LA SECONDA OCCASIONE DI STEFANO

I

 

Da prima aveva pensato, chissà perché, a gaudenti della borghesia ricca che scherzavano per la strada ma già a qualche centinaio di metri di distanza si rese conto che quella signora non scherzava affatto: stava accanto alla sua enorme Mercedes con l’aria disperata e chiedeva aiuto. Accostò, scese e prima ancora che potesse dire qualcosa la donna gli scaricò addosso un fiume di parole:

– Il mio autista. Il mio autista s’è sentito male, credo, ha perso il controllo ed ha sbattuto contro quell’albero. Io avrei preso il volante ma è grasso, non riuscirei a spostarlo.  E poi non so se l’auto funziona ancora. Lei ha un telefonino? Ha un’idea di come si chiama un’ambulanza? Io non mi son fatta male ma lui non so. Ha perso i sensi. Ha un telefonino? Ma diamine, faccia qualcosa!

– Signora, mi dia il tempo di prenderlo, lo tengo nel cassettino.

Tornato in macchina, cominciò a chiamare la polizia – l’unico numero che avesse in mente – e attraverso la polizia un’ambulanza. Mentre faceva tutto questo guardava la signora. Sembrava sconvolta dalla preoccupazione e tuttavia rimaneva molto elegante ed attraente. Non aveva mai capito nulla di vestiario, ma era chiaro che quella non si vestiva con gli abiti dei grandi magazzini. Bella donna, indubbiamente.

– L’ambulanza arriva subito.

– Grazie, disse la signora, un po’ rinfrancata. Neanche so se l’auto funziona. Che significa quel liquido per terra?

– Che ha bucato il radiatore. Non può usare l’auto. Neanche dopo che sarà arrivata l’ambulanza.

– Mi può chiamare un tassì?

– La posso accompagnare io, se non abita troppo lontano.

– Lei è veramente molto gentile. Non vorrei disturbarla…

Poco dopo cominciò a sentirsi, da lontano, l’ululare dell’ambulanza nella notte e nessuno disse più una parola. Stefano andò a vedere come stava l’autista ma ne ricavò solo uno stringimento di cuore. Il poveruomo aveva gli occhi di cui si vedeva solo il bianco, era completamente abbandonato, respirava a fatica, perfino rantolando un po’, e pareva dovesse morire da un momento all’altro. Non sapendo che altro fare, per lui, gli slacciò la cintura di sicurezza.

Poco dopo il personale dell’ambulanza, con indifferente professionalità, si occupava dell’uomo privo di sensi. Con estrema cura, temendo qualche frattura interna, cominciarono a tirarlo fuori dall’auto. Chiamarono anche il conducente, di rinforzo, “Visto che questo qui pesa almeno centodieci chili”. Comunque riuscirono a caricarlo nell’ambulanza, mentre la signora continuava a chiedere loro che cosa avesse, dove lo stavano portando, che cosa poteva fare per lui, fino a farsi dire “Senta, non si preoccupi, ce ne occupiamo noi”. Poi le diedero un biglietto con i loro dati e i dati dell’ospedale. “È anche per sapere a chi pagare il nostro intervento. Paga lei?”, aggiunse il conducente, ottenendo di farsi mandare al diavolo, per la signora questo era l’ultimo dei problemi. Stefano intervenne dicendo che non dovevano preoccuparsi e che cercassero intanto di salvare il pover’uomo. Infine l’ambulanza andò via, con grande strepito di sirena e dardeggiando il suo lampeggiatore.

Il silenzio che seguì sembrò irreale. Dalla concitazione all’immobilità, al buio, alla quiete notturna. Non tirava neanche un alito di vento.

– Dove abita?

– Veramente a Trecastagni. Vicino Trecastagni. Ma lei mi chiami un tassì!

– Se lei non vuole andare con uno sconosciuto le chiamo subito un tassì, se è per non disturbare, come si dice in questi casi, lasci perdere.

– No, che c’entra, lei è stato così gentile!

– E oltre tutto, se fossi Jack lo Squartatore, lei è già sola qui con me.

Finalmente la donna sorrise e gli tese la mano:

– Mi chiamo Bassi, Alessandra Bassi.

– Ed io Bond, James Bond. No, semplicemente Stefano Leone.

La signora chiuse a chiave la sua auto, lasciando prudentemente accesa una luce di stazionamento, e si avviò con Stefano verso la Uno. Arturo, l’amico di successo, aveva ragione, avrebbe dovuto cambiarla, quell’auto. A momenti si vergognava di accogliere quella signora così evidentemente ricca ed abituata al meglio. Non gli fu nemmeno possibile farla sedere subito, perché dovette prima sgomberare il sedile dei libri e dei giornali che lo coprivano, gettandoli sul sedie posteriore, già anch’esso invaso da cianfrusaglie.

– Non è che lei porti in giro molti passeggeri, osservò Alessandra.

– Eh no. Comunque, il sedile è pulito.

Una precisazione, pensò, che ad una persona normale non verrebbe in mente di dover fare. Ma ormai l’aveva fatta.

Una volta raggiunta la provinciale cominciarono a trovare più traffico, ma era chiaro che l’ora era già piuttosto avanzata e presto non ci sarebbe stato più nessuno, per la strada. Forse avrebbe dovuto fare un po’ di conversazione, pensava, ma non ne aveva voglia. Come sapere che cosa poteva interessare una signora così? E poi, se avesse recitato la parte del simpaticone, lei avrebbe pensato che voleva corteggiarla. Chissà, magari per offrirle l’occasione di rispondergli: “Ma lei si è mai guardato allo specchio?”

Fu infine lei che non resistette al silenzio:

– E lei dove abita?

– In periferia, sopra Cìbali. Ma non è così terribile come si potrebbe pensare.

– Effettivamente Cìbali è un posto piuttosto brutto.

– Basta vivere in una casa araba, per così dire, o romana. Cioè rivolta verso l’interno.

S’accorse che Alessandra s’era voltata verso di lui e lo guardava perplessa. E si vergognò. A volte sparava un dato culturale come si dà di gomito fra vecchi amici, questa cosa la so io e la sai anche tu, sicché me la cavo con un accenno. Se poi invece l’altro la cosa non la sa, si fa la figura dei presuntuosi. Decise di proseguire come se si fosse trattato di una semplice pausa, cui contava di far seguire una breve spiegazione.

– Chiusa all’esterno da un muro e aperta sul giardinetto interno. La stradina inoltre è silenziosa e posso ignorare il resto del mondo. Non sento neppure rumori di vicini di casa. Non è vantaggio da poco.

– Ma le persone che vivono con lei… cominciò Alessandra per interrompersi immediatamente: A proposito, perché non avverte del ritardo con cui rientra?

– Perché Grif non ha ancora imparato a rispondere al telefono. E potrebbe essere in giro anche lui, in cerca di gatte in calore.

– Il suo gatto?

– Sì.

Alessandra rimase in silenzio e lui continuò a guidare rimpiangendo di non potersi voltare a guardarla, per non avere l’aria di esaminarla. Percepiva però il suo profumo, vagamente amaro, che a poco a poco aveva riempito l’auto, tanto che non sembrava più la stessa. S’era creato un ambiente emotivo diverso da quello cui era abituato e la tentazione di guardarla nasceva dalla voglia di controllare che il resto di quella presenza fosse in linea con quel sottile profumo.

Lei nel frattempo guardava avanti la strada che si snodava tranquilla, metro dopo metro, come se tentasse di rappresentarsi il quadro di quella casa ignota, di quel gatto ignoto, inserendoci l’uomo che le stava accanto, che le appariva tranquillo e sicuro di sé. “Come uno scoglio in un mare tranquillo”, pensò. Quell’accenno al gatto significava che era triste perché era solo o amava il suo gatto perché non riusciva ad amare l’umanità? Certo, ne aveva parlato come di una persona di famiglia, col suo carattere, i suoi diritti, la sua indipendenza, quasi in grado di rispondere al telefono. Sembrava l’unica finestra di quella casa senza finestre.

– È un bel gatto?

– È più che bello, è il mio gatto. O, più esattamente, sono io che sono suo. Mi ha accettato come servitore ed eventualmente come amico.

Lei rise.

– È più fortunato di me! Mai la mia Marietta direbbe che le ho fatto l’onore di accettarla come mia cameriera!

– Perché Marietta sa che lei ha bisogno di lei. Mentre Grif non ha bisogno di nessuno e se accetta un amico è per motivi puramente spirituali.

Aveva provato a dirlo con estrema serietà ma non resistette e gli venne da ridere. Sicché aggiunse:

– Un gatto non è come un bambino, posso dirne le cose più lusinghiere senza che si monti la testa. Ecco perché a volte mi diverto a dargli del lei o gli faccio perfino passare qualche capriccio.

Erano già arrivati in paese e fra un’indicazione e l’altra sulla strada da prendere Alessandra gli chiese:

– Grif è autonomo e solitario, ma è un gatto. Lei invece sembra autonomo e solitario, ma non è un gatto. Le va bene così?

– Mi va bene se penso all’alternativa.

– Parla sempre così difficile? Senta, questa serata m’ha fatto passare il sonno. E poi devo telefonare alla famiglia di Giacomo, si allarmeranno, giustamente, se non lo vedono tornare. Lei sale, beve qualcosa, poi ci separiamo e domani è un altro giorno.

La villa in cui entrarono, dopo che l’enorme cancello di ferro si fu aperto con la solennità e la lentezza che le sue dimensioni imponevano, era impressionante. Furono accolti da due grandi cani bastardi che, riconosciuta la voce della padrona, continuarono ad accompagnare l’auto girandole intorno, uggiolando e scodinzolando.

Chiunque può avere una grande casa, chiunque può avere un giardino, ma perché la casa parli di antica ricchezza, perché il giardino parli di bellezza anche se è trascurato, sono necessarie parecchie generazioni. Poco dopo l’ingresso una panchina sbilenca parlava di pomeriggi assolati, passati a leggere sotto le fronde. Più oltre, invece, un giardiniere aveva rimesso a nuovo un’aiuola in cui splendeva la salvia ed un concerto di fiori e colori che non avrebbe saputo nominare. Sullo sfondo un grande albero, simile al reduce di una battaglia, lasciava pendere un ramo morente, colpito dal fulmine. Infine, dinanzi all’ingresso, s’apriva uno spiazzo circondato da giare da cui fuoriuscivano grandi cactus: in totale sembravano enormi ananas, con un ciuffo sovradimensionato.

La casa era a due piani: un piano terra dalle volte altissime e un primo piano basso, forse in origine destinato alla servitù. La porta dava su un salone immenso, chiaramente settecentesco anche se l’arredamento era composito. Molti mobili erano vecchi, persino un po’ malandati, mentre esistevano già isole d’arredamento moderno, costoso e funzionale, in cui s’indovinava la mano di un architetto. “Qui bisognerà decidersi”, pensava Stefano. Certi divani ultramoderni non andavano d’accordo con le appliques piene di cristalli veneziani e con gli specchi antichi, macchiati e nostalgici.

– Si sieda dove vuole, disse Alessandra, mentre cominciava a telefonare alla famiglia dell’autista, che cercò di rassicurare confessando tuttavia di non poter fornire notizie sicure. Aveva fatto il possibile. L’ospedale era il Garibaldi. Potevano telefonare loro stessi. Infine aprì un secrétaire che rivelò una fila di bottiglie:

– Che cosa beve?

– Ha grappa?

– No. Cognac?

– È anche meglio. Non osavo chiederlo.

– E perché mai? rise lei. Poi venne a porgergli il bicchiere e a sedersi sullo stesso divano.

– Allora, mi dica. Che lavoro fa?

– Insegno, disse a malincuore. Lettere in una Scuola Media.

Ma questo lo rendeva troppo infelice perché potesse fermarsi lì. E allora aggiunse:

– Sono laureato in filosofia e abilitato per le scuole superiori ma non ho trovato posto. E devo pur vivere.

In quella luce tranquilla, poteva osservare meglio quella donna che fino a qualche ora prima neanche sapeva esistesse. Era veramente magra e solo le gambe erano innegabilmente belle. Per il resto, poco seno, mani un po’ ossute, collo esile e un viso in cui gli occhi accaparravano l’attenzione. Certe facce sembrano fatte per essere guardate, sono begli oggetti. Quella, al contrario, guardava con tanta attenzione e intensità che l’interlocutore si sentiva più osservato che osservatore. Tuttavia era molto gradevole, quel viso: per la sua regolarità, per la pelle bianca ed unita, in contrasto con quegli occhi neri e penetranti. Alessandra Bassi poteva lasciare indifferenti o rivelarsi al contrario un po’ ingombrante, a forza di “presenza scenica”, ma era facile concepire che qualcuno se ne innamorasse follemente, fino a divenirne lo schiavo.

Stefano si scoprì preoccupato e guardingo. Aveva cominciato lui col parlare del fatto che lei avrebbe potuto non volere andare da sola in auto con uno sconosciuto ed ora era lui che stava attento a dove metteva i piedi. Improvvisamente lei sorrise, mettendo in mostra una fila di denti grandi e regolari:

– Dov’è andato?

– Io? andato?

– Improvvisamente i suoi pensieri l’hanno portato altrove, non era più qui con me.

– Oh sì, invece. Ero con lei. Ma misuravo la distanza che c’è fra il guardare una persona, lei cioè, e conoscerla, cioè conoscerne la sostanza.

– Ed ecco la laurea in filosofia che viene fuori. Ne vuole un altro?

– No, grazie, fra poco sarò di nuovo al volante. La battuta sulla laurea in filosofia me la sono meritata. In realtà, se lei conoscesse molti miei colleghi, vedrebbe che si può insegnare filosofia come s’insegna chimica. C’è gente che maneggia i problemi più squisiti come i fruttivendoli maneggiano mazzi di sedano. Passano attraverso il fuoco del pensiero senza bruciarsi, come salamandre. Sono incombustibili. O sono combustibili solo per le partite di calcio. Vedo che sto diventando amaro, concluse alzandosi. E si fa tardi.

Lei continuò a sorridere ma non si alzò.

– Mi dica un’ultima cosa, prima d’andar via. Come mai non m’ha chiesto assolutamente nulla di me?

Lui la considerò con perplessità. In fondo non lo sapeva, perché. Poteva provare a chiederselo. E poi, gliel’avrebbe detto? Dopo tutto, perché no? Qualcuno sostiene che la verità è una versione fra le altre, ma rimane certo la più comoda:

– Potrei dire per timidezza. Potrei dire per mancanza di curiosità, ed effettivamente sono poco curioso degli esseri umani. Ma la ragione fondamentale, se non si offende, è che lei sembra appartenere ad un mondo diverso dal mio. Perché leggere l’indice di un libro che certamente non leggeremo?

– Certamente? Chi conosce il futuro? Intanto scambiamoci i numeri di telefono.

Nel momento in cui si separavano e lui si trovò nella mano la mano di lei, ebbe un moto di tenerezza. Non era piccola e fragile come la zampetta del suo Grif, ma poco ci mancava.

– Per favore, uscendo badi che i cani non rimangano fuori.

– Va bene, ci baderò. Grazie del cognac.

– Lei dice grazie a me? È veramente un originale, lei!

 

II

 

Mentre andava a casa di Gilda Scandiani si chiedeva come mai avesse accettato quell’invito. Per gli antichi amici, s’era detto che non poteva decentemente dire di no, ma per i colleghi dell’anno in cui aveva insegnato da supplente al liceo s’era trattato semplicemente d’imbarazzo. Della semplice incapacità di mentire con sufficiente velocità per sembrare sincero. A meno che quell’esitazione non dipendesse  dal fatto che in fondo vedeva troppo poca gente, da quando s’era separato da Angela. Dopo tutto non è che gli dispiacesse, l’idea di mangiare in casa d’amici. Invece d’aprirsi ancora una volta una scatoletta a casa. Anzi, una scatoletta per sé e una per Grif, fraternamente.

S’era separato da Angela! ripensò. Erano già passati quattro anni. Separati? La verità era che lei l’aveva piantato. Ma non voleva pensarci: avrebbe solo voluto sapere se, prima, vedeva gente per fare piacere ad Angela oppure se in realtà gli piaceva passare le serate con gli amici e per continuare a considerarsi un misantropo diceva di farlo per Angela: un alibi, insomma. Concluse con un’alzata di spalle: si creava problemi inutili.

Questi colleghi, fra l’altro, non erano il peggio. Alcuni erano stati momentanei colleghi di liceo, altri amici dei tempi dell’università che, avendo scelto facoltà meno peregrine di quella di filosofia, ora insegnavano nelle scuole superiori. Senza neppure avere vinto un concorso, come invece aveva fatto lui, oltre l’abilitazione. E dopo tanta fatica aveva avuto solo il piacere di sentirsi dire che, se voleva parlare di filosofia a quattro ragazzacci,  avrebbe dovuto trasferirsi in provincia di Pordenone. Era rimasto lì. E il giorno dopo l’aspettava la dannata Scuola Media.

Gilda l’accolse con la solita fraterna cordialità. Ogni volta notava quanto fosse alta e il bel portamento che aveva. Una donna racée, avrebbero detto i francesi: racée e chiaramente appartenente all’alta borghesia da generazioni. Tuttavia il suo tratto era tanto sportivo che persino in cucina dava a tutti la sensazione di partecipare ad una jamboree, cioè una riunione nazionale o internazionale di boy scout campeggiatori. Impressione del resto confermata dal fatto che, a mano a mano che gli ospiti arrivavano, ricevevano degli ordini: tu fa’ questo, tu fa’ quello. Lui, ben poco stimato in cucina, ricevette un coltellaccio dentato e l’incarico di fare a fette il pane. Gli andò ancora bene perché a Jack Mannino fu dato l’incarico d’andare in cantina a prendere legna per il camino (acceso a puri fini ornamentali). Paula, la gallese approdata in Italia non si sa come, doveva apparecchiare la tavola e si faceva rimproverare ogni volta che chiedeva dove si trovassero le cose. Lorella invece era già da tempo fra i fornelli con l’agio di chi si trova a casa sua e rimaneva sexy anche con un grembiulone davanti e un turbantaccio per proteggere i suoi capelli dai cattivi odori. Inoltre, al solito, continuava ad esprimersi come uno scaricatore di porto. Aveva cinque fratelli e ne aveva adottato il linguaggio. Dovendo aprire un’antina che era vicina a Stefano gl’ingiunse di levarsi di torno: “Togli il culo da qui!”

– Il mio culo, rispose placido lui spostandosi, ti dice “merde”.

– Ed io che il francese l’insegno ti dico che merde significa anche buona fortuna. Grazie, dunque.

Paula, finalmente a capo della sua opera, sorrideva a tutti con i suoi denti cavallini. Sembrava non sapesse dove mettere il suo grande e insipido corpo, ma era una brava donna.

– How are you? le chiese Stefano, quando finì il suo lavoro col pane.

– Fine, and you?

– Ti dirò: The cat is on the table, the dog is under the table. My name is Stefano. Nice day, isn’t it?

– Promosso, rise lei.

Poco dopo ci si sedette a tavola e tutti pareva facessero a gara a bere quel buon vino rosso senza pretese ma con tanto corpo, come avviene in Sicilia con i rossi della zona di Pachino. Stefano non toccò la “carbonara” e si servì due volte di scacciata siciliana, suscitando le proteste di Lorella: “Ho fatto una pasta che risusciterebbe i morti e questo stronzo preferisce un prodotto di rosticceria! Sei un cesso.” Non bastò che si scusasse col fatto che di solito, per non ingrassare, non ne comprava mai. Lei lo liquidò con un “Fanculo” che era insieme perdono e invito a riderne.

