!

P – Lasciami morire, Orazio. Te ne prego, ne ho per poco. (si calma a poco a poco anche lui). Ahi; ahi; ahi; è duro morire. Amleto!

A –Sì, Polonio.

P –Amleto, ti odio. Ti ho sempre odiato, come ho odiato tutti i deboli.

A –Sì, ma ora basta. È troppo tardi, per odiare.

P –Amleto, Amleto!

A –Sono qui, accanto a voi.

P – Io muoio. Tu sei amico di Laerte. Non dirgli nulla di tutto questo. Ti prego, Orazio, basta. Non ditegli nulla, ve ne prego. Che il mio odio si spenga con la mia morte. Non fate del male a Laerte.

A –Siatene certo.

P –Amleto, ascolta. Io muoio, ma la mia idea rimane immutata: se regnerai, uccidi chiunque ti odia.

A –Non ve lo prometto.

P –Illuso! Tuo padre ha fatto così: per questo ha regnato a lungo!

A –Io non tengo a regnare a lungo. E la vostra morte mi dispiace.

P –Sei sciocco, Amleto! Lo sei sempre stato. Sciocco… (muore)

A –(si alza dopo una pausa, presto imitato da Orazio che teneva Polonio fra le braccia) Era più forte di quanto credessi. L’avevo mal giudicato.

Tutto va per il peggio, Orazio. Sono stanco. Ho ucciso. Le mie mano hanno rotto una vita. Solo poco fa eravamo così lontani da tutto questo! Ed ora un nuovo morto, per mano mia…

O –Anch’io ho ucciso.

A –No, tu no. Tu non sai chi hai ucciso. Io ricordo Polonio da anni, conosco le sue espressioni, la sua faccia, i suoi gesti. Qualcuno mi mancherà, anche se mi era antipatico. L’ho ucciso io.

O –L’hai fatto per legittima difesa.

A –(che quasi sta male) Sì, ma non per difendermi da lui. L’ho ucciso quando ho visto un marinaio che mi attaccava alle spalle. Questa vita è triste. Odio, rancore, interesse, ambizione, inimicizia… Oraio, sei fuori della vita tu, che non mi odii, non mi individii…

O –Sono soltanto tuo amico.

A –(barcollando) Soltanto questo! Che parola banale. E sei l’unico al quale possa aggrapparmi…

O –Ma tu perdi sangue! (Amleto gli cade fra le braccia e Orazio lo sostiene, aiutandolo a sedere lateralmente per terra e continuando a sostenerlo. La testa di Amleto crolla, significando ch’è svenuto. Tela)

 

Scena IX

(un cimitero. Due becchini lavorano ad una fossa. Amleto ed Orazio giugnono e si appiattano dietro un riparo          ).

O –Eccoci al cimitero.

A –E dev’essere morto qualcuno: stanno scavando un fossa.

O –Scavano e litigano. Da come gridano si direbbero uomini politici.

A –C’è proprio da pensare che il popolo diventa ogni giorno più colto e più corrotto, allora. (Si sono sentite delle frasi del tipo “Le tasse devono trasformarsi in servizi!”, “Le tasse si trasformano in servizi, caso mai: lo Stato non ha nessun dovere!”, “Il popolo paga ed ha diritto!”, “Nessuno ha diritti verso lo Stato!”, “Questo è formalismo!”, “Questo è diritto finanziario!”, frasi intercalate in qualche modo alla conversazione dei protagonisti) Ci hai azzeccato: parlano proprio di politica.

O –Vediamo un po’ che dicono.

I Becchino –Ma va là, piantala! Vuoi raddrizzare le gambe ai cani?

II Becchino – Ma che gambe e che cani! Sono questioni politiche che esigono ed ammettono soluzione! Il guaio è che i rassegnati, i vecchi come te, siete fatalisti e ritardate il progresso.

I –Per Giove, non ritardo niente, io! Io freno la tua cretineria e quella dei tuoi pari. Avete vent’anni e vi sentite riformatori! Acquistate un po’ d’esperienza prima di aprire il becco.

II – (gridando) Ah, basta! Sono stufo di questo ritornello dell’esperienza! Sono stufo di questa gerontocrazia, sì, “gerontocrazia” politica e intellettuale che dura da secoli! No, non ho ancora vent’anni, ma la verità ha forse un’età? È una vendetta troppo sciocca intercalare il “ragazzo mio” nelle discussioni. Vi piacerebbe se vi trattassimo da mane a sera da rimbambiti?