– Il problema è un altro, intervenne con finta serietà Jack, già magro come un chiodo. Noi che dobbiamo fare, fare la dieta perché la scacciata la mangi tutta tu?

– Tu non puoi più dimagrire, gli rispose acre Stefano. Le ossa non dimagriscono. Tieni presente che se ti tratto male è perché muoio d’invidia, aggiunse poi.

– Francamente, Jack, riprese Gilda, perché non metti su un po’ di carne? Non è vero, chiese alla tavolata, che con qualche chilo in più starebbe meglio?

Ricevette solo approvazioni.

– Il fatto è che mangio eccome, si difese lui, ma rimango magro. Ho una tiroide eccezionale, pare.

– No, hai un culo eccezionale, corresse Lorella.

Lei in effetti lottava strenuamente contro la bilancia e pesava, ciò malgrado, qualche chilo più del giusto. La “carne” però l’aveva nei punti giusti e non è che gli uomini avessero tendenza a lamentarsene.

A mano a mano che la serata andava avanti, e si passava dalla tavola ai divani e alle poltrone, era come se il motore non si mettesse in moto. Una frase qua, una là, un episodio senza importanza raccontato da Tizia e un pettegolezzo raccontato da Caio. O forse era solo lui, Stefano, che cominciava ad annoiarsi. Le frasette, le battutine, gli scherzi, tutto questo era antipasto. Poi il suo cervello cominciava ad aver bisogno di nutrimento, anche se il vino che aveva in corpo lo rendeva ottimista: tant’è vero che guardava tutti sorridendo costantemente.

Non immaginava che di lì a poco proprio lui, senza neppure volerlo, avrebbe creato l’argomento della serata. Non che a volte non provasse uno speciale divertimento nel suscitare sorpresa ed anche scandalo: ma quella sera si vide dare sulla voce solo per aver detto una cosa che gli sembrava ovvia e banale.

È una sorta di nemesi sociale. Uno, parlando di scarafaggi, dice tranquillamente “che schifo!” ed ecco che si vede dare dell’ignorante dagli appassionati entomologi che non sapeva di avere alla sua tavola: “Le blatte sono degli insetti interessantissimi!”. “Le blatte hanno famiglie più affettuose delle nostre!”. “Le blatte sopravviverebbero alla bomba atomica, mentre di noi non rimarrebbe nessuno”. In questo caso si fa la fine dei pifferi di montagna: non si è scandalizzato nessuno quando ci si è espressi contro la morale corrente e contro Santa Madre Chiesa e poi ci si vede condannare per un’ovvietà.

Comunque, la diatriba di quella sera fu provocata dal fatto che, essendo stato abbandonato dall’amante che adorava, un professore di Biancavilla aveva scritto un libro di poesie per vendicarsi e far sapere a tutti quanto lei si fosse comportata indegnamente. Solo che aveva fatto ridere tutti, persino i ragazzi che ne avevano fatto quasi un best seller. Jack, raccontando la storiella, aveva concluso: “Poverino, quello soffriva sul serio, ma a quanto pare certe cose bisognerebbe saperle dire”. E Stefano s’era limitato a confermare la tesi dicendo: 

– Ho letto una frase, da qualche parte. “Tutti conosciamo l’amore, la gelosia, l’ambizione, ma quanto di meno sappiamo, di questi sentimenti, rispetto al poeta, al romanziere e al drammaturgo!” Questo poveraccio credeva d’avere gli stessi pensieri e sentimenti dei grandi. E il risultato s’è visto.

Con sua sorpresa, tutti si misero a dargli torto con sorprendente unanimità. Ogni essere umano sente con la medesima profondità, sostenevano: solo che non tutti siamo capaci di esprimere quello che sentiamo. Stefano, che non aveva scelto di discutere di quell’argomento, da principio tentò d’evitare di dire come la pensava veramente, e cioè che tutti loro dovevano togliersi dalla mente l’idea di competere con Shakespeare. Ma non c’era verso. Anche se stava zitto gli altri continuavano a parlarne fra loro. Inoltre non era abituato a fuggire lo scontro dialettico e per questo, mentre continuava imprudentemente a versarsi da bere, incrociava la lama con tutti. La sua propria teoria – si accorgeva esprimendola – somigliava al compor­tamentismo. “Tu senti nella misura che riesci a dimostrare di sentire. O comunque tanto è provato che senti, quanto riesci a dimostrare di sentire”. La teoria degli altri invece faceva pensare al noumeno kantiano: qualcosa di non conoscibile e di cui non possiamo provare l’esistenza, ma che deve esserci. Per i compor­tamentisti il lato soggettivo è ininfluente e al limite potrebbe anche non esistere; per questi amici il noumeno sentimentale era un diploma che li equiparava al genio. Gratis.

– Sentite, disse infine, cercando d’ottenere l’attenzione di tutti: chiarirò meglio il mio pensiero, lasciatemi parlare. Il grande pubblico crede che Shakespeare, in materia d’amore, avrebbe potuto dire solo quello che ha scritto in Romeo e Giulietta. Ignora cioè che quel dialogo è stato scritto in un paio d’ore. Che è stato un secchio d’acqua, magari fra i più fortunati, attinto all’oceano della sua sensibilità. Chi scrive un dialogo di commedia non ha solo un’anima, la propria, ma decine d’anime. Anime tanto sviluppate da poterle mettere a confronto, da farle dialogare, anzi così vive che l’autore è il primo spettatore attonito della loro vita. Ha forse detto altro, Pirandello, in “Sei personaggi in cerca d’autore”?

– Ma quell’oceano di sensibilità l’abbiamo tutti, obiettò Gilda.

– E allora forse ti manca il secchio! disse Lorella.

Tutti risero ma Stefano riprese:

– Se ci avete fatto caso, non esistono bambini prodigio in letteratura. Il romanziere e il drammaturgo sono persone speciali come intelligenza e soprattutto come comprensione della realtà. Shakespeare è Romeo ma è anche Lady Macbeth, è Cesare ma è anche Prospero. Per non parlare di Balzac che aveva un intero mondo, nella sua fantasia. Questi geni hanno l’anima spezzettata in un caleidoscopio di personalità tanto da essere contemporaneamente un uomo e una donna, un angelo e un demonio, Desdemona e Jago. Voi dite che le persone sensibili sentono altrettanto, pur se non sanno esprimerlo: ma non è credibile. È come se qualcuno dicesse: ho la tasca piena di diamanti, non posso tirarli fuori per mostrarteli ma tu credimi lo stesso. Chi lo prenderebbe sul serio?

La discussione andò avanti e infine Stefano capì che non poteva dimostrare ciò che gli sembrava evidente: non solo gli altri pensavano d’avere un’evidenza di segno opposto, ma erano interessati a rilasciarsi un diploma di parità con Flaubert e Lope de Vega. Si sentivano uguali a loro se non nell’arte di scrivere romanzi, tragedie e commedie, almeno nell’avere la stessa complessità di sentimenti. Ed era molto difficile combattere contro un’idea che corrisponde ai desideri degli interlocutori. Sicché colse la prima occasione per dire: “Scusatemi, avete parlato d’attori e questo mi ha fatto venire in mente una barzelletta. Dunque, c’era un attore che…”

E a colpi di battute, di pettegolezzi scolastici, d’accenni alla politica e, soprattut­to, di bicchieri di vino, anche quella serata si avviò verso una felice conclusione.

Stefano tornò a casa col mal di testa.

 

III

 

Stefano alzò la cornetta e disse “Leone” senza neppure distogliere lo sguardo dal rebus che cercava di risolvere da almeno dieci minuti. Era abbastanza irritato, in realtà. Un po’ per il tempo perso e molto per l’umiliazione di non essere riuscito ciò malgrado a risolverlo.

– Bassi, rispose una voce di donna. Poi ci fu un silenzio dopo il quale Stefano, già sporgendosi per riattaccare, concluse:

– Temo abbia sbagliato numero. Arrivederla.

– Fermo lì! urlò quasi l’altra. Insomma si è già dimenticato totalmente di me, voce, nome e tutto, come temevo. Sono Alessandra.

– Oh, Alessandra, mi scusi! Ma mentre diceva questo e metteva via la rivista d’enigmistica si rendeva conto che la gaffe era irrimediabile. Inutile dire che non aveva memoria per i nomi o per le voci. Tutti pensano che gli altri abbiano il diritto di non ricordare, ma in generale: non la loro voce, non il loro nome. Scusarsi o no, spiegare o no? Alessandra nel frattempo andava avanti:

– Ne è nata una discussione. Uno diceva che si era gettato nel cratere dell’Etna, un altro che era stato ucciso da un soldato romano e alla fine abbiamo scommesso. Io mi sono detta che forse avevo un amico persona colta e le ho telefonato: allora, come è morto Empedocle?

– Come prima risposta, sorrise Stefano, devo confessare che non sono la persona colta che lei cercava, perché non lo so. Comunque, quello ammazzato dal soldato romano non era lui perché era Archimede. Può darsi che Empedocle sia morto gettandosi nell’Etna, che ne risputò fuori i sandali, può darsi che sia morto in una maniera ancora più strana: ad uno di questi grandi dell’antichità cadde in testa, dal cielo, una tartaruga…

– Dal cielo? Rise lei. Dal cielo? Era una tartaruga con le ali, immagino!

– Che comunque l’ammazzò. Senta, ormai ho già fatto cattiva figura. Presumo che sia Empedocle, quello dell’Etna, visto che era siciliano, ma mi dia il tempo di guardare qualche libro e le telefonerò la risposta. Il suo numero di telefono?

Ci fu un attimo di silenzio, poi fu come se Alessandra avesse deciso di riderne:

– Senta, lei conosce una donna e non fa nessun tentativo di rivederla. Non la chiama neppure al telefono e va bene, una potrebbe anche illudersi che sia timidezza. Ma lei no, lei non permette al prossimo di farsi delle illusioni. Non riconosce la voce, non riconosce il nome e il numero di telefono l’ha buttato via.

– Devo averlo da qualche parte…

– O l’ha buttato via. Sia sincero: lei non aveva nessuna intenzione di chiamarmi.

Stefano cominciava ad odiare quella conversazione. Che diamine voleva, costei? Che le dicesse che era perdutamente innamorato di lei, che non aveva aspettato che quel nuovo contatto, pur avendo perduto il suo numero? O doveva dirle che l’aveva subito dimenticata e che quelle provocazioni cominciavano a dargli fastidio?

Ricordò in un lampo un episodio di anni prima. Aveva avuto un bel rapporto con una donna e poi questo rapporto era morto: ma erano rimasti sufficientemente amici perché si sentissero per telefono, ogni tanto, e ogni tanto andasse a trovarla. Tuttavia non lo faceva con grande entusiasmo e quella donna era stata abbastanza acuta da percepirlo e abbastanza imprudente da dirgli: “Sia chiaro, devi cercarmi se ne hai voglia, non per farmi un piacere”. La cosa lo aveva ferito due volte. Innanzi tutto gli dispiacque d’essere stato tanto trasparente, in secondo luogo lo urtò la sua pretesa che con lei lui fosse diverso che con tutti gli altri. La sfida si tradusse in un’autorizzazione alla spontaneità e il risultato fu che, poco tempo dopo, i loro rapporti s’erano interrotti per sempre.

Con Alessandra decise d’essere sincero, senza strafare e magari offrendole un ramoscello d’ulivo:

– È vero, non contavo di chiamarla. Ho avuto la sensazione che viviamo su pianeti diversi ed ho creduto che lei non avrebbe potuto interessarsi di me.

La voce al telefono dimostrava che Alessandra aveva perduto ogni voglia di buttarla a ridere:

– Pianeti diversi?

– Lei è bella ed io no, lei è ricca ed io no, lei mi sembra di ceto elevato ed io sono un proletario con laurea, lei mi sembra vincente ed io mi sento perdente. Infine lei è elegante ed io sono così trasandato che penso lei si vergognerebbe di farsi vedere in giro con me.

– Francamente, lei esagera. Viviamo in un mondo in cui i figli dei re d’Europa sposano commesse di negozio e lei mi fa un discorso del genere? Mi dica piuttosto che non le interessavo e sarà più sincero. Non è mica obbligatorio, avere simpatia per una donna! Del resto, neanch’io ho perso le notti pensando a lei.

Lui non seppe cosa rispondere. Temeva d’essere troppo duro o troppo galante e in questi casi forse era meglio non dir niente. Infine interruppe il silenzio con la speranza che si riuscisse a cambiare argomento:

– Me lo dà, questo numero?

– No.

– Capisco. Le chiedo scusa se l’ho urtata.

– Mi tratta come una Madre Badessa.

– Mi arrendo.

Lei sembrò esitare sul partito da prendere e infine diagnosticò:

– Questo vino è diventato aceto. Arrivederla.

– Arrivederla, ebbe appena il tempo di dire lui, prima di sentire la cornetta sbattuta sull’apparecchio. Poi aggiunse “Al diavolo!”

Non era contento di sé. Una famosa definizione del gentleman lo descrive come un signore che non è mai sgarbato, a meno che non lo faccia apposta. Questa Alessandra aveva reagito male ma lui non l’aveva fatto apposta. A questo punto, era lui che non era un gentleman o era lei che era suscettibile? Inoltre, prima, se lui l’avesse cercata, che sicurezza poteva avere che lei non l’avrebbe trattato come un seccatore, uno che approfittava del favore fattole per trarne qualche utilità?

Era anche vero che lo stesso rischio l’aveva corso lei, telefonandogli, con una domanda su Empedocle che poteva persino essere inventata. Lei aveva corso il rischio e poteva ragionevolmente pensare che il rischio si era di fatto realizzato: lui non le aveva dato nessuna importanza, se l’era dimenticata. Che complicazioni!

Quanto al numero, come aveva detto che si chiamava? Sedette al computer, si collegò alla società dei telefoni e poco dopo aveva il famoso numero. Che scemo, ci avesse pensato in tempo, a quella soluzione, si sarebbe evitato quel problema insulso. E tuttavia, che fare, ora?

 

Quando ebbe finito di correggere i dannati compiti della Seconda B e si sentì fuori dalle sciocchezze sgrammaticate che possono partorire cervelli immaturi e ignoranti, cercò di ritrovare il suo mondo ma si accorse che gli tornava in mente la conversazione con Alessandra. Era francamente arrabbiato, a ripensarci. Ma, veramente, che diamine voleva, costei? E tuttavia ad essere onesto doveva prendere in considerazione l’ipotesi che si fosse sentita umiliata lei. Non solo lui non aveva corso il rischio di cercarla, ma quando lei l’aveva cercato s’era sentita rispondere: chi è, lei? Si rende conto che sono così poco interessato a lei che, appena me l’ha dato, ho persino buttato via il suo numero di telefono?

Insomma, doveva decidere che comportamento tenere. Alla fine una cosa gli fu chiara: forse era colpevole lui, forse era colpevole lei, certo era che non poteva tenersi il dubbio d’essersi comportato male. E in questo caso non c’era che da correre il rischio di vedersi male accolto. Doveva parlarle.

Il numero di telefono era lì sul tavolo e la scusa dopo tutto era pronta. Aveva già scartabellato libri ed enciclopedie. Empedocle era quello dell’Etna e dei sandali, (anzi di un solo sandalo, di bronzo, dicevano i sacri testi): in questo aveva visto giusto. Ma chi era il tizio ammazzato dalla tartaruga? E questo era stato un bel problema, perché non aveva a chi chiedere. Certo la cosa non sarebbe stata citata, nell’enciclopedia, alla voce “tartaruga”.

Grif venne a sedersi sul tavolo e a guardarlo negli occhi.

– Allora, scemo, che vuoi?

Il gatto socchiuse gli occhi e lui gli fece una carezza sulla testa. Poi lo grattò sotto la gola, ma il micio accolse l’omaggio con indifferenza.

– Ma chi è che è stato ammazzato dalla tartaruga?

A Grif non interessava. Aveva notato che sulla sua sinistra c’era una risma di carta pulita e decise che era degna di lui. Ci si accucciò sopra e si mise a sonnecchiare.

Talete. No, non fu ucciso da una tartaruga. Anassimandro. No. Il “gemello” Anassimene? No, neppure lui. Infine fece l’ipotesi che non si trattasse di un filosofo e pensò ad Omero, ma no, Omero non poteva essere. Infine l’illuminazione: Eschilo? Eschilo! La leggenda voleva che Eschilo fosse stato ucciso da una tartaruga lasciata cadere sul suo cranio calvo da un’aquila.

E lì trovò la soluzione al problema Alessandra. Prese un foglio di carta e scrisse: La leggenda vuole che Empedocle sia morto così e cosà. Dalla tartaruga sarebbe invece stato ucciso Eschilo: delle cui opere mi permetto di farle omaggio. E concluse: “Non sia severa con chi ha creduto che non avrebbe incontrato una seconda volta un’abitante dell’Olimpo”.

Avrebbe comprato il libro e gliel’avrebbe lasciato a casa.

L’aver sistemato la questione lo rese così sereno che, dopo aver mangiato qualcosa, riuscì a divertirsi con una partita di calcio, in televisione. Grif era felice di dormire ed essere carezzato ogni tanto: aveva così l’occasione di svegliarsi, sbadigliare, stirarsi, constatare che il padrone quella sera rimaneva con lui e che tutto andava per il meglio nel migliore dei mondi.

 

IV

 

Il suono della radiosveglia giunse come un’inaspettata violenza. Di solito, data l’abitudine di svegliarsi sempre alla stessa ora, non aveva difficoltà ad aprire gli occhi, ma quel giorno il suo corpo gli diceva che non aveva riposato abbastanza. E tuttavia per ora non c’era che da inserire il pilota automatico e fare, in sequenza, i soliti gesti: preparare la caffettiera, metterla sul fuoco, lavarsi, radersi, vestirsi, bere il caffè bruciacchiandosi la lingua, raccogliere le chiavi, il telefonino, la brioscina che avrebbe sbocconcellato in auto e andare al lavoro.

Fuori, l’accolse un cielo grigio che non prometteva nulla di buono. Per terra, foglie di un marrone che sapeva di bruciatura si maceravano nell’umidità e il vento riusciva a spostarne solo alcune, quelle meno bagnate. La gente si muoveva con la testa stretta tra le spalle e guardando dinanzi ai propri piedi. La vita s’era svegliata, come lui, senza altre prospettive che la vita stessa. Se il parabrezza cominciava ad appannarsi non era per rendere onirico ciò che vedeva, dinanzi a sé, ma solo per ricordargli di mettere il riscaldamento al massimo e dirigere il getto in alto. Tutto funzionava come da programma, all’ora giusta, sulla strada giusta, per arrivare a scuola all’ora giusta. Per insegnare a dei ragazzini ai quali non interessavano per nulla cose che a lui stesso interessavano poco.

A volte, in classe, metteva in parallelo scuole e carceri: alcune persone sono costrette a stare in un posto e a trattenervi altre persone. Lui avrebbe talmente preferito rimanersene a casa, quel mattino. Potevano parlare con entusiasmo di quei tipi di lavoro solo coloro che avevano alternative ancora peggiori.

Come gli aveva detto una volta su un autobus una guardia incontrata per caso: “Se uno a casa ha l’inferno può anche preferire il lavoro nel carcere”. Chissà che ne era stato, di costui. S’era separato da sua moglie? Comunque, non poteva essersi separato dai suoi figli. E dalla sua vita.

Lui accoglieva ogni giorno il suono del campanello finale col più gioioso sentimento di liberazione. Non che odiasse quei poveri ragazzi, non avevano nessuna colpa. Ma che aveva, da spartire con loro, che dialogo potevano avere? Il rapporto era troppo squilibrato. Lui che spesso trovava infantili i colleghi come poteva colloquiare con dei bambini?

Con la collega d’inglese gli alunni rivivevano la relazione che avevano con la loro madre: studiavano per farle piacere o le facevano dei dispetti, la trattavano con degnazione, nientemeno, ma poi, quando sapevano che era il suo onomastico, le portavano un mazzo di fiori. Era un mondo coerente. Con lui invece queste confidenze erano impensabili. I ragazzi lo temevano senza che mai lui fosse stato realmente duro: sentivano confusamente in lui un rifiuto della loro età che non prometteva nessuna forma di perdono. Quasi una rabbia nascosta. Malgrado ogni sforzo di benevolenza, il suo disprezzo dell’ignoranza e della stupidità erano poi tanto trasparenti che, pur di mettersi dalla parte del più forte, molti irridevano gli errori dei compagni. Cosa che dopo tutto era utile all’insegnamento visto che, in una scuola in cui erano bocciati solo gli assenti, il timore del ridicolo era più forte di quello del voto.

Con alcuni ragazzini di Terza ogni tanto nasceva un embrione di dialogo e in lui provocava cocenti scrupoli. Perché da un lato avrebbe dovuto apprezzarlo come l’alba della riflessione, e incoraggiarla, e favorirla, dall’altro non poteva sfuggire alla noia di riflessioni elementari e grezze. Quei tredicenni e quattordicenni capivano che il loro professore era un iceberg di cui la più gran parte era nascosta, e molto diversa da quello che potevano nascondere gli altri colleghi. Per questo manifestavano la curiosità di saperne di più, e gli ponevano anche quei quesiti che non avrebbero posto ad altri, senza temere di vedersi dare sulla voce. Ma rimanevano quei bambini che non potevano che essere.

Una volta che nel paese scoppiò la discussione sull’opportunità di tenere il crocifisso al di sopra della cattedra, un ragazzo gli chiese che cosa ne pensasse e si aspettava, come da tutti gli altri professori, di vedergli manifestare scandalo alla sola idea di toglierlo. Ma lui disse:

– Se dicessi che è bene toglierlo, i vostri genitori allarmati andrebbero dal preside a chiedere notizie sul mio conto. Se dicessi che è bene tenerlo, vi confermerei in un’idea corrente, sulla quale non avete dati sufficienti per avere un’opinione. Meglio tacere.

– Mi scusi ma non ho capito, ribatté il ragazzino.

– Innanzi tutto, “bravo!”. Quando uno non capisce e dice di non aver capito, manifesta coraggio e chiarezza d’idee. Nel nostro caso, inoltre, hai ragione, non sono stato chiaro. Ecco qua: siete troppo giovani per avere un’opinione riguardo al crocifisso in classe ed io non voglio darvene una bell’e fatta. Aspettate di crescere, di saperne di più, e allora vi formerete un’opinione.

– Ma la professoressa di matematica ha detto che deve stare lì e che l’Italia è un paese cristiano e che il crocifisso è un simbolo per tutti gli italiani.

– Vi ha dato la sua opinione. Io vorrei che voi aveste la vostra opinione personale oppure, non essendo ancora attrezzati… intendo, preparati, vi asteneste dal giudicare.

I ragazzi capivano fino ad un certo punto, sconvolti anche da quei congiuntivi, ma si confermavano nell’idea che, per il professore Leone, la presenza del crocifisso, al contrario di quanto dicevano gli altri colleghi, era discutibile. Era già una notizia.

Nulla è peggiore per le menti dei ragazzi, pensava Stefano, dell’unanimismo. Anche se era un genere di problema che non solo i ragazzi, ma neppure i colleghi e il preside avrebbero capito.

Queste rare discussioni rappresentavano momenti in cui sentiva di riprendere fiato ma lo spingevano anche ad attendere con maggiore ansia il momento in cui sarebbe tornato al liceo. A ragazzi di sedici-diciannove anni. Magari l’anno seguente? Erano già tre anni che stava attaccato a queste parole: magari l’anno seguente? Come gli ebrei che da secoli si salutano dicendo “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

Ma gli andava come agli ebrei della diaspora. L’anno seguente i ragazzi con cui cominciava a nascere il dialogo migravano verso altre scuole e lui si trovava di nuovo di fronte a venti o trenta faccine di Prima Media. Bambini che sembravano strappati alla scuola materna. Intimiditi, grezzi, primitivi, fragili. Non avrebbe mai avuto il cuore di trattarli male, ma a volte, dinanzi a certi loro atteggiamenti infantili, non poteva impedirsi d’avere un viso così disgustato che perfino loro lo capivano. Poi a poco a poco crescevano, tendevano a divenire strafottenti e capivano che il sistema scolastico, per loro, consisteva nel sedere sui banchi fino all’inevitabile promozione finale. E passavano da bambini scemi a bambini insolenti.

Stefano passava per un professore severo e tutta la sua severità consisteva nel mettere i voti che i ragazzi meritavano. Ma non si faceva illusioni. Tanto che li  avvertiva regolarmente che, se fossero stati lo stesso promossi, come era probabile, non dovevano ringraziarlo. Lui avrebbe comunque chiesto la bocciatura o la non ammissione agli esami di licenza.

Quel giorno, in Terza B, aveva appena ripetuto per caso questo avvertimento, quando Misso, un ragazzo particolarmente sveglio, chiese improvvisamente:

– Ma che significa? Che sbaglia lei o che sbagliano gli altri professori?

– Dovrebbe significare che sbaglio io. Oppure che quell’alunno è bravo in tutte le materie e che io non ho saputo insegnargli le mie. Fai tu.

– E poi la licenziano?

Era stato Migliani, un ragazzino bianchiccio e occhialuto, a porre questa imprevedibile domanda. Di solito era troppo timido per aprire bocca e ci doveva essere una ragione, perché trovasse tanto coraggio. Osservandolo, si accorse che forse temeva di cambiare professore. E questo era un grande complimento. A meno che non fosse una traccia d’insicurezza. Comunque gli sorrise nella maniera più paterna di cui era capace:

– Non mi licenziano, no, stai tranquillo. E non mi licenzierebbero neppure se meritassi d’essere licenziato, aggiunse. Non licenziano nemmeno i professori asini o pazzi.

Poi pensò che avrebbe dovuto smetterla di parlare ai ragazzini come avessero quarant’anni. Quelli erano di Terza ma non poteva coinvolgerli in discussioni sostanzialmente politiche.

– Questo non è giusto, disse il primo. Se lei non fosse un professore bravo noi non lo vorremmo.

Stefano aveva una gran voglia di ridere. Quelli di Misso sembravano i ragionamenti di Bertoldo, ma in fondo erano più validi di molti ragionamenti di politici con la corona d’alloro. Per questo spiegò pazientemente come stavano le cose. Parlò della stabilità del posto di lavoro statale; dell’atteggiamento corporativo di ogni confraternita di colleghi; dei sindacati; dell’insufficienza della paga, che rendeva la selezione dei docenti poco efficace, e infine del disinteresse della società per il loro apprendimento. A parole avrebbero dovuto divenire tutti arche di scienza, in realtà ciò che interessava a tutti – a loro, in primo luogo, alle loro famiglie, al preside e alla società – era che fossero promossi e non dessero fastidio. I ragazzi lo guardavano smarriti, alcuni addirittura con l’aria di chiedersi se scherzasse, ma la maggior parte disorientati. Solo alcuni, forse allenati da discussioni politiche in casa, sogghignavano soddisfatti. Stefano s’impose di concludere:

– Sono io che sbaglio, insistendo ad insegnarvi qualcosa e tentando di bocciarvi quando non avete imparato.

– Lei lo fa per il nostro bene, concluse Belleli, e Stefano lo guardò con attenzione: gli stava sparando una banalità o lo pensava veramente? Belleli era figlio d’un professionista e lui lo sospettava d’essere un adulatore ma stavolta aveva l’aria convinta. Chissà.

Comunque cambiò discorso e tornò alla noia di sentirsi ripetere la storia da gente che non ne aveva capito nulla. Carlo Alberto, secondo Rapisarda, era “quel re che non sapeva scegliere la pizza”.

– Ma che diamine vuoi dire? Che significa, che non sapeva scegliere la pizza?

– L’ha detto lei.

– Non dire stupidaggini.

– Sì, è vero, l’ha detto lei, s’inserì dal fondo dell’aula il suo compagno di banco.

E allora ricordò: durante la spiegazione un alunno aveva chiesto che cosa significasse esattamente “tentennamento”. Ecco la Scuola Media: se uno fa degli esempi i ragazzi ricordano gli esempi, se uno non fa degli esempi i ragazzi non capiscono niente.

Guardò l’orologio: mancavano ancora ventidue minuti perché quello strazio, quella giornata di lavoro, finisse. Era stato il suo terribile mercoledì, quattro ore filate da cui usciva come un reduce: bisognoso di cultura, d’intelligenza, d’un livello mentale adulto. Anche parlare col fruttivendolo sarebbe stato consolante. E infatti si fermò a comprare quattro o cinque chili di mele.

– Siete appassionati di mele, in famiglia! commentò il negoziante.

– Eh sì, proprio appassionati, ammise. Non poteva dirgli che viveva da solo, che il suo gatto neppure assaggiava la frutta e che, per pigrizia, comprava un tipo di frutta che dura nel tempo. In modo da fare una provvista.

Tornò alla sua automobile e s’accorse d’essere stanco. Ed era ancora solo novembre. Mesi e mesi prima delle vacanze. Forse avrebbe dovuto accettare il posto a Pordenone.

Giunto a casa, non trovò Grif. Dov’era, quel delinquente? Certo è che da triste che era si sentì improvvisamente disperato, come se l’ultima persona che gli voleva bene lo avesse tradito. Poi capì: “sto morendo di fame”. I cinesi hanno saggiamente posto nello stomaco la sede dell’anima. Poco dopo, mentre mangiava una mela bianca e rossa come quella di Biancaneve, si presentò messer Grif.

– Allora, a quest’ora si torna?

Il micio gli rispose sorridendo alla sua maniera, cioè socchiudendo gli occhi, e dirigendosi poi, con calma, verso il mobile in cui teneva le scatolette col suo cibo. Lì giunto, si voltò con lo strano modo che hanno i gatti di farlo, cioè guardando indietro con la testa girata di quasi centottanta gradi. Si chiedeva se lui fosse tanto cretino da non capire o tanto carogna da far finta.

– Ma tu non dovresti trovare dei topi e cavartela da solo? Che uomo sei?

– Miau, disse Grif, asciutto.

– E va bene, miau, hai ragione tu.

E gli mise i bocconcini nel suo piattino, insieme con un po’ di latte.

 

V

 

Col suo libro di Eschilo sul sedile di destra, mentre guidava tranquillo verso Trecastagni, si sentiva in servizio comandato. Non gli importava poi molto, di questa Alessandra, ed era anzi infastidito dal problema che lei aveva creato. Ma – come altre volte – il servizio comandato dipendeva dall’opinione che voleva avere di sé. Ci sono cose per cui bisogna essere disposti a pagare.

Ricordava al riguardo il suo primo anno d’insegnamento a Viagrande. Quasi appena giunto, aveva scoperto che i colleghi avevano l’abitudine, per san Fausto, 19 novembre, di fare tutti insieme un regalo al preside, che si chiamava Fausto, appunto. Il preside, a sua volta, invitava i colleghi per una bicchierata in presidenza, la mattina del 19 novembre. Stefano trovava questo grottesco. Innanzi tutto non si fanno regali a chi ha un potere su di noi, quasi bisognasse ammansirlo con una ignobile captatio benevolentiae. Quanto a lui non temeva nessuno e non ammansiva nessuno. Poi, l’idea del vermuttino nel bicchiere di carta e del dolcetto, in piedi, cercando di scherzare con i colleghi, gli dava il voltastomaco. Ma, d’altra parte, era appena arrivato: poteva crearsi subito un problema? Perché, ovviamente, o i colleghi avrebbero detto “questo è il regalo, che le offriamo tutti salvo il nuovo collega Leone”, oppure non gli avrebbero detto niente, e lui sarebbe passato per uno che risparmiava i soldi della colletta.

In quell’occasione pagò dunque lo scotto della propria immagine. Comprò un bel libro e, giorni prima del 19 novembre, lo portò al preside dicendogli che non aveva nulla contro di lui. Lo provava con quel regalo. Ma era contro la tradizione del regalo ufficiale. Sicché non avrebbe mai partecipato, per tutti gli anni successivi. E così fece, cominciando col non andare già la prima volta, malgrado il regalo fatto. Ma gli era costato un libro, accidenti.

Giunto dinanzi alla villa, la trovò ancora più suggestiva e, per così dire, nostalgica, di come la ricordasse. Gli alberi, altissimi e frondosi, parlavano d’infanzia e di passato. Sembrava chiedessero: “ricordi?” E lui non poteva certo ricordare un posto che vedeva per la prima volta, di giorno. Certi luoghi tuttavia s’impregnano tanto d’umanità e di vissuto che ci si accosta ad essi con reverenza, quasi che trattenessero, impigliati fra le pietre e le fronde degli alberi e le tegole della casa, il passato di tanta gente che lì ha sofferto, ha gioito, ha amato. Gente passata dall’infanzia alla vecchiaia mentre gli alberi divenivano sempre più alti ed uno di loro era colpito dal fulmine, rimanendo sciancato.

Mentre aspettava che qualcuno rispondesse al citofono, i due cani stavano dall’altra parte del cancello, con sbuffi di minaccia contraddetti dal dimenare della coda. Ma smisero di minacciarlo quando videro che si chinava a parlare con loro con voce dolce. In fondo, erano contenti d’avere compagnia.

– Chi è?

– Mi chiamo Leone. Dovrei lasciare un pacchetto per la signora Alessandra.

– Attenda, disse la donna, vengo a prenderlo. Ma non aprì il cancello e lui rimase a discutere con i cani.  Infine apparve in lontananza, con la sua aria trasandata e tuttavia la padronanza di chi si sente a casa sua. Doveva lavorare per Alessandra da molto tempo. Era a metà strada quando il cancello fu aperto da qualcun altro, in casa, e infatti Alessandra apparve sulla porta, laggiù. La donna si voltò e capì:

– Si accomodi, disse infatti. Non abbia paura dei cani.

Altro che paura, il problema fu che dovette impedire loro di mettergli le zampe addosso. Era piovuto e l’avrebbero inzaccherato. Ma Alessandra li richiamò imperiosamente e loro, cosa strana, le obbedirono. Non aveva immaginato che lei potesse avere questa autorità.

Poco dopo, nella frescura del salone, si scusò ancora una volta e le offrì il libro. Lei lesse la dedica: “Non sia severa con chi ha creduto che non avrebbe incontrato una seconda volta un’abitante dell’Olimpo”, e sorrise.

– L’abitante dell’Olimpo sarei io?

– Perché no? chiese lui, con convinzione. La trovava infatti ancor più carina di come la ricordasse. Il viso era intenso, tanto che guardando i suoi occhi neri, luminosi sul bianco immacolato della pelle, si dimenticava il resto: la bocca ben truccata, i denti regolari, i capelli che le facevano un’aureola. Gli occhi, così come ricordava, erano accaparranti: si aveva la sensazione che fosse drammaticamente presente e pronta a cogliere tutti i particolari del momento. Quanto al suo corpo, per essere magra era magra, ma quel po’ di curve che aveva addosso parevano preziose. Infine c’era un certo contrasto fra la fragilità del suo scheletro, dei polsi e delle caviglie sottili, e il modo energico, quasi imperioso con cui l’aveva vista muoversi: quasi dovesse trattenere la propria potenza.

– Fa sport, lei?

Lei lo guardò perplessa:

– Salta sempre di palo in frasca, così?

– Mi chiedevo – ed ebbe la sensazione d’arrossire lievemente – mi chiedevo se fosse tanto energica nei movimenti per temperamento intellettuale o per abitudini sportive.

– Le sembro troppo brusca?

– No, affatto. Energica, l’ho detto.  Energica senza perdere eleganza.

– Lei insiste per la seconda volta su questa eleganza: ma lo vede, come sono vestita? Ma forse lei alludeva a qualcosa di più serio, non mi risponda e lasciamo perdere. Sport? Sì, mi piace moltissimo il tennis.

– Bello sport, concluse lui. Come sta Giacomo, mi pare che l’autista si chiami così.

– Brutto infarto ma se l’è cavata. Dovrà smettere di fumare e il resto ma sopravviverà. Ha perfino insistito per pagare i danni alla Mercedes. È una persona per bene.

Stefano, notando il libro sul divano, accanto a lei, lo indicò e precisò:

– Non si creda obbligata a leggerlo. Se lei non fosse uscita ad incontrarmi l’avrei lasciato alla donna e mai le avrei chiesto che cosa ne pensava. Chi regala un libro non dovrebbe mai chiederlo.

– E perché mai lo regala, allora?

– Per fare un regalo, per fare piacere. Ma se poi si chiede un giudizio su di esso è come se si pretendesse che l’altro perda ore ed ore a leggere un libro che magari solo il donatore trova interessante. In questo caso sarebbe un regalo avvelenato.

– Lei è una sorgente d’osservazioni tra il cinico e il divertente. Le offro l’aperitivo.

Tornò al suo secrétaire, ne trasse fuori un bicchiere diverso da quello usato quella lontana prima sera, visto che il contenuto stava per essere diverso, e gli portò un amaro.

– E lei?

– Io bevo pochissimo e praticamente mai di mattina.

– In generale, neanch’io bevo niente, la mattina, ma appunto… Senta, le confesso che comincio ad odiarmi.

Lei sgranò gli occhi, troppo meravigliata per porre domande, e lui si sentì obbligato a continuare. Ma lo fece col senso di sollievo di qualcuno che confessa una colpa che gli ingombra l’anima.

– Ecco di che si tratta. Noi esseri umani procediamo a tentoni, nei nostri rapporti. Lei, per essere gentile, mi offre un aperitivo. Io, per essere gentile, lo accetto. Poi lei mi dice che non beve la mattina ed io mi trovo con un bicchiere in mano che è estraneo tanto a me quanto a lei. Certo lo berrò, a questo punto non può andare che così. Ma mi chiedo se non avrei fatto meglio a dirle che non bevo la mattina. Però lei avrebbe anche potuto rimanerci male, visto che non ha – che so – dolcini, tè pronto o qualcos’altro. Ecco perché ho detto sì, con l’amaro tutto andava a posto, come se ambedue avessimo recitato la parte assegnata. Vede, è per questo che ad un certo momento ho lasciato cadere Proust. Proust è intelligentissimo, riesce a descrivere e spiegare questi piccoli drammi della vita quotidiana con precisione e penetrazione, è sbalorditivo per la sua analisi, ma uno si può chiedere: ne valeva la pena?

– Ma lei perché si odia?

– Per avere pensato tutte queste cose. Da un lato vorrei essere più semplice, e dire sì o no, senza pensarci, dall’altro non posso essere semplice e disprezzo tuttavia questo genere di problemi: con la conseguenza d’una certa misantropia. Per non odiare me stesso, per non creare problemi al prossimo, torno al mio gatto, col quale questi problemi non ci sono.

– Potrebbe anche sposarlo! rise lei.

– Impossibile, è maschio.

E stavolta risero tutti e due.