I –Non esagerare, calmati. Anche noi siamo stati giovani, e l’abbiamo pensata come te; ora siamo vecchi, e la pensiamo come la pensiamo; ora dimmi, non è naturale che reputiamo falsa e infondata l’opinione che abbiamo superata, che è stata solo un gradino per arrivare alla presente? E poi, riconoscerai che fra noi vecchi c’è una maggiore omogeneità di idee…

II –La verità non è statistica.

I –La verità filosofica no, ma qui siamo in politica. L’omogeneità delle nostre idee deriva dal buon senso e quello ha certo qualcosa da vedere con la statistica, se si chiama anche senso comune. (alzando le spalle) Non vi accusiamo filosoficamente di essere in un’età sciocca, ma praticamente la vostra età lo è. E questo influisce, credimi. Siete o del tutto a destra o del tutto a sinistra, avete spesso idee sballate, e…

II –E lasciatecele avere! Lasciateci essere giovani e rispettate la nostra personalità, almeno. Invece, voi vi imponete, ci opprimete, ci prendete in giro… ti assicuro che sento in me una tale rabbia…

I –Alt, al tempo. Ti stai accalorando, e questo di solito non succede, fra noi. Solo perché abbiamo cominciato parlando di politica. Nella politica ci si scalda perché ciascuno si sente minacciato nella propria vita, privata e pubblica. Che tu propenda per il determinismo ed io per la libertà, non importa passione perché praticamente tutti gli uomini si ritengono vicendevolmente responsabili, e la discussione rimane pura e scientifica. Ma quando si arriva in politica, e dal prevalere delle vostre idee si potrebbero avere pericolose esperienze costituzionali, ecco che noi vi teniamo al vostro posto, e ci imponiamo per il bene comune. Per questo ci chiamate reazionari. Poi, quando avrete raggiunto la nostra età, saprete che avevamo ragione e sarete a vostra volta dei reazionari. Questo ti spiega il gioco secolare della gerontocrazia.

II – Ma con ciò ammetti che voi ritardate il progresso! I – Nel diritto romano il tradizionalimso fu tale che il diritto fu sempre un po’ arretrato rispetto alla realtà; e tuttavia Roma rimane il più grande monumento giuridico e politico di tutti i tempi. Non abbiate fretta. L’Inghilterra non ha avuto fretta ed ha avuto la storia più bella dal mille in poi.

E poi ascolta. Le grandi società commerciali prima di apportare una modificazione al loro prodotto la studiano a lungo e con grande accuratezza. Nello stesso modo noi non ci entusiasmiamo per le soluzioni geniali e preferiamo studiarle a lungo. Se tu decidi di mangiare il doppio di carne, la cosa non è importante; ma se tutta la Danimarca decide la stessa cosa, la faccia del paese cambia. Ricordati che in campo politico ogni cosa va moltiplicata per milioni di volte (pausa).

II – Tu parli così, ma gli altri tuoi coetanei sono spesso sciocchi e intrattabili.

I – Come lo sono i tuoi coetanei. Felicitiamoci di essere noi stessi (spalano per un po’ in silenzio).

II – Finisce sempre così: siamo d’accordo su un punto, ma abbiamo lasciato da parte il nostro soggetto principale. L’imponibile, sostenevo io, va commisurato alla capacità contributiva e questa, a sua volta…

I – Scusa, per te è tardi. Riprenderemo domani la discussione.

II – Ma si deve finire questo lavoro: come farai, da solo?

I – Ci arriverò, non temere: non sono mai puntuali. Va’ pure.

II – Arrivederci, allora.

I – Ciao. (lo guarda allontanarsi con un sorriso e l’altro, prima di svoltare si volta a salutarlo cordialmente. Il Becchino risponde al saluto con la mano e si rimette al lavoro fischiettando. Ha una zappata lenta e vigorosa. A e O si avvicinano lentamente).

I – (alzando gli occhi per un attimo sui due signori e salutandoli con cortese freddezza) Buonasera, signori.

O – Buonasera.

A – E buon lavoro. Che mestiere fate, scusate?

I – Posto che per piantare patate questa buca è troppo grande, mi capita di pensare che faccio il becchino.

A – Vi abbiamo sentito discutere con quel giovane e non sono discorsi da ignoranti.

I – Non è richiesta l’ignoranza, per fare il becchino.

A – Siete inutilmente caustico, amico.

I – (ironico) Spero di non avervi urtato, signore, ne sarei troppo dolente! Solo che le vostre osservazioni sono state così… diciamo originali, che meritavano conveniente risposta. Se scavo una buca di due metri per ottanta in un cimitero ho diritto di non vedermi scambiare per un giocatore di golf, e se son becchino ho tuttavia il diritto di essere considerato un uomo ragionevole.

O – Non era che un modo di chiedervi… il mio amico si meravigliava semplicemente che un lavoratore del braccio, come si dice, fosse così intellettuale.

I- Il vostro amico ha torto: perché io lavoro col braccio ed ho dunque la testa libera per pensare alle cose mie, mentre un bancario ha la testa piena di numeri e di beghe non sue e non può pensare ad altro.

A – Non vi sbagliate, ma ammetterete pure che la maggior parte dei becchini non parla come voi, mentre è più probabile che lo faccia un laureato.

I- Giusto. Ma questa vostre regola generale serve appunto a togliervi la fatica di esaminare caso per caso se l’erudito sia colto e se l’umile non sia per caso profondo. Se mettete il cervello a riposare vi esponete a questi rischi, ecco tutto.

A – Avete una risposta a tutto, me ne congratulo. Rispondete allora a questo: ammettiamo che voi abbiate iniziato la vostra vita da becchino e l’abbiate continuata coltivandovi fino ad essere quello che siete. Ma quel giovane che era con voi, come mai fa il becchino o come mai, essendo becchino, parla con tanta competenza…

I – Mio signore, la risposta è talmente banale, che quasi mi vergogno delle lodi che m’avete testé fatte: quel giovane è mio figlio. Tuttavia, è vero, egli non farà il becchino; si sposterà all’anello precedente del ciclo di produzione e sarà medico. E voi, signore, qual è la vostra professione?

O – Come vi permettete di fare domande a Sua Signoria?

A – Ti prego, Orazio, qui non ci sono signorie. La mia professione è la vostra stessa, penso e vivo. Solo che non ho l’attività di becchino.

I – Un uomo fra i potenti? Dovete essere molto solo. Tuttavia, se non avete un posto di comando, potrete essere quasi felice.

A – Io ho un posto di comando, purtroppo: ma perché questo dovrebbe impedirmi di essere felice?

I – Perché, essendo onesto, la vostra coscienza dovrà lavorare anche per tutti coloro che da voi dipendono.

A  – È anche troppo vero. Ma dite, chi è morto?

I – Una ragazza. S’è uccisa, poverina. Ha fatto l’unica sciocchezza irreparabile.

A – Che sia irreparabile è indubbio, ma che sia una sciocchezza lo è meno.

I – Ammesso. Ma la ragazza ha fatto una sciocchezza dal momento che lo ha fatto per amore.

A – Non credete all’amore?

I – Se ci credo? Non solo credo all’amore, ma addirittura agli amori! Uccidersi significa essere sicuri che un nuovo amore sia impossibile. E questa è una sciocchezza.

A- Non credete all’amore vero.

I – Proprio no. Ogni amore che si reputa tale si reputa anche vero. Certo, il primo è il più accanito di tutti nel darsi questa qualifica. La ragazza era al suo primo amore.

A – E cosa le ha fatto, l’uomo che amava?

I – Niente! Cosicché potremmo dire che s’è uccisa per un niente.

A – Non l’amava.

I – Appunto. Del resto, non aveva tutti i torti. Un tipo capace di ammazzarsi è un tipo capace di scomodi eroismi.

A – Stavolta dissento del tutto. Qualcuno che sia capace di uccidersi e eroismi è il più degno di essere amato ed il più atto ad amare: perché l’amore importa coraggio, forza e sacrificio.

I – Signore, avete sentito la discussione che andavo facendo con mio figlio? Questa vostra idea è una classica idea da ragazzo. Parlate così perché avete dell’amore e del matrimonio una concezione letteraria e romantica. Parlate di un amore dove c’è comprensione, amicizia, intellettualità, perfino. E sottigliezze, complicazioni, decadentismo… No, no, l’amore non è tutto questo. Solo l’amicizia dei giovani può esserlo; ma la giovinezza passa. La vera moglie è quella che vi rammenda i calzini e vi vuol bene moderatamente. Perfezionare una macchina così fragile come il matrimonio significa esporla a dei guasti che prima non erano ipotizzabili. Sapere essere generosamente soli, ecco il matrimonio. Ho cercato l’amore a lungo e mi sono sposato solo a quarant’anni con un’ottima e semplice donna che mi ha dato Renato, mi aspetta a casa sfaccendando e non mi complica la vita.