La conversazione proseguì su iniziativa di Alessandra che sembrava interessata a lui come ad un fenomeno da studiare. Volle dunque sapere come si trovava con i colleghi, come mai Angela lo aveva piantato, che pensava del suo lavoro e perfino che rapporti aveva con le donne, rimanendo sorpresa per le espressioni di stima che lui ebbe per l’altro sesso.

– A naso avrei detto che lei era misogino.

– E in realtà sono invece innamorato di tutte le donne. Siete meravigliose.

– Non ho incontrato una persona tanto stupefacente negli ultimi dieci anni, rise lei. Comunque, a nome di tutta la categoria, grazie, grazie e ancora grazie.

Lui si alzò, pensando d’andar via, e Alessandra gli fece un gesto cordiale e grazioso, come qualcuno che abbassa qualcosa, indicandogli ancora la poltrona.

– Mi dica ancora un paio di cose. Io le ho chiesto – e forse sono stata indiscreta – un bel po’ di cose di lei, lei non ha chiesto nulla di me, salvo se faccio sport. Come mai?

– Come mai? Insufficiente spontaneità, come al solito. In questo caso, forse, anche insufficiente curiosità.

– Ci risiamo, si rabbuiò lei, come l’altra sera. È più o meno volontariamente indelicato. Non suscito nessuna curiosità, io? È sicuro di suscitarla lei?

– Mi scusi, sono il solito elefante nella cristalleria. Il punto è che io ho considerato me stesso ai suoi occhi come un oggetto curioso e le ho permesso di giocarci. Mentre lei per me rimane quell’abitante dell’Olimpo, come ho scritto sul libro, o quella persona che vive su un altro pianeta di cui parlavo l’altra sera per telefono. Ho tendenza a non imboccare le strade senza uscita.

– Ma questo è razzismo! sbottò lei. Per seguire il suo schema, un principe si ferma a parlare con un suo contadino e il contadino gli dice, “visto che non frequenterò stabilmente il suo castello, non le do udienza nemmeno su questa zolla di terra”. È uno snobismo alla rovescia. Lei dice di amare le donne, poi ne incontra una e la tratta come una pezza da piedi. Ti lascio giocare con me come un gattino con un nastro che pende, poi vai fuori dalle scatole.

Lui si alzò, lentamente, e per nascondere la sua rassegnazione le disse sorridendo:

– Non posso che chiederle scusa ancora una volta.

Lei rimase un attimo interdetta, poi sorrise:

– Lasci perdere, lei è un selvaggio ma un selvaggio simpatico. Ed io sono forse troppo…

– Effervescente?

– Finalmente un grande colpo di stile, rise lei. Pensa “emotiva”, “suscettibile”, “pazza”, e dice effervescente, come lo champagne. Si è riscattato. L’accompagno al cancello.

Al cancello, con grande disinvoltura, lei si sporse leggermente in avanti per avere i due sacramentali bacetti sulle guance e Stefano le chiese:

– Posso cercarla ancora?

– Se il contadino concede udienza…

– Ma se mi chiama lei per prima mi farà ancor più piacere. Io, temendo sempre di disturbare…

– Crea complicazioni inutili, completò lei.

Poi gli fece un segno di saluto con la mano e se ne tornò in casa, seguita dai due cani che le saltellavano felici intorno, creando un quadretto indimenticabile.

 

VI

 

La pelliccia di Grif, che continuava a carezzare distrattamente, era incredibilmente serica e pulita. Tanto pulita che a volte, quando in inverno si lasciava rosolare al sole e il nero dei peli aveva riflessi iridati, emanava un vago odore di biancheria stirata. Ora invece gli stava in grembo, mentre in poltrona, stanco di leggere, aveva acceso la televisione, nella speranza di qualcosa che gli permettesse di tenere il cristallino sulla posizione più riposante, quella che nelle macchine fotografiche si chiama “infinito”. Ma un documentario sull’Himalaya non era la cosa più consolante: Grif stesso avrebbe obiettato che non c’era ragione di affaticarsi a cercare qualcosa d’interessante, quando si poteva disporre di un padrone caldo e silenzioso su cui riposarsi.

– Tu non ti annoi, vero, caro filosofo?

Sonnecchiare beatamente, ecco un bel modo di godersi la vita. Ma alla fine ammise che aveva proprio voglia di qualcosa di diverso, di vivere, in una parola, e compose il numero di Alessandra. In via di contrappasso ora lo ricordava a memoria. Anche perché era 430 più la metà di 430, cioè 215, e non 43 02 15, come aveva detto lei. Che non significava niente. Inoltre, per ricordare 430 il sistema era call, 4 lettere, for, 3 lettere, Alessandra, 10 lettere, zero. Call for Alessandra, più la metà. Giurò a se stesso che non le avrebbe mai detto tutto questo. Gli amici gli davano già del pazzo, anche se così riusciva a ricordare numeri di telefono che non gli servivano più da anni.

– Pronto? disse lei,  con voce neutra e vagamente scostante.

– Sono Stefano.

– Quale onore!

– La prego!

E visto che lei non riprendeva continuò:

– Io ci provo: se non ce l’ha con me, verrebbe a prendere una pizza?

– Stasera? Stasera… Per la verità ho un impegno. Ma potremmo vederci sul tardi, diciamo alle nove?

– Vuol dire che farò una robusta merenda, in modo che, se la guarderò con interesse, non sarà un interesse da cannibale.

– Rimarrebbe con fame, se mangiasse me, rise lei.

Il resto del pomeriggio fu avvelenato da quel progetto. Se uno sa di dover passare la serata in casa, al solito, si sistema. Legge, scrive, dorme perfino. Se uno invece sa di dover uscire, e magari ha la curiosità di ciò che porterà la serata, è come se, invece di vivere, aspettasse soltanto. Sicché fu felice quando lei, poco prima delle otto, gli telefonò che potevano anticipare alle otto e mezza.

Sgombrò l’auto di tutto il superfluo, scosse fuori i tappetini, passò un panno umido sul cruscotto, pulì i vetri e si vestì poi con ciò che aveva di più decente. Baciò Grif sulla testa e andò a prenderla.

In pizzeria l’allegria che aveva caratterizzato  la serata tendeva a svanire. C’era troppa gente, da qualche parte un altoparlante assurdo riproduceva musica di cui si percepivano solo i bassi, insistenti e selvaggi, e bisogna quasi gridare, per sentirsi. Per avere le pizze avevano dovuto aspettare abbastanza a lungo e infine lei aveva mangiato solo il condimento o quasi.

– Non è che lei sia snella per caso, osservò lui.

– È vero, non mangio molto. In genere non ho molta fame. Ma è lei che sembra mangiare di malavoglia. C’è qualcosa che non va?

Lui fece un gesto circolare con la mano, mostrando la sala.

– E allora finiamo queste pizze e ce ne andiamo.

Erano ormai le dieci quando sfuggirono alla baraonda della pizzeria e si ritrovarono da soli, sulla piazza di Acicastello, dove Alessandra propose, pur stringendosi nel cappotto, di sedere su una panchina di fronte al mare.

– Ma lei rischia di avere freddo, osservò poi lei, non ha neanche una giacca.

– Non ne possiedo. In compenso non soffro il freddo. Sediamoci.

– The strong, silent man.

– Quasi John Wayne, buonanima, sorrise lui.

La conversazione andava avanti distesamente e infine deviò ancora una volta verso di lui.

– Lei m’incuriosisce, diceva Alessandra. È una persona che sta con gli altri e contemporaneamente è come se la parte maggiore, la più importante, fosse altrove. È gentile e non esita a soccorrere il prossimo, ma poi sembra che non gliene importi nulla, di questo stesso prossimo. Si apre, se uno le pone delle domande, ma lo fa con la tranquillità di chi sa che, comunque, gli altri saranno tenuti fuori dal fortilizio. Mi scusi se sono indiscreta.

– Non è indiscreta, è acuta. Ed io credo di sapere come e perché ha ragione: ma temo d’annoiarla, parliamo sempre di me!

– Poi parleremo di me. Intanto mi dica. E Stefano si lasciò andare ad una riflessione che, a mano a mano, sembrava chiarire tutto anche a lui.

Forse ho un io ingombrante, cominciò. Mi è capitato più volte, incontrando qualcuno dopo che sono stato a lungo da solo, di sentirmi chiedere perché sono così allegro o perché sono così serio. E la domanda mi ha sorpreso perché fino a quel momento io non ho affatto pensato di essere serio o di essere allegro. Non me ne sono reso conto. Quando sono solo è come se non avessi stato d’animo e sono tutt’intero in quello che faccio. Non sono uno che pensa, sono il pensiero. Non sono uno che agisce, sono un’attività. La solitudine mi distende e mi distrae totalmente.

Sono solitario ma ovviamente non desidero stare sempre solo. L’uomo è un animale sociale. Fra l’altro, non potrei star da solo neanche se volessi: ho un lavoro, dispongo d’un telefono e chiunque può impormi un contatto, se solo fa un certo numero. Ho degli impegni, devo sbrigare gli affari correnti e non posso inviare nessun altro a pagare la mia bolletta dell’acqua. Ma questi impegni sono una seccatura per chiunque. Il problema è come mai io senta il desiderio di ritornare a casa mia, alla mia solitudine, anche quando l’alternativa è stare con persone care.

La presenza degli altri limita la mia libertà. Sono acutamente cosciente delle reazioni del prossimo tanto che, se mi capita di tossire due volte e di avere la tentazione di tossire una terza volta, cerco di trattenermi per evitare che chi è presente mi dica, del tutto innocentemente: “Come mai hai questa tosse? Hai mal di gola?” Come si vede non accuso il prossimo di nulla. Una persona che mi chiede se mi sento bene è una persona affettuosa e dovrei esserle grato. Ma non ci riesco. È nella solitudine che posso permettermi d’essere irragionevole, di finire un romanzo alle quattro del mattino per poi dovermi svegliare alle sette e mezza,  senza provocare commenti. Chi vive da solo non deve dar conto a nessuno della propria insonnia, del capriccio di riparare un frigorifero a mezzanotte o di uscire in bicicletta sotto il sole d’agosto.

– Ma chi vive da solo vive senza il conforto di un affetto sicuro.

– È vero. Ma…

Io da bambino ho avuto una madre severa e poche tenerezze. Poi ho amato mia moglie ed ho creduto che il muro intorno a me fosse crollato. Ma ecco che Angela s’innamora d’un altro e mi lascia. In un certo senso per colpa mia.

– Colpa sua? Ma non m’ha detto che lei s’è innamorata d’un altro?

– Sì, ma è potuto avvenire perché io m’ero innamorato di lei, l’avevo corteggiata, sedotta, implorata e vinta, fino a farla diventare mia moglie. Ma lei non s’era innamorata di me. E il suo fiore l’ha visto sbocciare dopo, per un altro, con uguale forza. Che cosa potevo rimproverarle? Sentiva per quel tale ciò che io avevo sentito per lei.  Sicché le ho reso le cose il più facili che ho potuto: e sono rimasto solo. E con un muro più alto di prima intorno. Un muro con un buco attraverso cui entra ed esce Grif.

Forse bisognerebbe mettersi insieme sul serio, e per molto tempo, solo quando nessuno dei due è innamorato e si è invece convinti di star bene insieme.

Alessandra, seria e pensosa, sembrava bellissima, su quella panchina. Stefano la guardava e contemporaneamente sentiva come un crimine quel suo parlare di passato, di solitudine, di chiusura, mentre lei era lì, viva e partecipe. Avrebbe voluto essere un altro personaggio, uno che fosse stato capace di farla ridere, di divertirla, e di farle anche sentire che era il centro del mondo.

– Mi scusi. Mi sento melodrammatico e di una noia mortale.

– Non esageri. Fra l’altro lei si accusa di molte cose ma non di debolezza. E allora come mai non vive come le pare, lasciando perdere l’effetto che può avere sugli altri?

– La sofferenza altrui mi fa soffrire.

Lei tacque, come intristita, ma inaspettatamente quasi rise:

– Insomma lei manda tutti al diavolo ma con l’aria di fare il loro bene! Bella, questa.

– Eh sì, sono un bel fascio di contraddizioni. Forse.

– Forse, come tutti. Ma la sua mi sembra un po’ speciale.

– Vede, quando ero bambino ero imbelle perché non sapevo fare a pugni. Ma sa perché non sapevo fare a pugni? Innanzitutto perché a casa mia la violenza era assente e poi perché, mentre nel mio piccolo ambiente mi sentivo continuamente minacciato, “ti do un pugno in un occhio”, io che, come tutti, soffrivo se solo in un occhio m’entrava un granello di polvere, non lo concepivo neppure, di dare un pugno in un occhio a qualcuno. Dunque il mio schema era: “come lottare contro qualcuno che potrebbe farmi un male inconcepibile e di cui io non sono affatto capace, un male che non oso neppure minacciare?” Mi creda, non sono un vigliacco. Sono solo reso debole da questa capacità di comprensione del prossimo. Per dirne una, sa perché sono sempre risultato femminista? Perché ogni volta mi sono proposto il problema di come l’avrei pensata, se fossi stato anch’io una donna. Semplice, no?

– Elementare. Farebbe bene a spiegarlo in giro, concluse alzandosi e avviandosi, ma in direzione opposta a quella in cui avrebbero raggiunto l’automobile.

– Perché non parliamo un po’ di lei?

– Che cosa vuole sapere, chiese Alessandra, prendendolo sottobraccio.

– Curriculum.

– Bassi Alessandra, anni trentacinque, laureata in biologia, senza figli, separata, disoccupata. Già operata d’appendicite e per riduzione d’una frattura ad un femore.

– Un incidente?

– Sì, anni fa. Ho rischiato d’avere una gamba più corta dell’altra.

– Sarebbe stato un vero peccato.

– Accidenti! Rise lei, fermandosi e tirandolo per il braccio in modo d’averlo quasi di fronte: Lei m’ha fatto un complimento, se pure indiretto: si sente bene?

– Dicendole che era una dea dell’Olimpo, prima, non l’ho mica insultata, sorrise lui.

– Sì, però ha messo una montagna, fra noi.

– Alessandra, mi lasci ricondurla a casa: sono pieno di scrupoli. Mi sento come uno che avesse incontrato una fata e le avesse parlato della propria dichiarazione dei redditi. Altro che complimenti: lei è troppo bella, per me. Troppo… mi seccherebbe svegliarmi e scoprire che sotto il braccio ho il mio Grif.

– Lei è uno sciocco, alla fin fine, sorrise lei. Comunque è vero, è tardi: e per oggi abbiamo chiacchierato abbastanza.

 

VII

 

Alessandra saltò tutti i convenevoli, sorprendendolo non poco: “Senta le telefono per un consiglio. So che dovrei parlarne con amici e parenti, ma preferisco tenerli tutti fuori da questo problema: come posso fare per impedire che mio marito entri a casa mia?”

Stefano rimase interdetto, col contenitore in mano e gli occhi fissi sul tè fumante in cui stava per versare il latte. Poi ricordò vagamente che lei era separata, da anni: di che marito parlava? Aveva mentito o che? Comunque, visto che lei appariva agitata, tanto valeva mostrarsi calmi per cercare d’indurre anche lei alla calma.

– Mi scusi se le do una risposta banale: perché non chiude la porta d’ingresso?

– Non sia sciocco. Mio marito ha le chiavi.

– Ma non siete divorziati o separati, da anni?

– Sì ma ha le chiavi. La smetta di farmi domande sciocche. Mi scusi: intendo, le spiegherò tutto dopo. Per il momento risponda alla mia domanda.

– È semplice: cambiamo il cilindretto.

– So benissimo che dovrei chiamare un fabbro, ma siamo alle cinque del pomeriggio di un venerdì, non conosco fabbri, qui in paese, domani non lavora nessuno e domenica mio marito sarà qui. Non so come fare.

– Nessun fabbro. Ho detto “cambiamo”. Vengo, vedo che tipo di serratura ha, compriamo il pezzo prima che chiudano e lo montiamo. Stasera o domattina.

– Ma lei è in grado di farlo? Veramente? È straordinario. E se poi non le riesce?

– Alessandra, la prego, si calmi. Intanto, il pezzo bisogna sempre comprarlo, dunque se non ci riesco almeno ci rimane solo da trovare un fabbro, no? Suvvia, risolveremo il problema. Arrivo.

Raccolse i suoi ferri (“Somiglio ad un ostetrico”), li caricò nella sua macchina insieme con un bel catenaccio e una grossa catena (quella che usava come antifurto per la bicicletta) e partì per Trecastagni.

Prima ancora di suonare il citofono dette un’occhiata alla serratura del cancello. Salvo imprevedibili difficoltà il lavoro non sarebbe stato difficile.

Marietta l’accolse con un grande sorriso. Era una di quelle siciliane rimaste ferme a cento anni fa. Scialba, grassa, con un accenno di baffi, un grembiule annodato sul dietro e legata indefettibilmente al dialetto. Meglio così. Meglio parlasse in siciliano che in un italiano pieno d’errori. Inoltre, il sorriso significava che Alessandra le aveva parlato bene di lui e che lei ovviamente apprezzava chiunque fosse gentile con la sua padrona. Padrona? Sembrava, Marietta, una di quelle nutrici letterarie che hanno sposato l’idea d’essere vice-madri. Per lei, a quanto aveva capito, Alessandra era solo la bambina che lei aveva cresciuto e che continuava a proteggere. Servire per lei non era il verbo giusto, in quella casa. Il verbo esatto era amare.

Anch’egli le sorrise dunque, di tutto cuore, e le parlò distesamente in un dialetto che del resto anche lui amava molto. Infine arrivò Alessandra, scusandosi per averlo fatto attendere e sorrise vedendolo sulla soglia di casa con una cassetta degli attrezzi, evidentemente pesante, appesa ad una mano ed una grossa catena  intorno all’altra.

– Mi deve scusare: non solo l’ho disturbata, ma le ho anche detto di non dire sciocchezze. È che sono un po’ sconvolta.

– È difficile essere un po’ sconvolti. Lei al massimo è turbata. Ma, spero di poter dire, era turbata. Il lavoro pare facile. Comincio da qui o dal cancello d’ingresso? Teoricamente, cambiata la serratura del cancello, lui non dovrebbe potere entrare.

– Invece è facile entrare qui, se uno gira dal retro. Il muro è in parte crollato. Lui conosce benissimo il trucco.

– E allora cominciamo da qui.

– Havi bisognu ‘i mia?

– No, Marietta, grazie, vai pure. Caso mai ti chiamiamo noi.

La serratura si mostrò docile. Non erano passati dieci minuti che aveva il pezzo da mostrare nel negozio, per averne uno uguale ma con chiave diversa. Poi, mentre ancora Alessandra si meravigliava della sua disinvoltura nel maneggiare attrezzi e porte, cominciarono il lavoro sul cancello. Qui, come lui temeva, le cose si complicarono: le viti, dopo tanto tempo, erano ben arrugginite e lui non aveva l’olio speciale per facilitare l’operazione. Né c’era il tempo d’andarlo a comprare, visto che il venditore di serratura poteva chiudere. Non c’era che da faticare e vincere la resistenza di quella dannata vite di sotto. Ad un certo momento sentì ridere Alessandra e si fermò a guardarla:

-Rido perché lei fa delle smorfie inverosimili. Fossi nei panni di quella vite cederei subito, per paura.

– Eh già. Ben mi sta. Io da ragazzino avevo tendenza a ridere di mio padre che faceva le stesse smorfie.

– Ce la farà, a svitare questa cosa?

– Penso di sì. Ora giro il cacciavite con una pinza, o si rompe il cacciavite o si svita la vite.