A – Ma non sentite il bisogno di comunicare, di appoggiarvi sentimentalmente a qualcuno?

I – Ho sessant’anni: non credete che abbia avuto tempo a sufficienza per imparare che l’uomo è solo? Beh, io ho finito. Grazie della compagnia e scusatemi se vi ho urtato.

A – È stato un piacere conoscervi.

I – Troppo buoni. Se non volete assistere al funerale, andate via subito o fra poco sarete nella folla (va via).

O  – Un vecchio straordinario, bisogna dirlo.

A – Certo. Senti, e se fosse Ofelia?

O – Che ti salta in mente! Ofelia è troppo saggia per fare una cosa simile.

A – E che ne sappiamo, noi? Chi ci dice che non è una mancanza di prospettiva attribuire solo a noi la possibilità di un pensiero drammatico?

O – Ma è stata sempre una ragazza allegra!

A – Diffida delle ragazze allegre, allora. Restiamo, non posso tenermi questo dubbio (si sentono già i canti del corteo). Nascondiamoci.

Scena X.

(stessa scena. Un corteggio funebre. Un vecchio Abate)

Ab – Fratelli. Nella mia lunga viat, nella lunga serie di giorni alla quale posso volgere l’occhio del ricordo, pochi avvenimenti si iscrivono con un marchio di dolore più profondo, di quello che sento oggi mentre sto per parlarvi di questa giovane esistenza che si è spezzata.

Di Ofelia.

Pochi fra voi hanno avuto – come me – la possibilità di apprezzarne l’anima bella, sin da quando – bambina – veniva al convento e mi induceva a piegare le ginocchia ai suoi giochi infantili. E poi, giovinetta, a innalzarmi dall’alto della mia vecchiezza e del mio tormento di religioso ai suoi sogni incantati, alle sue deliziose ingenuità. Alla sua nuova meraviglia di scoprire la vita.

No. Non deve parlarvi l’uomo, colui che amò come voi tutte l’amaste questa fanciulla in cui Dio si compiacque. Io devo parlarvi da sacerdote e per mia bocca deve parlare la legge.

Questa giovane, lo sapete tutti, si è suicidata. È duro dirlo ma non dobbiamo avere paura delle parole. Paura si deve avere di Dio, che non ci ha dato il diritto di troncare quella vita che è un suo dono. È inutile ch’io mi dilunghi su questo argomento.

(La sua voce si fa più tagliente) Ma io mi vedo intorno dei visi che riflettono sin troppa severità, ed è a costoro che voglio parlare. A costoro che non arretrano dinanzi all’immensità della morte e azzardano empi giudizi, umani e divini.

Qualcuno fra voi pensa che il suicidio sia un atto di viltà, nevvero? Giudizio frettoloso. Sapete voi la differenza che passa tra l’idea di saltare in un fiume in piena e l’atto dello staccarsi dall’ultimo sostegno? Conoscete voi la sconvolgente angoscia di questo momento, la protesta dell’istinto di conservazione?

Oh sì, lo so. Voi non alludete a questa, viltà. Voi alludete alla decisione del suicidio. Ed anche in questo siete frettolosi. Il suicidio è la rinuncia alla vita. Rinuncia, ho detto, non fuga. Il suicida abbandona dunque un mondo al quale nulla più lo lega, dal momento che la morte gli appare preferibile alle vita.

Nessuno di voi ipotizzerebbe in me un candidato al suicidio, credo, e in verità nemmeno lontanamente penso di abbandonare di mi volontà quest’esistenza nella quale dio vuole ancora tenermi.  Ma c’è un punto nel quale vi sbagliate: ed è nel credere che io non mi suiciderei in nessun caso. No. Io vivo in Cristi e per Cristo: egli è la speranza della mia vecchiezza, la luce ultraterrena di questi poveri occhi semispenti. Egli è tutto, per me. Ebbene, se per pura ipotesi, non scandalizzatevi,  io dovessi improvvisamente apprendere… che Dio non esiste, che la mia è stata una lunga illusione, cosa mai mi legherebbe alla vita? Io sarei vile se non mi suicidassi!

Non voglio con questo dire che ogni suicida sia giustificato. Il saggio di Epicuro che si allontana dalla vita quando non sappia più trarne gioia, da saggio, è l’ultimo grado della giustificazione, in quanto nell’epicureo manca un ideale soprannaturale che illumini l’ideale naturale. È certo viltà abbandonare la vita perché non si è capaci di sopportarla pur ritenendola santa e divina. Ma un Catone che si toglie la vita perché, per lui, il bene supremo è la libertà, chi si sentirebbe di condannarlo?

Per questo vi dico che il vostro giudizio è stoltamente severo. Voi sentite profondamente la santità della vita, ma il suicida non sente affatto questa santità: come lo condanneremo per aver violato una legge che non conosce?

La vita è bella, nessuno di voi vorrebbe rinunciarci: e allora, come giudicheremo noi – innamorati della vita – coloro che non l’amano?

Non voglio fare l’apologia di un atto di ribellione a Dio e alla sua legge. Voglio solo spiegarvi Ofelia.

Ofelia amava. Era giovane e nell’Amore aveva trovato la ragione della vita, in esso acquistava bellezza ogni giorno, ogni raggio di sole, tutto. Amava con semplicità, senza pose e senza compiacimenti.

L’Amore. Quanto spreco facciamo di questa parola! Ma fra tutte le accezioni, quale più nobile e più veritiera del sentimento di questa fanciulla, così profondo da andare oltre la vita, da superare di tanto ogni altro legame terreno! Senza amore, Ofelia è una povera cosa muta e fredda: senza vita…

Ha sbagliato. Ma lasciate a Dio il giudizio. La vendetta è mia, disse Geova. Non siate farisaici, solo Dio sa tutto e vede tutto. Pregate per i vostri peccati e non azzardate previsioni sulla decisione di quell’Unico che può decidere.

E non giudicate nemmeno colui che avrebbe potuto e dovuto, più di ogni altro, comprendere questa bellezza; perché l’amore non può essere comandato e ciascuno è responsabile solo della propria vita. Questo giovane…

A – Vi sbagliate, padre. E voi pure, gregge d’ipocriti! Se mai donna fu amata, questa fu Ofelia; e se rinuncia dolorosa vi fu…

La – Taci, sventurato, o ti farò tacere io!

A – Taci tu, Laerte, ché se la tua ira è figlia del doloro, non è più grande della mia!

La – Vattene, vattene, assassino!

Ab – Figlioli! Amleto, Laerte!

A – Fate tacere questo stolto e lasciate ch’io spieghi…

O – Andiamo, Amleto, non qui!

Ab – Ti prego, Amleto, e tu, Laerte, allontanatevi da questo luogo sacro!

La – (mentre lo trascinano via) Te la farò pagare!

O – Andiamo, vieni via, ti prego!

A – Che idiota! Pagherò per tutta la vita, io.

Scena XI

O – Non considerarmi indelicato, ma non ne posso più di vederti in questo stato. Devo parlarti. So che amavi Ofelia, so che il tuo dolore è senza limiti, ma non puoi restare così, passivo, senza reazione!

A – Come vuoi che reagisca, alla morte?

O – Nessuno ti dice di reagire alla morte. Devi soltanto aprire gli occhi sul verde che c’è fuori, sul sole, sulla vita! Non ti sembri ch’io voglia sottovalutare la morta, ma la vita continua!

A – Conosco la sincerità dei tuoi propositi. Grazie. Ma come vuoi che dimentichi? L’ho vista in ognuno di questi angoli; come vuoi che scacci dalla mia mente le mille immagini di lei che ogni luogo mi ripresenta? E poi: come potrei volerlo?

Smettila, ti prego, di cercare d’aiutarmi. Lascia che almeno una volta senta sfogarsi in me tutta la violenza di un sentimento puro. Voglio abbandonarmi a questo vortice, vorrei non uscirne mai. Orazio, tu mi sei caro, ma sei così pesante, così reale! Accanto a te la luna che sorge è bella ma è più grande e più rossa per ragioni di astronomia. Accanto a lei rinascevo con spirito puro. La luna era più grande perché era più vicina alla terra. Era rossa perché l’avevano fatta arrossire, quelli dell’Est. Mi dava, solo lei, la poesia del creato;  aboliva totalmente  il peso del pensiero e del dubbio. Accanto a lei svaniva ogni mio atteggiamento sociale. Ofelia era pura bellezza. Era l’Amore, per me. O almeno, quello che se ne può avere su questa terra. Senza lei, so che non avrò più momenti di grazia, che la vita mi peserà senza un momento d’illusione, giorno dopo giorno fino alla vecchiaia. Come ritrovare la giovinezza? Passerò tutta la vita senza mai, svoltando un corridoio, possa incontrarla, sorridente e viva? Ci pensi che non la vedrò mai più? Mai, mai! Senza speranza, senza rimedio… capisci tutto questo?