Vinse il cacciavite e poco dopo andavano di corsa in città, con ambedue i cilindretti da sostituire, mentre Marietta era stata istruita a mettere la catena intorno ai battenti del cancello, in modo da essere al chiuso.

Durante la strada Alessandra, ormai rinfrancata e gratissima, gli raccontò tutta la vicenda.

Il suo ex-marito, Ferdinando, era un bell’uomo, sportivo, con parecchie qualità e molto fascino. Aveva la mentalità del nobile nel senso che il denaro andava più speso che guadagnato. Infatti, pur avendo ereditato un ingente patrimonio, lo aveva sperperato. Per fortuna, quando ancora aveva avuto un po’ di buon senso, s’era laureato in biologia ed aveva trovato lavoro in un’industria di medicinali. Era così che s’erano conosciuti. Ma spendeva il doppio di quanto guadagnava, era insofferente della disciplina dell’impresa e soprattutto, vedendo sempre grande, come suo costume, s’era messo in testa di divenire imprenditore in proprio. Questo, nel momento in cui il loro matrimonio, durato solo cinque anni, era andato in crisi. Ma la zia Rosa, che sperava ancora di salvare il loro rapporto, s’era lasciata convincere ad aiutarlo ed aveva prestato una fideiussione, per creare l’impresa.

– Chi è la zia Rosa?

– La zia Rosa è il centro del mondo, disse lei semplicemente.

Poi spiegò che lei era rimasta orfana di padre molto presto e sua madre era stata una donna buona ma poco efficiente. Forse dipendeva anche dal fatto che la sorella minore, Rosa, era tutt’al contrario nata per gli affari, il diritto, il comando. Aveva preso il controllo di tutto e amministrava da sempre il loro patrimonio. Si occupava dell’amministrazione, delle tasse, delle riparazioni e delle poche terre che erano loro rimaste in territorio di Paternò. Era una donna oculata ma aveva un debole per Ferdinando ed aveva dunque fatto quella sciocchezza. Poi, fatalmente Ferdinando si era messo nei guai e la zia aveva perduto la fideiussione. Ovviamente, s’era rifiutata di concedere altri crediti e lui aveva bussato a soldi da lei, che gli aveva regalato (lui parlava di prestito, lo sfacciato!) l’equivalente di cinque milioni di lire ma poi aveva detto basta. Ora, disperato e inseguito dai creditori, dal fisco e perfino da qualche malintenzionato, lui voleva  indietro il De Chirico del salone.

– Ma è suo?

– È quello che sostiene lui, perché a suo tempo me l’ha regalato. Ma in sede di separazione consensuale abbiamo conteggiato tutto e abbiamo firmato un documento col quale dichiaravamo che nessuno doveva nulla a nessuno. Ad essere precisi, è lui, oggi, a dovere una cinquantina di milioni a mia zia e quei cinque a me. Ma siamo stanchi d’aiutarlo. È un pozzo senza fondo. La verità è che tutta la sua vita è venuta al pettine.

– E perché ha ancora le chiavi di casa?

– Innanzi tutto perché le aveva, naturalmente, poi perché, per parecchio tempo, abbiamo recitato la parte dei coniugi civili. Vuoi mettere, il conte Sallustri e la figlia del marchese! Ma al bisogno Ferdinando si è rivelato per quello che è: uno abituato a sfruttare amici e parenti e a far pagare agli altri i suoi errori. Con me ha chiuso.

– E lei teme che possa cercare d’impossessarsi del quadro con la forza?

– Senti, diamoci del tu, ti sto raccontando la mia vita e siamo ancora a questo lei. Ma sei tanto formale, tu?

– Non m’importa niente del tu o del lei, conta la sostanza del rapporto. In Francia nelle famiglie “bene”, ancora nel XX Secolo, i coniugi si davano del lei. Torniamo  a questo Ferdinando: ma come, conte, laureato, sarebbe capace di scavalcare muri, entrare in una casa in cui non è gradito e portar via con la forza un quadro che non è suo?

– Non è suo giuridicamente ma lo è sentimentalmente: perché l’ha trovato lui, l’ha apprezzato lui, l’ha comprato lui. Di diritto non ha mai capito niente. Vive la vita come un’avventura eroica in cui lui dovrebbe vincere tutto e tutti perché è un bambino che s’è comprato il berretto di Robin Hood. Col berretto di Robin Hood non può che vincere.

Stefano sorrise immaginando un conte quasi quarantenne col berretto di Robin Hood e un arco lungo quaranta centimetri. Stavano per arrivare a casa quando osò porle la domanda che aveva avuto in mente tutta la sera:

– Ma come mai l’hai sposato? Te ne sei innamorata o che?

Lei sembrò riflettere, quasi che la domanda le giungesse nuova, e lui, pentito, si confermò nell’idea che quella poteva essere una domanda indiscreta:

– Se non ti va di parlarne lascia perdere. Non sono curioso.

– È solo che non so da che parte cominciare. Forse dal fatto che – mi sembra stupido dirlo così – la mia famiglia è di origine nobile. In questo caso anche i più pratici non riescono a dimenticare che faremmo tutti bene a rimanere nel nostro ambiente. Dunque i miei hanno guardato storto tutti i miei compagni di scuola o d’università, anche quando erano bravi ragazzi, gentili e intelligenti, ed hanno invece avuto sempre un occhio di riguardo per conoscenti vari, anche se emeriti cretini, purché almeno baroni. Ferdinando, quando è arrivato, era ancora l’erede di una grande famiglia con grandi soldi. L’ideale. Insomma, tutti hanno congiurato per farci mettere insieme e noi non ci siamo certo tirati indietro. Lui era un bel giovane, mi ha corteggiata e credo gli piacessi veramente. Io a mia volta sono stata lusingata e infine, pensando che difficilmente avrei potuto avere di meglio, l’ho anche sposato. Non ero sicura che fosse il grande amore ma mia zia Rosa diceva giustamente che il grande amore non è un diritto. Anzi, riesce meglio un matrimonio ragionevole che un matrimonio d’amore, come del resto hai detto anche tu. Infine mia zia aggiungeva cinicamente che, nel nostro ceto, se il matrimonio va bene è tanto di guadagnato, se va male si rimane cortesemente insieme e ognuno si cerca l’amante. Zia Rosa è vergine a sessant’anni (immagino), ma ragiona come un filosofo francese del Settecento.

Ormai erano in vista della casa di lei e lui chiese soltanto:

– Poi il matrimonio s’è sfasciato.

– Sì, disse lei. Nato per ragioni diverse da tanti altri, è morto per le solite ragioni. Ma soprattutto perché Ferdinando s’è rivelato per quello che è: un uomo inconsistente e immaturo.

Mezz’ora dopo, a lavoro concluso, almeno per la porta di casa, Stefano rifiutò l’invito a mangiare qualcosa per cena. Un po’ per non disturbare e un po’ perché aveva voglia di ritrovare le sue abitudini. Ma Alessandra era leggermente ansiosa:

– Potresti star qui, quando Ferdinando verrà?

– Certamente. Fra l’altro devo ancora montare la serratura del cancello.

– Come ringraziarti?

– Dandomi un bacio su questa guancia.

 

VIII

 

– Sei riposante, confessò Alessandra, deponendo con calma il bicchiere di cognac da cui aveva bevuto un altro sorso. E mi chiedo perché. Tu che sembri aver riflettuto su tutto, sai dirmelo, perché?

– Forse perché sono un adulto. Non nel senso che ho trentott’anni, nel senso che non ho bisogno degli altri e guardo la realtà per quello che è, senza costruirci sopra sogni o leggende nere.

– C’è dell’altro, disse lei. C’è dell’altro perché sono una donna. Ti sei mai chiesto, che significhi?

– Cento volte. Ma ovviamente non ne saprò mai quanto te.

Lei si alzò, senza dimenticare il bicchiere, e andò a sprofondarsi in quella poltrona semi-sfondata che lei considerava sua e in cui sembrava rientrare come nel suo nido. Lui sedette sul divano e, come altre volte, ma stavolta senza chiedere permesso, pose i calcagni sul tavolinetto, mettendosi a suo agio.

– Essere una femmina è un problema sin da quando si hanno quattro o cinque anni. O, almeno, per me è stato così. Vedevo i miei compagni fare delle cose e poi qualcuno veniva a dirmi che io non potevo farle perché ero una femminuccia. E mi chiedevo perché. Non è che i bambini quelle cose le facessero col pene, che io non avevo: le facevano con le mani, con i piedi, che avevo anch’io eccome. Ma ero una femminuccia e non potevo farle, eh no. Insomma una donna porta per tutta la vita il suo corpo come un fardello ineliminabile. In Europa non si permette agli ebrei di dimenticare che sono ebrei, nel mondo non si permette alle donne di dimenticare che sono donne.

– C’è qualche miglioramento, propose Stefano.

– Qualche, qualche, ammise lei, alzando un po’ le spalle. Un miglioramento è che siamo qui, soli, in casa, e ciò malgrado domani non mi obbligheranno a cucirmi una lettera A rossa sul petto. Ma questo è secondario rispetto ad un altro fatto. Rispetto al fatto – questo sì eccezionale – che fino ad ora non mi hai fatto la corte, non mi hai fatto capire che ti piacerebbe andare a letto con me. Giusto?

– Se sia giusto o no lo lascio dire a te, sorrise lui.

– Che verme! gli sorrise lei di rimando. Intendevo: dico la verità?

– Voglio un avvocato.

– Suvvia smettila, rise lei, scuotendo la testa. Parla seriamente. Anzi, parlo io. Vedi, una donna che non sia un orrore non può stare con un uomo senza che questo le proponga d’andare a letto. E questo è molto fastidioso, per chi vorrebbe avere delle amicizie. Perfino gli amici di mio marito, quando avevo un marito, mi hanno corteggiata e sostanzialmente proposto di fargli le corna. Tutti se ne fanno un dovere.

– O seguono un istinto.

– O seguono un istinto, come dici tu. Poi però c’è l’altra faccia della medaglia. Una donna è infastidita da queste continue proposte sessuali, ma se le proposte sessuali mancano comincia a porsi dei problemi: non piaccio più? È già innamorato di un’altra? È omosessuale o impotente? Questo mi fa incazzare, scusa il verbo: perché spesso lo penso anch’io, come una scema. Non riesco ad impedirmelo. Come si può non essere una donna, se una è stata una donna per decenni, dalla nascita?

Stefano bevve un sorso di cognac, aspettando che continuasse, poi, visto che continuava a tacere, rispose:

– È piuttosto una questione di segnali. Una donna amata e soddisfatta sessualmente, salvo ad essere narcisista o qualcosa del genere, non lancia più segnali e, salvo ad essere una grande bellezza, viene lasciata in pace. Questo genere di donna vive distesamente, da essere umano. Se invece due persone sono come noi, io con Grif e tu con Marietta, involontariamente lanciamo dei segnali di disponibilità. Tu sei disponibile all’amore, ecco tutto. E forse lo eri anche quando stavi con Ferdinando.

– Mi chiedo se non mi stia dando della civetta. E poi, se tu sei disponibile, come mai non mi fai la corte?

– Due risposte. Primo, non sei una civetta. Sei giovane, bella, ricca, nobile, desiderabile fisicamente e single. Che vorresti, di più, per interessare? Secondo, non ti faccio la corte per non farti del male e per non farmi del male.

Lei gli piantò in faccia i suoi grandi occhi scuri, come inchiodandolo:

– Sono dunque tanto nociva?

– No. Sei tanto inadeguata. O, per meglio dire, sono tanto inadeguato io, a te. Tu meriti di meglio e di me ti stancheresti.

Lei lo considerò con attenzione. Parole come quelle potevano significare parecchie cose. Lei aveva troppo buon senso per accettare senza esitazione la versione positiva, che cioè lei fosse troppo in alto, in tutti i sensi, per lui. Gli uomini che aveva conosciuto avevano invariabilmente una troppo buona opinione di sé per fare un’ipotesi del genere. E poi Stefano era tutt’altro che uno sciocco: dunque l’ipotesi era poco probabile. Un’altra era che volesse, con queste belle parole, tenerla lontana. Il solito, vecchio trucco maschile: “Tu meriti meglio di un farabutto come me”. Ma intanto quel farabutto che la donna sta implorando di restare la lascia.  Infine… infine cosa?

Poi però pensò che se avesse insistito per saperne di più lui poteva pensare – giustamente del resto – che lei gli stesse proponendo una relazione. O almeno che stesse saggiando il terreno in questo senso.

– Permettimi di non dirne di più, aggiunse lui, salvandola da ulteriori riflessioni. Non mi pare intelligente che discutiamo sul perché ci stiamo separando, se ancora non ci siamo neppure messi insieme. Né è detto che mai lo faremo.

In lei la tentazione d’essere un po’ polemica ebbe la meglio:

– Però tu hai le idee chiarissime, in materia, nevvero?

– Abbastanza.

– Ma non ti stanchi mai, replicò lei piccata, di stare lì, come il gatto del Cheshire, col sorriso di chi dice: so dove finirai con l’andare ed io lì ti aspetto? Sembri la guida alpina che fa cento metri di buon passo, col suo buon passo, e poi si volta ad aspettare pazientemente che i cittadini arrivino, ridicoli e col fiato grosso.

Doveva essere certo meno irritata di quanto volesse aver l’aria d’essere, ma un po’ lo era veramente: aveva incrociato le gambe nervosamente nell’altro senso, teneva il busto eretto e i suoi occhi, ancora una volta, erano come due canne di pistola che gli intimavano di giustificarsi. Stefano percepì esattamente il messaggio ed alzò comicamente le mani:

– Mi arrendo. Che vuoi che ti dica? Sarò sintetico: abbiamo condizionamenti diversi e temo che il tuo ambiente mi seccherebbe. Forse – anzi, probabilmente – a te seccherebbe il mio. Io sono una sorta di misantropo, tu… Non sei uva per me, disse la volpe. A che scopo dirti le tue qualità, farti dei complimenti e il resto? Mi sembri abbastanza intelligente per sapere tutto quello che sei. Né io tengo ad affascinarti e sedurti.

– You never learn, disse lei rassegnata. Proprio non impari mai a non ferire il prossimo.

– Alessandra, io, ferirti? Sei il mio raggio di sole di questi giorni. Sei il mio unico raggio di sole da molti mesi a questa parte. Forse anni. Non ci complichiamo la vita. Ti prego. Raccontami piuttosto com’è finita con Ferdinando.

Lei fece uno sforzo per sorridergli e cambiare discorso. Gli riferì che aveva effettivamente seguito il suo consiglio e al telefono aveva detto a Ferdinando che non sarebbe andata a prenderlo in aeroporto. Anzi, era meglio non venisse, visto che lei non gli avrebbe dato un bel niente. Lui aveva insistito e aveva detto “La vedremo!”, come se lei dovesse morirne di paura e, insomma, aveva lo stesso preso l’aereo e poi un tassi dall’aeroporto fino a Trecastagni.

– Ha un bisogno disperato di denaro e prende un tassì per venti chilometri? si meravigliò lui. Io sarei andato a piedi, piuttosto.

– Ma tu da un lato non sei il conte Sallustri, dall’altro ti potresti effettivamente permettere il tassì. Ed anche per questo verso, fortunatamente, non sei il conte Sallustri.

Quanto a lei, appunto seguendo il suo consiglio, era andata dalla zia Rosa, lasciando Marietta con l’istruzione di non aprire a nessuno. Marietta aveva seguito la consegna, lui aveva fatto il giro da dietro ed aveva sbattuto il muso contro la nuova serratura della porta. Ne aveva dette di tutti i colori, a Marietta, finché costei non gli aveva risposto per le rime, nel suo siciliano colorito. Ferdinando è andato dai Carabinieri…

– Nientemeno! esclamò Stefano, sbalordito.

– Niente meno. Te l’ho detto che è un pazzo e un bambino viziato. Il maresciallo ha poi detto a Marietta che gli hanno semplicemente fatto notare che era materia di procedimenti civili. Non potevano perdere tempo con lui. Se voleva il quadro, che facesse causa o una denuncia per appropriazione indebita.

– In fondo meno male. Avrebbe potuto mettersi nei guai peggio di così.

– Io ti sono molto grata, mi hai risolto un problema serio.

Lui fece il gesto di chi scaccia un moscerino, si alzò e cominciò a raccogliere il suo giaccone. Infine lei sorrise e ribadì:

– Poco fa ti ho detto che la tua presenza mi calma e che non so perché. Tu me l’hai detto, il perché, ed io non ricordo più la tua risposta.

– Neanch’io ricordo ciò che t’ho risposto, sorrise lui. Ma ti dico ciò che penso in questo momento: in primo luogo, spero sia vero. Mi piacerebbe rappresentare questo, per te. In secondo luogo, penso dipenda dal fatto che sono calmo io.

– Dev’essere questo, approvò lei. Devo imparare ad essere come…

Lui non la lasciò finire: si mise ambedue le mani accanto ai fianchi, con gli indici in avanti, allargò le gambe a ciambella e sibilò: “Johhhhhn Wayne!”

 

IX

 

La telefonata era partita da Arturo che, venuto a Catania senza la famiglia, aveva deciso che non voleva mangiare da solo ma “riunire il comitato centrale”, come diceva lui. Sicché aveva imposto a Gerry d’aprire la sua casa agli amici; a Luisa, sua moglie, d’apparecchiare la tavola e “sopportarci tutti”; a Stefano di portare due fiaschi di Chianti rosso; a Giovanni di portare i dolci e passarlo a prendere in macchina e, quanto a se stesso, avrebbe offerto la cena, nel senso che avrebbe svaligiato una rosticceria e una pizzeria. Cosa che effettivamente fece, tanto da farsi prendere in giro per la quantità. Gerry gli disse che probabilmente si era preoccupato troppo: “non è che loro tutti fossero rimasti a digiuno, da quando lui era andato a vivere a Roma“. Ma Arturo, grande giurista che aveva fatto una carriera fenomenale, guadagnava moltissimo e vedeva grande.

Comunque, la cena fu divertente. Invece di cercare di far rivivere i ricordi e di giocare ai liceali di vent’anni prima, si parlò del presente. Giovanni, con la sua aria tranquilla, parlò delle sue difficoltà d’imprenditore, anche se in un modo o nell’altro si vedeva che nuotava nell’oro. Approfittò comunque della presenza di Arturo , come tante altre volte, per chiedergli dei consigli legali che l’altro gli dette volentieri. Anche perché Giovanni sapeva benissimo come sdebitarsi: a volte gli aveva fatto ottenere delle consulenze pro veritate con cui aveva guadagnato molto denaro. Quei due erano una sorta di mafia: la gente spera nel matrimonio d’amore che dura tutta la vita, loro avevano fatto durare per tutta la vita la loro solidarietà di compagni di banco. Persino le loro mogli sapevano che nessuno poteva interferire con quel legame e Dorotea, la moglie di Arturo, aveva addirittura sviluppato una tale antipatia, per Giovanni (e in genere per i vecchi amici di Arturo), che faceva di tutto per impedirgli di vederli. E se lui proprio insisteva lo faceva andare da solo. Stavolta, per fortuna, era rimasta a Roma.

La moglie di Giovanni si era invece inserita nel gruppo ed era lieta di vedere gente. Soprattutto visto che Giovanni era molto casalingo e spesso veramente troppo stanco per  pensare di uscire. Lei rischiava, come diceva, di “divenire una monaca di casa”.