O – Ho perduto mia madre.

A – Lo so. Ma non te ne puoi sentire responsabile!

O – Non dire assurdità. Non è colpa tua: se l’hai allontanata da te è stato con sacrificio e per il suo bene, perché sapevi che la tua vita aveva ora altri scopi e altri pericoli. Questo voglio dirti: sii umano, rassegnato; collabora col tempo…

A – Per Dio, no! Questo no! (improvvisamente calmandosi) Scusami, so che mi vuoi bene. Ma è proprio questo, comprendi? Non voglio dimenticare, non voglio scusarmi e consolarmi proprio perché so che così avverrà. Che ogni giorno scolorirà un poco il pensiero di lei e la sua immagine. Che lei scomparirà come se non fosse mai esistita, che non ne resterà che un nome –e un vago ricordo. Morta per me, morirà anche per me. Fioriranno altre primavere, io stesso rifiorirò; e tu, e Laerte, e tutti.  Sulla sua stessa tomba i passeri faranno l’amore. Mi rassegnerò, certo. Non è per niente difficile. (si sentono dei passi, appare Ulrico)  .

U – Buongiorno al principe Amleto e a te, Orazio.

A – Salve.

O – Buongiorno. (ad A) Devo andar via?

A – No, rimani. Che nuove ci porta il nostro Ulrico? Come sta l’ottimo Laerte?

U – Bene, grazie. Vengo in nome suo. (guarda O) Si tratta di questioni personali.

A – Orazio può rimanere, parlate pure.

U – Laerte mi invia quale latore del suo cartello di sfida.

O – Sfida?

U – Esattamente (sempre ad A) Egli si è sentito offeso da voi.

A – Laerte. E in quale circostanza? Al cimitero è stato piuttosto lui che m’ha insultato.

U – Anche ammesso ciò, Ofelia si è suicidata per colpa vostra.

A – Come potete pensare una cosa simile? So che era innamorata di me, ma si può farmi per questo responsabile della sua morte?

U – Voi non l’avete corrisposta. E forse lei credeva…

A – Ma santi numi, che ne sapete, voi? E poi, tutto questo offenderebbe Laerte? In che modo?

U – Voi siete inoltre responsabile della morte di un’altra persona.

A – Giacché siete così bene informato, saprete pure che non sono stati io a prendere le armi.

U – Mio principe, io non ho nulla, contro di voi. Sono amico di Laerte ed egli mi ha incaricato di questo spiacevole messaggio: vi chiedo scusa ma questo è tutto.

A – Ulrico, sei anche mio amico, credo. Ti prego di portare a Laerte questa risposta: in questa reggia ci son già state troppe morti, evitiamo di spargere il sangue dei vecchi compagni di gioco, degli amici di sempre! Sei amico comune, e sai perfettamente quanto bene siamo stati insieme Laerte ed io qui e in Francia. Digli che mi sento innocente di ogni colpa, che non sento in nessun modo di avere peccato contro la nostra amicizia. E digli tuttavia che son disposto… disposto a chiedergli scusa, a dargli le riparazioni che chiede, tutto quello che vuole, ma non si versi del sangue! Riferirai tutto questo?

U – Perdonatemi, principe. Laerte mi ha detto espressamente che qualunque cosa voi possiate dire, il suo messaggio non cambia. Egli vi sfida e non ammette nessun’altra soluzione.

A – Ma io gli chiedo scusa!

U – L’ha previsto, e la risposta è no.

A – Ma perché, in nome di Dio!

U – Signore, io non sono che un messo.

A – Ah già. Ebbene, digli che, se vuole uccidermi, mi tenda un tranello, invii un arciere dove passeggio la notte. Rifiuto la sfida.

U – Riferirò, principe.

O – Un momento, Ulrico. (ad A.) Non puoi rifiutare. Quanto hai detto è coerente con i tuoi principi e forse un giorno sarà cosa comune non accettare una sfida fuori di luogo. Ma qui, e in questo tempo, non si può. Sei un principe e tutta la Nazione guarda a te. Non puoi disonorare il tuo nome. Tu sei Amleto, non te stesso.

A – Anche questo è innegabile. Ma insomma è mai possibile che io non debba poter disporre di nulla? Che siano sempre gli altri a decidere per me?

Ebbene, di’ a Laerte che accetto la sfida, quando e come vuole. E che sia finita.

U – No, non tutte. Non sprechiamo il meglio del nostro cuore. Riferisci soltanto: “Amleto accetta e lascia a voi la scelta delle modalità”. Nient’altro.

U – Nient’altro, sulla mia parola. Buongiorno, principe. Buongiorno, Orazio.

O – Ciao, Ulrico (U esce).

A – Ma perché, perché?

O – Non lo so. Il destino si accanisce contro di te.

A – Inutilmente, credimi. Ha vinto già da tanto tempo!

 

Scena XII

(una grande sala. Dame, armigeri, cortigiani ecc.)

A – Alle loro Maestà, il mio umile buongiorno. Dame e Cavalieri… (inchinandosi alla folla) e buongiorno a te, fraterno amico.

La – (baloccandosi con la spada) Buongiorno.

A – Signori, voi tutte conoscete quanto Laerte rifulga nel maneggio della spada. E se, come penso, molti di voi son venuti ad assistere alla sua vittoria, ad ammirarlo nel suo schermire agile ed efficace, penso non mi taccerete di vigliaccheria se deciderò che la… denominazione di quanto sta per avvenire non sia duello, bensì, cavallerescamente, sfida, cui sua Maestà mio zio si degnerà di porre un premio. Non è vero, Maestà?

Re – Certamente.

La – (come sopra) Non accetto!

A – Attendo, amico mio. Tutti sanno che hai voluto questo duello e che io l’ho accettato. Ma non senti tu quanto questo è orribile? Come posso lottare contro di te, come posso tentare di ferirti, se non ti odio? Se il tuo viso mi ricorda le mille ore passate insieme?

La – Basta!

A – No, invece. Io non sento di aver peccato contro di te, non sento di averti offeso. Ché se così fosse, te ne chiederei umilmente scusa. Vuoi dunque la mia morte? E a che ti può servire? Troppe morti ci son già state, perché una di più possa consolare. Un duello non è il modo di fare giustizia. Può rimetterci chi ha ragione, non pensi a questo? (pausa) O infine, nessun muro ci divide, parla!

La – (al maestro d’armi) Tutto è pronto?

Mda – Sì, signore.

La – Si cominci.

A – Ti scongiuro, non agire sotto un’ira sconsiderata, pensa di quante azioni non ci si pente, dopo!

La – Infine, Amleto, hai parlato troppo: rifiuti una sfida d’onore?

 – Laerte, non essere scioccamente formale, non falsare le mie parole.

La – (guardandolo fissamente) Rifiuti o accetti?

A – (dopo una lunga pausa) Accetto. (selvaggiamente:) Si dia inizio agli scontri.

(Il duello ha inizio e sarà compito del regista e del maestro d’armi fare che abbia una certa durata e un tono drammatico. Gli spettatori commenteranno con qualche notazione tecnica – che sarà suggerita durante le prove dal consulente per la scherma – quale “ha parato bene”, “hai visto che bella quinta?”, “Laerte sembra più aggressivo”, “Amleto dovrebbe attaccare…” ecc. La Regina è invece visibilmente emozionata finché, non resistendo più, sta per alzarsi e andarli a dividere gridando “Basta, basta, Amleto, non posso sopportare tutto questo!”, quando vien trattenuta da alcuni gentiluomini. Tuttavia il suo grido, la sua frase, i suoi singhiozzi hanno fatto voltare Amleto, che para male ed è scalfito da Laerte.

I Giudice – Primo sangue!

II – No, Amleto s’è voltato.

I – Non conta. Primo sangue.

II – Non ci sarebbe merito, da parte di Laerte.

III – La decisione spetta dunque a me. Si continui, salvo diverso desiderio contrario di Amleto.

A – (veramente in collera) Continuiamo! (si trasforma in una belva, attacca furiosamente, vertiginosamente. In confronto con la prima parte, questo momento del duello dev’essere ciò che un film western è rispetto a un film in costume. Nella furia, si scambiano le spade. Poco dopo, con mossa fulminea, Amleto trafigge una spalla di Laerte, che si accascia gemendo. Raccapriccio nella sala. Il Re e la Regina balzano in piedi. Ulrico ed Amleto accorrono a Laerte. Questi è tenuto sollevato da Ulrico e guarda ansando Amleto).

La – Fai uscire tutti, te ne prego.

A – Fuori! Andatevene! (all’esitazione dei cortigiani fa un balzo verso di loro, spada in pugno. Quelli fuggono) Presto, dico! (le porte sono rinchiuse. Restano il Re, la Regina, Ulrico, Orazio e i duellanti).