Conclusa la cena, mentre ancora Arturo distribuiva dei digestivi a coloro  che si sentivano troppo sazi, cioè a tutti, Stefano, in un momento in cui la conversazione languiva, chiese a Gerry come mai non raccontasse niente, lui che di solito aveva tante cose da raccontare. Arturo gridò “No, per favore, per l’amore del cielo, no! Se no ci racconta ancora la storia di Sinitò!” Era Sinitò una compagna di classe che era  stata protagonista di un episodio che Gerry aveva raccontato decine di volte.

– Vi ho mai parlato dei Beccuti? chiese l’interessato.

Tutti ammisero di no e Gerry, contentissimo d’avere un uditorio, si lanciò nei ricordi.

– Quando ero bambino la mia famiglia viveva in via Coppola, nella zona che ora è stata distrutta per creare il nuovo corso e che…

– Salta, gli disse secco Arturo.

Va bene, via Coppola. Noi abitavamo al secondo e al primo piano, sotto di noi, abitavano i Beccuti, i vicini più inverosimili che abbia mai avuti. Una famiglia di cin­que persone in cui nessuno era ordinario. Padre e madre, grandi e grossi, per co­min­cia­re, non erano siciliani. Tan­to che in un mare di Carmelo, Salvatore, Concetta, Provvidenza, lui si chia­ma­va Ennio e lei Tullia. Niente­me­no. Per­sone per be­ne, pro­ba­bilmente, ma protagoniste di scenate cla­morose. Liti pub­bli­che e in lin­gua ita­lia­na. Cosa stra­nissima, questa: nel no­stro quartiere litigare in ita­lia­no sa­reb­be stato co­me fare il bagno in abi­to da sera. Ma i Beccuti erano speciali, l’ho detto. Sen­ti­va­mo la vo­ce bas­sa del pa­dre che bron­to­la­va e in­vei­va e quel­la della ma­dre, estre­ma­men­te sonora, che esplo­deva in in­sul­ti san­gui­nosi, fra cui mi colpi­va soprat­tutto quel­lo di “beec­cooo!”. Nes­su­no, in Sici­lia, avreb­be mai chiama­to un altro bec­co: gli avreb­be dato del “cun­nutu”, anche pronunziando­lo “cunnu­uutu!”, ma bec­co non gli sa­reb­be mai ve­nu­to in men­te.

Arturo, per una volta, rideva di cuore.

– Ma poi – chiedeva – per­ché chiamare bec­co il ma­rito se a far­lo bec­co avrebbe dovuto essere lei? Infi­ne per­ché anda­re a sce­glie­re l’insul­to “becco” per uno che già si chia­ma Bec­cuti di cogno­me?

– Per beccarlo meglio, forse, disse Giovanni.

– Avanti, zitti, diceva intanto Stefano, sentiamo il resto.

– I due litigavano a tutto spiano, riprese Gerry. Ogni tanto, in questo frastuono s’inseriva la vocina di Li­dia, la figlia: bruttina, piccola, rachitica, con gli oc­chi smorti e forse un po’ scema, che cercava di mettere pace. Sembrava una capretta terrorizzata fra le zampe di due rinoce­ronti.

 Le grida e gli scontri dei Beccuti facevano parte della nor­ma­li­tà, per noi, e tuttavia una volta ci chie­demmo se non do­ves­si­mo chia­mare i Carabinieri. Infatti avevamo senti­to un tale botto, un tale frastuono, che la casa aveva tremato ed era­va­mo ri­ma­sti tutti sbi­got­ti­ti. Che era successo?

  Era successo che per mani­fe­sta­re la pro­pria colle­ra, non so più se Ennio o Tullia avevano ti­rato dal muro un’in­tera creden­za, con tutte le suppel­lettili che con­tene­va, facen­dola cadere a faccia in giù sul pa­vi­mento.

– Ma non poteva crollare il pavimento? chiese Gabriella, la moglie di Giovanni.

– Certo è che non crollò.

– Mi pare tu abbia detto che era una famiglia di cinque persone: chi erano gli altri due? domandò Luisa. E Gerry le fu grato di avergli dato la possibilità di rimanere sul proscenio.

– Poi c’erano i due figli maschi. Roberto era un uomo dal carattere chiuso ma cortese. Lavorava come impiegato ma la sua pas­sione era la musica. Era un chitarrista classico del più alto livello, un concertista. Sic­ché le liti dei Beccuti, cui a volte partecipava anche lui, si alternavano col piacere raf­fi­na­to di una chi­tar­ra così ben suonata che tut­ti colo­ro che veni­va­no a tro­varci crede­vano da prima di udire un piano­for­te. Ci so­no pez­zi di Gra­nados che ho conosciuto prima di co­no­scere Bach.

Arturo non resistette al desiderio – costante, in lui – di sfottere il padrone di casa:

– Avete sentito, Gerry conosce Granados che io non ho mai sentito nominare. 

– Come se fossi tu il termine di paragone per la cultura musicale, obiettò Stefano.

– Tu sta’ zitto, sei quasi uno specialista, tu. Io parlo per le persone normali.

– E l’ultimo, l’altro figlio? s’informò Luisa.

– Si chiamava Enrico, era diplomato dell’istituto tecnico industria­le e pareva essere l’unica persona del tutto normale. Non gridava, amava la vita e gli scherzi. Ed era un arti­sta pure lui, nel di­se­gno: tanto che cre­do sia fini­to pro­fes­sio­ni­sta.

– Dovremmo trarre una morale, da questa storia? domandò ironico Arturo.

– Sì, disse Stefano: che la vita a volte è drammatica e rumorosa e sembra riempire tutta la realtà, mentre anni dopo è completamente scomparsa e uno si chiede che abbia significato.

– E che ha significato? chiese Giovanni.

– Assolutamente niente, gli rispose placido Stefano. A volte le cose ispirano una morale, ma la ispirano perché, per caso, ce la vediamo noi, quella morale. Magari a scoppio ritardato. Come l’interpretazione che di mio zio Nino ho dato da adulto.

– Abbiamo altri ricordi, per le mani? S’informò Arturo, esagerando la sua preoccupazione e facendo sorridere gli astanti. Ma Gabriella intervenne, col suo solito rumoroso entusiasmo:

– Forza, parlaci di questo zio Nino. Ci hai fatto una testa così, parlando di tua madre e di tua sorella, ed ecco che appare un personaggio nuovo, finalmente.

– Non ne ho parlato perché mio zio Nino, marito della sorella maggiore di mia madre, non era nessuno. E tuttavia, a ripensarci, merita d’essere ricordato perché perfetto rappresentante di un intero mondo.

Era un uomo abbastanza anziano, magro, piccolo di statura, pelato, e con dei fondi di bottiglia per occhiali. Parlava con una brutta voce rotta e roca e dava la sensazione di essere anche sporco. Di professione faceva l’oste ed aveva un tale carattere che in famiglia veniva soprannominato Malaguerra.

– Non si può dire che vanti la tua famiglia, rise Arturo.

– Poche famiglie meritano d’essere vantate.

– Sante parole, confermò Gabriella. Poi Stefano riprese:

– Questo zu Ninu merita un posto nei miei ricordi per questa caratteristica: era assolutamente terra terra. Era l’essere più lontano dall’eleganza che io abbia mai incontrato. La casa in cui viveva non era semplicemente brutta, era una casa in cui non era stato fatto il minimo tentativo per renderla meno brutta. Era tanto orribile che, da ragazzino, facevo di tutto per non andarci. E se si pensa che venivo da una casa come la mia, che certo non era l’Alhambra…

Non riesco in nessun modo ad immaginare un problema intellettuale in quell’uomo. Penso che nella sua vita ci sia stato solo il denaro e le necessità concrete, intese nella maniera più pedestre e spudorata. L’unica “idea” che ho visto affiorare sulle sue labbra, quando ha cominciato ad invecchiare, è stata l’ossessiva paura della morte. L’unica sua battuta citabile la diceva nel momento in cui scacciava via le mosche che gli si posavano sulla pelata: “Non solo uno deve morire!”

Dello zu Ninu da ragazzo mi sono vergognato. E invece avrei dovuto imparare da lui cosa c’è nella testa della gente. E convincermi che magari non c’è quasi nulla. Se avessi capito ‘u zu Ninu avrei capito meglio il mondo e avrei avuto più successo.

– Potevi fare l’oste anche tu, rise Gerry.

– Anche da oste avrei guadagnato più che da professore, non credi? Questo filosofo della prassi che era ‘u zu Ninu avrebbe potuto dirmi: “Giovanotto, convinciti una volta per tutte che la cultura, l’intelligenza e il buon gusto sono rarissimi. Sono soprattutto privi d’importanza. Pensa al denaro e ai vantaggi concreti. Infine, se proprio non riesci a farne a meno, tieni i tuoi lati eleganti per te stesso. Sarei tanto più contento se tu fossi un po’ meno intelligente. Ma sei come sei e finirai male”.

– Accidenti, disse Arturo. Tra la storiella di Gerry, senza morale, e la tua, con la morale, preferisco quella di Gerry. A momenti m’hai fatto andare di traverso l’ultimo cannolo.

X

 

– Disturbo? La voce di Alessandra era gaia ma lui non riuscì a risponderle con lo stesso tono.

– Ma no. Sono lieto di sentirti, disse nel momento stesso in cui si pentiva d’aver risposto allo squillo.

– Lieto? Non si direbbe. Hai un tono da funerale.

– Effettivamente non sono in uno dei miei momenti più allegri.

– È successo qualcosa di serio? chiese lei cambiando tono.

– Ma no! cercò di dire lui allegramente ma la sua voce, ancora una volta, andò per conto suo. Tuttavia sono melanconico. Ho commesso un errore. Mi sono messo ad ascoltare un vecchio nastro di tanti anni fa e mi sono trovato immerso nel mio passato. Mi sento come se fossi morto e ciò malgrado potessi ripensare alla mia vita. A ciò che ho vissuto e che non vivrò più. Come dicevano i Romani? Sunt lacrimae rerum. Mi capita di andare spiritualmente al cimitero e di piangere sulla mia propria tomba: “qui giace uno che è morto ma, credetemi, un giorno fu vivo”.

Ho rischiato di non rispondere al telefono perché, mi sono detto, chiunque sia potrei solo intristirlo. Poi ho pensato che mi avevi detto che avevi un problema e forse m’avresti chiamato e ho deciso di rispondere. Ma in questo momento me ne pento.

Lei rimase un po’ in silenzio e tendendo l’orecchio lui riuscì a sentire il suo respiro lieve.

– Non mi dispiace vederti umano. Tuttavia pensavo fossi più solido.

– Delusa?

– No, delusa no. Un  po’ sorpresa, forse?

Nel silenzio che seguì lui si chiese se dovesse lasciarsi andare alle confidenze e prima ancora di sapere se poteva essere indiscreto nei propri stessi confronti si preoccupò del fatto che forse l’avrebbe annoiata. Almeno su un punto però desiderò difendersi:

– Io sono solido, ma quando mi serve. Per affrontare la vita, per sapere dov’è il nord e non perdere la rotta. Ma se la solidità dovesse servire a non capire la poesia, a non sentire pietà per chi soffre, a non commuovermi sul mio passato, allora no, non vorrei essere solido.

– A volte sembri sparire in un gorgo d’amarezza.

– Un gorgo d’amarezza che nasce dalla coscienza di ciò che è la vita. Ti racconterò di un personaggio di cui mi parlava mio padre.

Era da poco finita la guerra e per le strade della città circolava un relitto d’uomo di circa sessant’anni, vestito solo d’un paio di calzoni tenuti su con lo spago e d’un vecchio pastrano militare. Era tanto magro che gli si sarebbero potute contare le costole e la sua figura allampanata era familia­re a tutti, perché il poveraccio era muto e viveva di elemosina. Precorrendo i tempi, offriva tuttavia un servi­zio: lui, muto, cantava agli angoli delle strade. Ovviamente, quando apriva la bocca sdentata, non ne faceva uscire che qualche sommesso mugolio, ma era coerente: s’accompagnava con un mandolino senza corde.

Ecco, noi viviamo una vita assurda, accompagnandoci con un mare d’illusioni che sono come quel mandolino: senza corde e senza sostanza.

Lei quasi rise:

– Mi spieghi come fai, poi, ad uscire da questa depressione? Una persona coerente, piuttosto che cantare con un mandolino senza corde, dovrebbe suicidarsi.

– No, Alessandra, temo che le cose stiano diversamente. Io non sono depresso, sono disperato. Il mio amore per la vita è tale che non riesco a non rimpiangere ogni giorno che passa, ogni essere umano che perdo di vista, ogni traccia di bellezza che mi ha sfiorato l’anima. La vita non è una matrigna, per me: tutt’altro. È la mia amante che momento dopo momento diviene Melusina, l’amata lontana e irraggiungibile, il grande amore che tuttavia finirà.

– Ora capisco perché non sei un alcoolizzato: sei già ubriaco di vita.

Lui considerò quelle parole che gli avevano fatto saltare il cuore in petto. Alessandra aveva talmente colto nel segno, per il suo stato d’animo di quel momento, da farlo sentire improvvisamente nudo e senza difese.

– Touché. Ma tu perché mi hai telefonato? domandò poi, per cambiare discorso.

– Il mio problema è risolto, se ne occupa mia zia. Per il resto… lo sai che ora è?

– Appena… le sette meno un quarto, di una serata fresca di tardo autunno. Perché?

– Perché è ora di cena. Io ho un impegno a Catania dopo cena, non posso dire di no: ma potremmo prendere una pizza insieme, prima? Stavolta sei mio ospite.

– Eh no, abbiamo detto che la prima volta, da bravo maschilista, avrei offerto io, in seguito avremmo sempre fatto a metà. Questa volta è “in seguito”.

– Meglio, così risparmio qualcosa.

 

XI

 

Alessandra si mostrava curiosa, rispetto a Stefano, più di quanto lui non si mostrasse curioso di lei. Ma la cosa dipendeva dal fatto che lei era solare, chiara – “un raggio di sole”, come pensava spesso lui – mentre lui si sentiva contraddittorio, guardingo, pessimista, inquietante. E per questo era spinto a confessarle le sue complicazioni, quasi per chiederne scusa. Quasi per dirle che non significavano nulla contro di lei. Per esempio, quel giorno lei gli aveva detto che spesso, guardandolo da lontano, o mentre andava via, aveva pensato che sembrava una sorta di barbone. O un eroe omerico. O un personaggio da western. Insomma, essenzialmente  un uomo venuto dal nulla e che al nulla sarebbe tornato. Un personaggio, quasi.

– Ti pare ragionevole, ciò che dico?

– Altroché, ma non è detto che sia una qualità.

– È pittoresco, però, confermò lei.

– Pittoresco ma, come una perla, nasce da una malattia. E dal comportamento di mia madre. Se te ne parlo, hai certo il diritto di pensare che questo sia uno dei tanti modi in cui si manifesta il piacere di parlare di sé e delle proprie cose. Ma nel mio caso, almeno soggettivamente, si tratta d’onestà: da un lato mi piacerebbe pensare d’essere figlio di me stesso e delle mie scelte, dall’altro m’impongo l’umiltà intellettuale di riconoscere che certe idee sono state seminate in me nella mia infanzia. E, ovviamente, in primo luogo da mia madre.

Mia madre era una donna affettuosa ma straordinariamente pudica. Per questo da bambino ho compreso male quanto mi volesse bene e per tutta la vita ho considerato strano che qualcuno si occupasse di me, mi desse un aiuto, mi considerasse importante. Pensa che da ragazzo un ascesso mi fece gonfiare mezza faccia fino rendermi – ai miei occhi – mostruoso. Ebbene, ricordo la meraviglia sentita per il fatto che mia madre non solo non mostrò schifo di me ma mi condusse da un medico e mi trattò con particolare cura. Dal mio punto di vista in qualche modo era come se avessi meritato di essere buttato nell’immondizia. A ripensarci oggi trovo tutto questo sbalorditivo, ma è in questo ambiente mentale, che sono nato. Né le cose sono andate diversamente, dopo. A quindici anni ho avuto una pleurite essudativa e un medico m’ha curato. Quando sono guarito non sapevo come ringraziarlo. Ovviamente sapevo che i miei l’avevano pagato, ovviamente quel professionista mi rispose semplicemente “È il mio mestiere”, e tuttavia io non sapevo come ringraziarlo perché si era occupato di me.

Da adulto non sono cambiato. Non solo non mi viene mai in mente di chiamare qualcuno, quando sono in difficoltà, ma è sempre come se fosse naturale che per me ci sia quello che costa di meno, quello che è meno elegante, quello che gli altri non hanno voluto. L’ambulatorio dei poveri e non la grande clinica. Una volta mi sono trovato in mezzo ad un’alluvione, trascinato dall’acqua insieme con la mia automobile per più di duecento metri. Ebbene, quando alla fine il livello dell’acqua m’ha permesso di scendere, sono tornato a casa a piedi, bagnato e tremante di freddo, perché non mi è venuto in mente neppure per un momento di prendere un tassì. Alcuni tassisti sono disonesti, il tassì a Catania costa caro, tutto quello che si vuole, ma ciò che importa è che al tassì non ho neppure pensato, pur passando dinanzi al loro parcheggio.

Non mi meraviglierei se qualcuno si limitasse a diagnosticare “sei un avaraccio”: ma non sempre si tratta di denaro e per le cose che mi piacciono non bado ai soldi. Anche se le cose che mi piacciono sono rarissime. Sembra che mi basti il semplice essere vivo.

In fondo credo si tratti piuttosto d’un fenomeno inverso a quello più frequente: mentre io mi considero senza importanza, gente insignificante, di cui non si capisce perché esista, è capace di volere per sé l’assoluto meglio, in ogni senso. Se ha un problema con i denti non chiede il nome di un dentista, ma del miglior dentista della città. Se deve comprare un prodotto va nel miglior negozio del ramo, anche se quello è un prodotto standard che vendono a prezzo inferiore anche i supermercati. Insomma c’è parecchia gente che si considera serenamente degna della massima considerazione, più o meno come l’umanità avrebbe il dovere di trattare Mozart, se fosse vivo. Quando assisto a scene del genere mi sorge nel cuore una domanda: tu vuoi il meglio, ma tu sei il meglio? Perché mai il meglio dovrebbe essere adeguato a te, che sei il peggio? Io mi considero per quello che sono. Uno qualunque. Quando morrò, non lascerò un gran vuoto. Ma neanche la vita lascerà un gran vuoto, per me. Tutto è così insignificante.

Alessandra che lo aveva ascoltato con molta attenzione temette d’aver perso il filo:

– E che cosa bisognerebbe dedurre, da tutto questo?

La domanda era semplice e legittima ma anche Stefano s’accorse di non sapere più da dove avesse cominciato. Rimase per un po’ in silenzio, poi sorrise:

– Hai visto? Mi sono lasciato andare al piacere di parlare di me e del mio passato e la cosa ha fatto valanga. Dobbiamo trarne una deduzione?

– Perché in quello che hai detto c’era tanta amarezza da indurre il prossimo che ti vuol bene ad aprirti il coperchio della pattumiera, perché ti ci possa buttare.

– Eppure no, non tutto è negativo. L’affetto di mia madre quando ho avuto l’ascesso mi ha insegnato che una persona si ama per il suo “sé”, per quello che è sostanzialmente, non per il suo aspetto o per le sue qualità…

Oddio, certo, uno comincia ad amare per queste ragioni ma, una volta che il sodalizio s’è stabilito, queste cose sembrano passare in secondo piano. Ti ricordi? Una volta mi hai chiesto se il mio gatto fosse bello ed io ti ho risposto “Bello? È meglio che bello: è il mio gatto”. Tu sei bella ed elegante e marchesa e laureata e chissà che altro ancora. Ma chi ti amasse perché sei bella ed elegante e il resto dovrebbe poi lasciarti, se un incidente ti sfigurasse, se fossi povera e dovessi vestirti di stracci. Per me invece tu rimarresti la stessa Alessandra di prima o quasi. Solo dovrei imparare ad amare le tue cicatrici e i tuoi stracci. Non saresti forse una donna desiderabile ma saresti la mia donna.