La – Questo duello non fu onesto. Io sto per morire, e tu pure, benché la tua ferita sia meno grave. Il fioretto che ci siamo scambiati era… avvelenato.

A – Impossibile!

La – È vero, invece. L’ho fatto avvelenare io stesso.

A – Tu?!

La – Non stupirti. (parla lentamente, ansando, con una breve pausa ad ogni corta frase). Sei la causa della morte di mio padre e di mia sorella. Volevo vendicarli. Non potevo farti uccidere, son faccende sporche. Così ho scelto questa via… Più ignobile, ma sconosciuta. Ora… son preso nella mia stessa rete. Ma l’ho meritato.

A – Laerte… morrò dunque per mano tua, io. Ma non ti serbo rancore…

La – (incredulo) Mi perdoni?

A – Sì. Tengo così poco alla vita! Ma almeno dimmi, perché vendicarti su di me? In cosa ho potuto offenderti? Oferlia… Non ero nemmeno qui; e tuo padre…

La – So tutto. Ma non ho voluto ragionare e non lo voglio. Ho voluto odiarti.. e forse ti odio ancora.

A – Ma cosa puoi rimproverarmi?

La – Tutto. E forse nulla. Fammi morire in pace…

A – Laerte! (questi si accascia. Amleto si alza, guarda i presenti mentre sussurra “è morto”, poi fissa il Re intensamente, con uno sguardo da folle. La Regina lo guarda terrorizzata. Improvvisamente, con un balzo, Amleto va dal Re e lo trafigge da parte a parte. Questi cade a terra ferito a morte e chiede “perché?”

A – Perché ha ragione Laerte. (barcolla) Perché parlo troppo, mentre le morti van vendicate. Il mondo non è di chi ragiona troppo, è meglio seguire la regola comune (la Regina abbraccia il Re caduto, piangendo) Tu ed il abbiamo calpestato il mondo e le sue leggi. Tu hai ucciso per tornaconto, scatenando queste sciagure insensate. Io… (segni evidenti di malessere) io sto per morire per non aver vendicato in tempo la morte di mio padre, perché mi son permesso di giudicare la vita, di pesarla… di ascoltarti, zio. E di bestemmiare insieme con te i doveri di un fratello.

Perché mi guardi così? Ti sembro strano? No, non son cambiato. Non credo di aver fatto giustizia, non quella giustizia, almeno, sovrumana, spregiudicata ed economica di cui parlavamo. Mi son comportato da uomo comune, mi son fatto strumento del fato.

Ti ho ucciso perché hai ucciso tuo fratello, ecco tutto. Così come io muoio innocente da colpe verso Laerte, e per mano sua. Innocente? Forse no. Se gli ho perdonato, è perché io sento di meritare questa morte: Ofelia s’è uccisa perché io ho rifiutato l’Amore, la vita comune, le illusioni, il sacrificio della mediocrità… (cade)

Re – (con un filo di voce) Ma continui a comprendermi…?

A – Come comprendo me stesso… E poi, non c’è colpa che una bella morte non lavi.

R – (alzandosi improvvisamente da accanto al Re e interrompendolo prima che abbia finito di dire la frase precedente) Ma parli ad un morto, non vedi? Tu l’hai ucciso. E per la mia stessa colpa: (porgendogli un’arma) uccidimi, allora! Uccidi anche me!

A – (crolla la testa) No, madre. Non potrei alzare un’arma contro di voi.

R – Non merito nemmeno la morte, dunque? E poi, che cosa mi resta, ora? Oh… (si uccide).

A – (quasi svenuto, nelle braccia di Orazio) Tutti sono morti. Mia madre è morta. Laerte. Mio zio. Ofelia. Mio padre… Orazio!

O – Sì, Amleto.

A – Orazio, è un lago di sangue. Ma non ho voluto il male di nessuno.

O – Lo so.

A – Ho sempre cercato la pace, la serenità… e invece la vita… Orazio!

O – Parla, sono qui.

A – Lo sai che non ho mai odiato nessuno?

O – Sei stato un uomo di buona volontà.

A – E un debole. Mi perdoni la mia vita? Tu mi chiami ancora amico, malgrado tutte queste morti…

O – Amico, amico, con tutta l’anima!

A – Grazie. Se un’eternità esiste, tu avrai una gratitudine eterna.

Tela

Gianni Pardo

AMLETOultima modifica: 2012-07-22T13:55:00+02:00da gianni.pardo
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