– Se questa fosse una dichiarazione d’amore, ne sarei commossa, disse seria Alessandra.

– Lo è quasi, nel senso che questa dichiarazione d’amore la merita chiunque sia in grado di comprenderla. E poi… Poi le dichiarazioni d’amore mi sembrano inutili. Se un sentimento così grande non si vede, e bisogna metterlo in parole, è come essere obbligati a spiegare a qualcuno che quell’acqua non è una pozzanghera: si chiama mare.

– Questo vale per un amore grande come il mare, sorrise Alessandra. E ne sei capace, tu?

– Chi può dirlo? Chi può saperlo prima? E poi io ho un limite, in questo campo. Che è conseguenza di ciò che ti dicevo prima.

– Il fatto che non tutti hanno la capacità di divenire il tuo gatto? scherzò lei. Ma lui scosse la testa:

– No. Il fatto che, avendo imparato da piccolo a star su da solo, senza che mia madre mi baciasse, ho anche imparato a fare a meno di tutti. E dunque chi mi ama può sempre percepire che non ho chiuso la porta, dietro di me. Sono solo semi-domestico. E il fatto che a suo tempo Angela mi abbia piantato mi ha spinto ancora di più verso questa riserva di solitudine ed autonomia. Mi sento ambivalente: sono traboccante d’amore, perfino per il mio gatto, ma rimanendo pronto a buttarlo in un cassonetto se muore, e a cercare di dimenticarlo.

– Per fortuna – rise lei – io ho la tomba di famiglia.

– E una sorta d’altare nel mio cuore. Sei la cosa più bella che mi sia capitata da anni a questa parte.

Lei lo guardò smarrita, chiedendosi da prima se scherzasse. Poi s’accorse che era talmente serio che si chiese se stesse per piangere, e sentì i suoi propri occhi inumidirsi. Fu allora che, come per nasconderlo, tuffò il suo viso nel cavo della sua spalla e lui la tenne stretta come per proteggerla dalla tempesta di sentimenti che aveva invaso ambedue.

 

XII

 

Sapevo che Alessandra doveva andare a Varese e che sarebbe stata via una settimana. Non sapevo che mi sarebbe mancata. Ho avuto un bel dirmi che non fa per me, che non sono l’uomo adatto a lei, che non devo legarmi a lei, che quando le fosse passata questa simpatia sarebbe tornata ad essere la giovane marchesa che era prima. È una presenza dentro di me. E per settimane non sono riuscito ad impedirmi d’essere felice quando sapevo che l’avrei rivista, non sono riuscito a non desiderare il momento in cui l’avrei avuta di nuovo fra le mie braccia, una sorta di miracolo di piacere e di tenerezza. E forse tutto questo è finito. Sembra appartenere ad un passato lontano. Non solo nel senso che non l’ho vista e non ho sentito la sua voce da giorni, ma nel senso che al suo ritorno potrei non esserci più io.

Perché presto potrei morire: ecco la verità.

Sembra un’esagerazione, detta così. Ma non è un’esagerazione il fatto che dobbiamo morire: anzi è una tale certezza che l’annuncio non ci deve affatto sorprendere. L’annuncio può essere un mal di testa che improvvisamente si manifesta come ictus cerebrale, un male al braccio che presto si chiama infarto o un porro nero che si chiama cancro, e metastasi, e morte. In modo che uno passa dal registro dei vivi a quello dei condannati. E non si può neanche pretendere che il mondo cambi, che qualcuno ci faccia seriamente caso. Perché se noi moriamo per noi finisce tutto, ma per il resto del mondo, la cui ora non è ancora venuta, la nostra morte è indifferente e scontata come il cambio delle stagioni.

Non posso impedirmi, in questa sala d’aspetto, di sentire la tristezza d’una vita che finisce. Della mia vita, che finisce. Perché Marcello può tornare allegro e dirmi che non devo preoccuparmi, che è solo un po’ di grasso sotto la pelle, anche se lui lo chiamerà con qualche nome incomprensibile, oppure può tornare dicendo che non è convinto, che dovrà forse rifare le lastre una terza volta, che non devo preoccuparmi ma. Ma. Ma io mi preoccuperò più di quanto non lascerò a vedere. Nel senso che sentirò la puzza di cadavere del mio stesso corpo. E dirò addio al sole, alla notte, ad Alessandra, alle salsicce, agli occhi del mio gatto, al piacere di rannicchiarmi prima di dormire con la promessa che questa gioia di vivere ricomincerà fra qualche ora. Certo, che non mi preoccuperò: perché chi si preoccupa pensa al futuro, io invece non l’avrei più, un futuro. Tutto questo secondo quello che mi dirà quel Marcello, radiologo ma anche vecchio amico che non vedevo da tempo, che sta di là e sembra non tornare più.

Ho fatto bene a non dire niente, ad Alessandra. Se sono condannato a morte non potrò certo nasconderglielo, ma se tutto dovesse andar bene – visto che, accidenti! potrebbe anche andar bene – perché intristirla, perché farla preoccupare, lei sì preoccupare?

Marcello è andato via ad esaminare le lastre della seconda radiografia e non torna più. Mi chiedo se non sia anche andato a consultarsi con qualche collega, prima di comunicarmi la brutta notizia. Guardo l’enorme macchina che troneggia in mezzo alla stanza in cui m’ha lasciato, cerco di distrarmi, leggo con assurda vanità le scritte in inglese e tedesco, cerco di capire a che cosa servano i vari comandi e, in totale, mi sento uno sciocco. Sto qui a ciondolare, cercando di pensare a cose senza importanza, mentre, di fatto, qualcuno può entrare, da un momento all’altro, e dirmi che la ricreazione è finita. Che l’annuncio che aspetto da quando mi sono reso conto d’essere mortale è finalmente arrivato. Chissà, forse quest’attesa è l’ultimo momento in cui la data della fine rimane ancora nel vago.

Essere angosciati non serve a nulla. Non cambierà nulla di quello che ho, qui, sotto la pelle. Se è un cancro, quali che siano le mie reazioni, morirò. Se non è un cancro, l’angoscia sarà solo servita a rendermi infelice. Mi fa rabbia costatare l’assoluta inutilità e ininfluenza dell’atteggiamento psichico che saprò darmi. Muoiono altrettanto definitivamente sia il condannato a morte codardo e querulo che quello coraggioso e pieno di dignità.

L’attesa è lunga e il mio stato d’animo, stranamente, comincia a deviare verso una sorta di strafottenza. Come se dovessero dirmi che non val la pena di riparare l’automobile e bisogna buttarla via. Mi chiedo se non sia riuscito, a forza di dirmi che devo considerare tutto passeggero, ad accettare che la vita – secondo l’immagine che m’è sempre venuta in mente – sia una giostra che ad un certo punto si ferma. Forse sono effettivamente riuscito ad aspettare con calma l’annuncio della fine. Sarebbe un grande – e purtroppo breve – trionfo intellettuale. Ma tutto questo è smentito dalla mia tristezza, da questa sorta di difficoltà che ho, di respirare a pieni polmoni.

Ho sempre sperato che l’annuncio della mia morte mi sia dato quando avrò vissuto talmente a lungo da non avere ragionevolmente diritto di sperare in una sospensione condizionale della pena. Ma arriverà mai, questo momento? Un latino ha detto che nessun uomo è tanto vecchio da non sperare di vivere ancora cinque anni. Io stesso, poi, mi diverto come un ragazzo, dormo come tutte le persone sane, digerisco le pietre e non mi annoio mai. E dopo tutto questo, dovrei essere pronto a morire?

Ma perché Marcello non torna?

Stranamente, quando penso alla morte, mi vengono in mente non solo il sole, e Alessandra, e il rumore del mare, ma anche le piccole cose che dovrò abbandonare. Il gancetto di fil di ferro con cui ho risolto il problema della porta, il trabiccolo su ruote che sostiene il mio computer, gli pneumatici nuovi che ho montato sull’automobile, l’immensa riserva di tè che ho comprato al supermercato. La morte è l’interruzione di una continuità, la fine delle care abitudini e dei progetti per il futuro. Che progetti fare quando non si hanno, come futuro, che un paio di mesi? Non riuscirò a bere tutto quel tè. Come diceva il dottore nella barzelletta: “Non dico che la sua malattia sia gravissima. Comunque, se deve fare un abbonamento ad un giornale, lo faccia semestrale”.

Provo a sorridere e tuttavia potrei presto morire come sono morti alcuni cari amici. Sorelle e fratelli che hanno saputo con anticipo che stavano per morire, che erano condannati senza speranza. Persone care. Presenze perdute. Affetti inariditi come rami spezzati e secchi. Pensieri che tornano indietro come lettere ad un destinatario trasferitosi senza lasciare indirizzo. E se penso a me stesso morto, i miei pensieri mi rimbalzano indietro. Anch’io partirò senza lasciare indirizzo. Il mio enorme rimpianto di lasciare Alessandra non le sarà di nessun conforto. Non ci saranno più le mie braccia per darle calore, non potrà più addormentarsi nel cavo della mia spalla, come ha fatto l’ultima volta, non potrò più dirle con mille scherzi riduttivi che l’amo evitando il verbo amare.

Marcello è andato via da un’eternità e l’aridità del mio stato d’animo dipende forse dal fatto che ho gli occhi secchi, a forza di piangere sulla fine della vita.

Finalmente s’apre la porta:

-Bene, ora possiamo essere ragionevolmente sicuri, mi annuncia. Non è niente di preoccupante. Dovrebbe scomparire fra qualche settimana. Magari dovresti rifare altre lastre fra sei mesi…

Per stavolta niente pena di morte. La Corte Marziale mi assolve. Sono reintegrato nel grado di vivo. Vorrei sentirmi felice e non ci riesco. Sono perfino stanco di morire.

 

XIII

 

Mentre guidava verso casa era, più che turbato, mentalmente indaffarato. Come gli capitava quando sapeva di dover fare chiarezza su qualcosa e sapeva pure che questa chiarezza avrebbe implicato faticose riflessioni. Chiamava questo lavoro mentale “mettere il cervello in prima”: perché, esattamente come un’automobile in una rampa, andava avanti molto lentamente e con insolita fatica: sicché aveva tendenza a rinviare e si sorprendeva a cercare d’interessarsi a cose senza importanza. A quante foglie erano rimaste sugli alberi o al perché la signora che lo precedeva ogni tanto frenava leggermente, facendo accendere le due luci rosse, in piena pianura e senza che ce ne fosse la minima ragione.

Questo Günther arrivato improvvisamente dalla Germania e che sbucava in accappatoio dalla camera da letto di un’Alessandra vagamente imbarazzata era veramente una sorpresa. Non solo: se gli capitava, il tedesco teneva Alessandra per la vita come se gli appartenesse, come se il suo corpo gli fosse tanto familiare da poterlo toccare senza desiderio. La stessa Alessandra si era ripresa subito, tuttavia: non che nascondere l’intimità che la legava a quell’uomo, sembrava nascondere quella che la legava a lui, Stefano, che stava lì quasi come un intruso. Pareva che eventuali spiegazioni fossero dovute all’altro, non a lui.

Günther era di una tale semplicità e cordialità che Stefano non poté che sentire simpatia, per lui. Parlava un italiano fluente, anche se con qualche errore di genere piuttosto divertente, ogni tanto, e all’occasione citava barzellette strepitose. Uomo di pubbliche relazioni. Al punto che Stefano parlò piuttosto con lui che con Alessandra e lei ne approfittò per andare a collaborare con Marietta a fare il secondo caffè del mattino. Seppe così che Günther era rappresentante di una ditta elettronica che aveva rapporti commerciali con la più grande industria elettronica locale, sicché veniva periodicamente e, secondo le sue parole, “si sentiva mezzo italiano”. “Nel senso?” “Nel senso che prima vivo e poi lavoro. Questo mattina avrei dovuto essere al lavoro e sono qui. I tedeschi sono fessi”. E rideva felice. Era ovviamente reduce da una serata d’amore, da un buon sonno e da una ricca colazione.

Stefano era andato via non appena aveva potuto farlo con decenza. E ora doveva elaborare la situazione. Elaborare il lutto, ironizzò.

Dunque Alessandra aveva un ex-marito, Nando. Poi aveva lui. Poi aveva questo Günther che veniva ad usare la sua casa come un albergo e il suo corpo come fringe benefit. Era chiaro che lei lo conosceva da tempo. Era chiaro che quel rapporto era a bassa intensità, visto che lei non gliene aveva mai parlato, neppure come un problema. Oppure era innamorata e non ne parlava perché era un rapporto senza speranza, che cercava di dimenticare? Un uomo che cercava di dimenticare ma cui era pronta ad aprire la casa e le cosce?

Ecco, era passato alla volgarità. Il fatto era che doveva cercare di capirla, questa Alessandra, e quando fatica il cervello può perdere colpi, in materia di stile. Doveva cercare di capirla, Alessandra: e non poteva farlo seriamente se non parlandole, se non ascoltando la sua versione. Giusto.

Giusto. Ma la sua propria versione qual era? Era geloso, era deluso, era addolorato? In fondo non aveva nulla da pretendere. Con Alessandra c’era stato solo dialogo e qualche momento di tenerezza. Se erano finiti a letto, era stato senza parlare d’amore, senza promettersi nulla, senza nulla chiedere del passato o del futuro. E se lei era stata disinvolta con lui, perché non avrebbe avuto il diritto di esserlo con un altro uomo? Che magari conosceva da prima e con cui andava a letto, occasionalmente, perché questo non l’impegnava a nulla ed era magari un’occasione di sesso in periodi di magra.

Tuttavia. Tuttavia c’era un fondo di dolore, in tutto quello che viveva. Il timore che lei stesse utilizzandolo in attesa di meglio, per passare il tempo, o per curiosità, visto che sembrava sempre ascoltarlo con interesse. S’era concesso il nobile, s’era concesso lo straniero uomo di mondo, ora si concedeva anche il poveraccio laureato in filosofia. Cioè il lusso di sedere accanto a Diogene e vederlo vivere.

E se invece si fosse trovata in una situazione che non aveva previsto e non aveva saputo evitare? Se era andata a letto con Günther perché ormai era lì e non voleva fare tutta una storia, di cui magari egli avrebbe riso, visti i loro precedenti rapporti puramente sessuali?

Chi lo diceva, che erano puramente sessuali? Non aveva fatto lui stesso l’ipotesi dell’amore non corrisposto, tanto che lei si accontentava di qualunque briciola riuscisse a raccogliere?

E se al contrario lei fosse stata un’erinni del sesso, senza che lui se ne fosse accorto, che magari fino a quel momento l’aveva compatito e che magari l’avrebbe invitato a fare l’amore in tre, con Günther? Che avrebbe risposto, in questo caso? Un cervello non può funzionare in prima per troppo tempo e infatti poco mancò che non tamponasse quel furgone che s’era fermato di botto e senza ragione. O, almeno, senza ragione, finché non vide sbucare quell’imbecille d’un cane che aveva fatto di tutto per farsi investire.

Avrebbe accettato di fare l’amore in tre? Forse sì, per curiosità. O forse no: meglio un uomo con due donne che due uomini con una donna, perché finisce come dal barbiere, che bisogna aspettare il proprio turno, provò a sorridere. Ma sorrideva amaro.

Era rimasto un adolescente romantico. Aveva vagamente sognato di ripercorrere, con Alessandra, la via dell’innamoramento e della conquista della vera intimità, se pure anticipando – in obbedienza ai tempi – l’intimità sessuale. Ma, in fondo, anche questa anticipazione era stata pudica, delicata, guardinga. Perché non avrebbe voluto urtarla, non avrebbe voluto andare oltre ciò che poteva esserle gradito, c’è modo di fare l’amore dandosi ancora del lei. E invece lei, magari, aveva pensato che faceva l’amore come un pastore protestante. E con Günther, che tipo di sesso aveva?

E va bene, concluse, sono geloso.

Qualcuno ha detto che la gelosia è il sentimento d’inquietudine di chi teme che la persona amata ami qualcun altro, mentre non si tratta più di gelosia quando non si teme più ma si sa, con certezza, che la persona amata sta con un altro o un’altra. In questo secondo caso non è gelosia: è dolore; con la necessità di decidere che conseguenza trarre dal fatto.

Ma, per prima cosa, appunto, bisognava conoscere il fatto. Sapere esattamente come stavano le cose. Günther aveva detto che non era andato al lavoro perché, tanto, poteva andarci di pomeriggio, ed anche l’indomani mattina, visto che ripartiva nel pomeriggio per Monaco. Dunque presto Günther sarebbe andato via e lui avrebbe parlato con Alessandra. Avrebbe saputo da lei tutto, o almeno la sua versione. Sempre che lei ne prendesse l’iniziativa. Infatti non le avrebbe chiesto nulla, decise. Per orgoglio. O parlava lei, o lui si comportava come qualcuno per cui una cosa del genere era normale, o comunque come qualcuno al quale la cosa non importava per nulla. Uno che si limitava a vederla e a fare l’amore con lei quando aveva voglia di vederla e quando aveva voglia di fare l’amore con lei.

Un momento: e se lei avesse pensato che lui era tanto sciocco da non avere capito che lei era stata con Günther? Poteva tollerare che lo prendesse per il re degli ingenui? No, certo. Ma in questo caso c’era tempo per dirglielo in seguito, che aveva capito tutto. E lei che cosa avrebbe pensato? Magari che lui la considerava una che “ovviamente” va a letto con tutti gli uomini che incontra, tanto che la cosa non meritava commenti. Magari si sarebbe offesa?

Una volta Gerry, con la sua aria da tonto, aveva detto una verità immortale: “Ogni volta che ho fatto delle ipotesi sul perché del comportamento del prossimo, ho scoperto poi d’avere sbagliato. Devo essere proprio un cretino”. Non era un cretino Gerry, siamo cretini tutti, pensò. E la vita ha più fantasia di quanta ne abbiamo noi.

Parcheggiò l’auto al solito posto e si avviò con passo stanco alla sua casa. Alla sua vita di sempre ma come se una luce si fosse spenta. Tanto che fu felice di trovare, nella cassetta delle lettere, l’estratto conto della banca. Si sarebbe messo a leggerlo e a controllarlo. Un po’ perché lo faceva sempre, da uomo prudente, un po’ perché in quel momento, pur di distrarsi, avrebbe riletto tutto sull’eresia monofisita.

E quando Grif si accoccolò sul tavolo, accanto ai fogli della banca che lui studiava fin troppo accuratamente, Stefano si disse che al mondo c’era ancora qualcuno a cui importava di lui. E gli fece una carezza.

 

XIV

 

Mentre continuava a parlare cordialmente con Arturo non poteva smettere di odiarsi. Non che avesse commesso un crimine, certo: ma ai suoi occhi era un crimine l’essersi reso vagamente ridicolo. Patetico come chi racconta una barzelletta che non fa ridere nessuno.

Aveva risposto “Aspettavo proprio te”, talmente era convinto che sarebbe stata Alessandra, visto che era il suo normale orario, visto che non la sentiva da due giorni, ma ora un imprevedibile Arturo non la smetteva di prenderlo in giro. “Chi aspettavi?”, “Aspettavi proprio me? Ora hai anche le premonizioni?”, “Sei diventato omosessuale”? “Se vuoi possiamo fare l’amore in tre, sono bravo, sai?”

Era un fiume in piena, in linea con la sua vecchia abitudine di fingere di provocare e d’insultare gli amici. Cosa che faceva anzi tanto più a lungo e tanto più insistentemente quanto più stimava o amava la persona: per questo le migliori vittime erano proprio lui, quel bonaccione di Gerry e Giovanni, il suo amico del cuore. Bisognava lasciarlo sfogare. Di solito Stefano lo faceva senza difficoltà, anche se si vedeva accusare d’essere tirchio, d’essere un barbone, d’essere un uomo che nessuna donna voleva, d’essere uno che viveva in quella casetta perché la botte era già occupata da Diogene, e via di questo passo. A cominciare dal nome, che infatti diveniva Lo Stefanaccio Malefico. Ma quel giorno Arturo sembrava particolarmente allegro. Cosa strana, lui che di solito, da quell’autorità nazionale nel campo del diritto penale che era, lavorava per tre e non aveva un istante fra viaggi, lezioni e conferenze un po’ dappertutto, oggi sembrava non avesse premura. Tanto che Stefano si sentì in dovere di farglielo notare:

– Che ti succede, come mai non scappi? Ti hanno buttato fuori dalla magistratura?

– Buttato fuori sì, ma non dalla magistratura. Per questo sono tanto contento. Se hai tempo vengo e te la racconto. Ma già, tu aspettavi una donna! Scusami. Se mi metto un paio di tette finte mi apri lo stesso?

Arrivò una ventina di minuti dopo e fu un’apparizione impressionante. Alto e leggermente ingrassato com’era, con il grande casco da motociclista in testa, gli occhialoni neri e in più un giubbotto pesante che lo rendeva ancora più massiccio, appariva minaccioso nonostante il suo sorriso cordiale. “Madonna!” esclamò Stefano a mo’ di saluto, ma l’altro entrò a passo di carica e si limitò a chiedere, con aria scettica:

– Almeno il caffè lo sai fare?

– Solo se qualcuno mi tiene compagnia in cucina.

Arturo lo seguì buttando sul letto, sul tavolo, dovunque capitasse, ciò che non gli serviva in quel momento. A partire dal casco che, posato sul tavolo, sembrava ancora più incongruo ed enorme.

– Vai in motocicletta, di nuovo?

– Sono tornato giovane. E Grif dov’è? T’ha piantato anche lui?

– Probabilmente è spaventato da te. Anch’io lo sono, in fondo. E come mai sei tornato giovane, ti hanno rivelato l’esistenza del Viagra?

– Di quello hai bisogno tu, non io. Anzi, tu non ne hai neppure bisogno, non avendo l’occasione di usarlo.

Infine, quando furono seduti tranquilli con un buon caffè fumante in mano, Grif si rifece vivo. Sedette accanto alla porta, per potere nel caso scappare in giardino, e alla fine sembrò guardarli con approvazione.

Arturo smise finalmente di scherzare.

– Sono contento, sono giovane ma sono solo. Forse, come hai detto tu anni fa, dovrei dire “finalmente solo”.

– Ha a che vedere col fatto che non t’hanno buttato fuori dalla magistratura?

– Appunto. Dorotea non m’ha buttato fuori di casa, certo, ma confesso che, non appena s’è dimostrata disponibile a questa soluzione, l’ho colta al volo. Come minacciano le mogli nelle commedie americane, sorrise, sono tornato da mia madre. Da due giorni. Insomma ci siamo separati.

Stefano aveva sentito più volte parlare delle difficoltà matrimoniali d’Arturo ma non ne aveva mai parlato con lui e dunque stette zitto. Per non essere indiscreto e per dargli la possibilità di confidarsi senza essere interrotto.

La storia in buona parte gli era nota. Dorotea era bella e da ragazza bellissima. Arturo se n’era innamorato quando ancora frequentavano il liceo. Ed era riuscito a conquistarla con molta fatica. Lei, benché tutti lo considerassero un fenomeno, l’aveva accolto, allora e sempre, con sufficienza. E prima ancora d’arrivare alla laurea e di pensare al matrimonio avevano rotto un bel po’ di volte. Liti clamorose e rappacificazioni inevitabili. Giovanni, pragmatico e positivo, aveva consigliato molte volte ad Arturo di lasciarla perdere segnalandogli che, se litigavano già da fidanzati, la vita matrimoniale sarebbe stata un inferno. Ma, come dice un proverbio siciliano, la brocca sbrecciata non si rompe mai. Il rapporto, pure traballando e rischiando continuamente di finire fuori strada, era andato avanti per anni ed anni.

Ora Dorotea ed Arturo avevano due figlie, Sofia e Susanna, di sedici e quattordici anni, ed avevano l’aria di stare insieme da sempre ma senza felicità. Anzi, alle incomprensioni e agli attriti fra loro,  s’erano aggiunti quelli con le figlie. Conniventi in tutto, viziate e superficiali come sanno essere le ragazze ricche della loro età. Susanna e Sofia, Sofia e Susanna. “Le SS”, le chiamava Arturo.

– Credo d’essere vittima della nostra civiltà, concludeva in quel momento Arturo, mentre cercava di convincere Grif a farsi prendere. Civiltà che a me sembra un incubo. Forse Dorotea e le mie figlie non s’accorgono d’avere nei miei confronti un costante atteggiamento di creditrici. Tutto è loro dovuto. E va bene, vattene in giardino, stronzo d’un gatto! Dorotea mi rimprovera di non amarla, anzi di non essere innamorato di lei, ma non prende neppure in considerazione il fatto che lei non ama me. Poi io guadagno un mare di soldi, anche con le lezioni organizzate dall’università e le consulenze col ministero, ma nessuno mi dice mai grazie. Dorotea era figlia d’un ingegnere miliardario ed è rimasta convinta che i soldi cadano dal cielo. Le ragazze non ne parliamo. Una volta uno toccava il cielo col dito se gli regalavano una bicicletta, queste mi chiedono come la cosa più ovvia di pagargli un viaggio in aereo per Londra perché c’è una manifestazione per la pace. Oltre tutto non vedono da tempo le amiche che hanno conosciuto lì quando le ho mandate al corso d’inglese, capirai. Londra è dietro l’angolo. E poi che dico, io le ho mandate a Londra? No! Mi è stato ordinato, da loro e da Dorotea, di mandarle. Di pagare tutto il necessario e di smetterla di lamentarmi parlando del vile denaro…

Arturo non sembrava neppure avercela con loro. Descriveva un fenomeno sociale: non solo il capo famiglia non aveva più il diritto di comandare, aveva perso anche il diritto di chiedere alle figlie dove stessero andando, se le vedeva uscire; aveva perso il diritto di chiedere a che ora sarebbero tornate. Aveva solo conservato il diritto – come concludeva amaramente Arturo – “d’essere accusato senza prove e condannato senza possibilità di gravame”. Sicché, come si esprimeva lui, “aveva deciso che, essendo inutile o non permessa la difesa, tanto valeva fosse condannato in contumacia”. Ed era stato felice d’andarsene. Dorotea rimaneva con le SS, lui tornava nella sua stanza di ragazzo e, ormai da quarantotto ore, nessuno gli rimproverava nulla. Gli pareva quasi inverosimile.

– Inverosimile ma comodo.  Vedi, il mio progetto ora è di procurarmi una topaia come la tua e vivere come te. Dopo averti sfottuto per anni, sono venuto a prendere lezioni.

E sorrideva beato. Ma Stefano era preoccupato per lui.

– Il peggio in questi casi sono i parenti, gli amici, i conoscenti. Tutti lì a chiederti perché è successo e se non c’è modo di metterci rimedio. E come la stanno vivendo le tue donne. E il resto. Come se già tu non ci pensassi abbastanza. Per questo io invece ti chiedo: ma tu, stai bene? Sei sicuro d’avere fatto la cosa giusta?

– Penso di sì. Arturo lo guardava fisso, come se attendesse qualcosa: ma la verità era che stava pensando intensamente e guardava Stefano come avrebbe potuto guardare la sua tazza di caffè vuota.

– Penso di sì, proseguì poi, ma ovviamente la verità me la dirà il tempo. Io non sono mai vissuto da solo, sono passato da casa dei miei alla vita con Dorotea e non mi sono mai occupato di prepararmi da mangiare, di occuparmi del bucato… Tu come fai?

– Semplice questione d’abitudine e d’organizzazione. Innanzi tutto, se ti poni questo problema, non ti stai ponendo il problema del vivere senza Dorotea. E questo qualcosa significa. Poi, per quanto riguarda la vita pratica, hai difficoltà?

– Non per mangiare. Sono così spesso fuori casa che in totale basta che mi comporti qui come mi comporto altrove. Comunque hai ragione, questo è il meno. Il fatto è che, malgrado tutto, se in macchina guardo il sedile alla mia destra e lo vedo vuoto, mi sento vedovo. Manca qualcosa che c’è sempre stato, forse una parte di me. Dorotea sarà anche una peste, ma… mi capisci, è ovvio. Come Grif per te. Nevvero, che tu e il tuo padrone fate coppia da anni? Da te si fa prendere la bestiaccia, nevvero?

Il micio scoprì per l’occasione che doveva urgentemente leccarsi una zampa.

– Non so, concludeva Arturo. Ho la sensazione che, professione a parte, è come se io, per partecipare al gioco della vita, avessi disposto sin da principio di due gettoni diversi. Uno è quello che ho giocato fino ad ora, il secondo è il tuo, da quando ti sei separato da Angela. Anche se non te l’ho mai detto ho sempre considerato il tuo modo di vita assolutamente paradigmatico. Un uomo può vivere a modo proprio solo se vive da solo. Ed io ne ho sempre avuto tanta voglia.

– Non ti rimane che aspettare la conferma del tempo. Comunque sono contento di vederti sereno e motociclista.

– Come ai vecchi tempi, rispose Arturo, e il suo viso si aprì di nuovo ad un largo sorriso.

 

XV

 

Il problema doveva essere meccanico, visto che tutto funzionava, incluso il motore di trascinamento della bobina di sinistra: per questo decise che poteva tentare di metterci le mani. Mezz’ora dopo riuscì a smontare – con mille esitazioni ed immensa fatica – il “cabinet”, come lo chiamano, insomma la scatola di plastica in cui è contenuto il meccanismo. Ma ancora minuti dopo essere riuscito imprecava fra i denti contro i fabbricanti che s’ingegnano a creare sempre nuovi sistemi di chiusura in modo che non si veda mai una vite, una tacca, qualcosa che spieghi come aprire il dannato contenitore. Lì, per una volta, s’era trattato di premere da un lato e deformare dall’altro, col rischio di sentire crac e avere rotto tutto. Ma cominciava male. Finalmente, contemplando il registratore a nastro lì sul tavolo, con tutte le budella in bella vista, s’accinse a studiare più da vicino il problema. Dunque, diceva a se stesso, a bassa voce, questo motorino deve trasmettere il moto con questo elastico ormai ammosciato, il quale però passa qua dentro e come cavolo si tira fuori? Bisogna tagliarlo? Certo che no, visto che è intero. Allora…

Il telefono. Non era in quel momento che avrebbe desiderato essere interrotto. Il telefono però è un meccanismo che, se uno non risponde, non smette di suonare. E poi aspettava, ormai da un paio di giorni almeno, una telefonata di Alessandra.

– Pronto, eccomi qua, disse infine.

– Ti ho colto in piena eiaculazione? Hai l’aria affannata. Era Giovanni, col suo eterno modo sessuale di scherzare.

– Sì, mi stavo masturbando con un registratore. Come va?

– Come al solito, corro di qua e di là. Ci vieni a Messina?

– Volentieri, ma non è che mi lasci ad aspettarti per oltre due ore?

– Stavolta è un volo. Un quarto d’ora. Allora?

Giovanni, il più tranquillo ma forse anche il più affettuoso dei suoi vecchi amici, era quello che – inaspettatamente – aveva fatto più carriera. Laureatosi in chimica aveva preso in mano la fabbrichetta paterna e a tappe forzate l’aveva prima ingrandita, poi l’aveva trasferita nella zona industriale, poi era passato ai concimi chimici, divenendo un’industria di ambito nazionale ed infine aveva cominciato a creare stabilimenti in altre città. Il primo a Messina. Avevano la stessa età ma Giovanni era già plurimilionario e lavorava come un vero manager (o bisognerebbe dire executive?). Comunque, “poco più di ventiquattr’ore al giorno”, come diceva lui. Sicché si vedevano da soli in questo modo, quando lui doveva andare a Messina o altrove. Ma erano bei momenti. Perché fra loro era come se non fosse cambiato niente, dal tempo in cui erano ragazzi. Giovanni gli confidava cose che non avrebbe confidato a nessuno, neanche ad Arturo, cui era tanto legato che i vecchi compagni parlavano ancora della “mafia del terzo banco”, cioè il banco in cui a scuola erano seduti l’uno accanto all’altro.

Stefano abbandonò tutto com’era, senza pensarci due volte: si limitò a staccare il saldatore,  accesso per ogni evenienza, visto che ci metteva tempo a riscaldare come si deve. Poi pensò di vestirsi in maniera un po’ meno indecente ma il telefono suonò di nuovo. “Ha avuto il solito contrattempo”, pensò, tanto che aprendo il telefono stava per dire “E ora che t’è successo?” ma ricordò che recentemente si era ben pentito di una bravata del genere. Per questo chiese con aria neutra: “Pronto?”

Ci fu una pausa e infine Alessandra chiese, allegra:

– È morto qualcuno?

– Chi doveva morire?

– E che ne so. Hai un’aria da funerale.

– Ma per niente, per niente, rispose, e cercò in ogni modo di atteggiare la sua voce alla stessa allegria.

Lei era in città, s’era sbrigata prima del previsto, poteva venire da lui? Magari rinviando l’autista, se poi lui era disposto a riaccompagnarla a casa. Quando troppo poco e quando troppo, pensava lui. Quel pomeriggio che si era avviato ad essere solitario, operoso e “tecnologico”, ecco cambiava completamente. Per giunta, con due diverse possibilità. Non voleva piantare Giovanni però, una volta che gli aveva dato il suo accordo. E non voleva perdere l’occasione d’incontrare Alessandra, visto che non si erano visti dall’ultima volta a casa di lei. Non sapeva come fare finché, quando lei già cominciava a spazientirsi (“Insomma, se non mi vuoi vedere non hai che da dirlo”), trovò la soluzione. Col cellulare avvertì Giovanni dei cambiamenti e tirò un sospiro di sollievo.

Mezz’ora dopo era seduto in macchina, nel piazzale della “Quercia Rossa” e solo cinque minuti dopo vide arrivare contemporaneamente la Mercedes di Alessandra e la grande Jaguar di Giovanni. Ambedue avrebbero avuto il diritto di vergognarsi della sua utilitaria anche se ora, in onore d’Alessandra, la teneva pulita.

Presentazioni veloci e via verso Messina, Alessandra accanto a Giovanni, lui dietro, contento di vederli dialogare. Anche se proprio in quel momento non capiva esattamente tutto quello che dicevano, perché Alessandra, sfoggiando un’imprevista competenza in chimica, sembrava molto interessata ai particolari tecnici che Giovanni le andava fornendo sui prodotti della sua impresa.

Quando finalmente fecero una pausa, Giovanni riprese con i suoi eterni scherzi, miranti a mostrare che lui, Stefano, era un incrocio tra una calamità e una curiosità da circo.

– Vedo che lei è competente in materie importanti. Come mai frequenta un essere inutile come Stefano?

– Una forma di perversione.

– Eh sì, dev’essere questo, rise Giovanni. E pensare che ha infettato anche me.

E tornarono a scambiare particolari sulle loro rispettive attività, sicché Stefano, stando dietro e tacendo, apprendeva cose, riguardo ad Alessandra, di cui ignorava l’esistenza. Che aveva lavorato per anni come biologa in un laboratorio d’analisi, per esempio, lo sapeva, ma che prima era stata nell’ufficio acquisti di un’impresa chimica che produceva colliri, no. Col laboratorio d’analisi aveva smesso perché era fallito e a momenti si trovava nei guai anche lei, perché il curatore non voleva credere che la dottoressa Bassi fosse solo un’impiegata, là dentro. Erano stati brutti momenti, perché lei era solvibile e con l’ipotesi della società di fatto rischiava di perdere tutto quello che possedeva. Ora era disoccupata.

– Problemi? chiese asciutto Giovanni. Per una biologa esperiente come lei non ce ne dovrebbero essere.

Stefano intanto pensava che in fondo il suo amico aveva ragione: perché non porre domande? Lui non aveva mai osato, considerando la curiosità riguardo alla vita altrui come una mancanza di delicatezza. Ma questo suo scrupolo vittoriano era eccessivo. E qualcuno poteva anche pensare che fosse soltanto disinteresse.

– Sì e no, rispondeva intanto distesamente Alessandra. Forse rimango disoccupata perché questo periodo di lunghe vacanze mi sta piacendo parecchio. In fondo sono le mie prime, vere, grandi vacanze. Io sono passata dall’università al lavoro senza soluzione di continuità. M’è sembrato naturale darmi da fare ma ora, a oltre trent’anni e senza avere una reale necessità di guadagnare, mi chiedo perché dovrei affrettarmi. Non è d’accordo? Aspetto una buona offerta.

– Si mantenga sul mercato, comunque. Giovanni era un workaholic, uno che non riesce a concepire una vita senza attività produttiva. Tanto che a volte chiamava parassita lui, perché lavorava solo mezza giornata.

– Certamente, lo confortò Alessandra. E  non è che aspetti che vengano a cercarmi a casa, non sono Cincinnato. Ma vorrei lavorare in un posto comodo, e a buone condizioni.

Stefano continuava ad ascoltarli e s’accorgeva di voler bene a tutti e due. Anzi, di ammirarli. È inconsueto che due persone che non si sono mai viste prima riescano a conversare così semplicemente, così naturalmente. Questo è possibile solo se ambedue non hanno nulla da nascondere, nulla da dimostrare ad ogni costo, niente da ottenere e niente da perdere. E soprattutto se non tendono a dare di sé un’immagine migliore di quella reale. Sembra la cosa più ovvia del mondo ed invece tanta gente è talmente preoccupata di sé da falsificarsi interamente.

Quando si produsse una pausa, Giovanni riprese il suo divertimento preferito, sfottendolo.

– Allora, lei è amica di questo qui dietro? Ma li conosce, i rischi che corre?

– No, mi dica mi dica.

– È un uomo pericoloso. Innanzi tutto perché pare innocuo. Ha sempre l’aria di dire “chi, io?” E invece…

– Invece è un pedofilo, rise lei.

– Non ancora, sta studiando da pedofilo. Ma fino ad ora si limita ad essere domineddio.

– Ah.

– Domineddio nel senso che mentre io, che so, lavoro come una bestia e guadagno molto, mentre gli altri amici hanno tutti più o meno fatto carriera, lui – mi dica se non è pericoloso, un uomo così – si è laureato in filosofia.

– Dio è laureato in filosofia? chiese Alessandra, che aveva l’aria di divertirsi un mondo.

– Dio non so, lui sì. Si laurea in filosofia, insegna in un asilo infantile, guadagna a stento di che nutrire il suo gatto e qual è il risultato finale? Che io, lei, gli amici, tutti siamo per lui marmaglia. Lo devo cercare io, se no non ci sentiamo più. Le donne gli si devono buttare fra le braccia, se no lui ne fa a meno. Si veste come un barbone ma s’aspetta d’essere invitato nelle feste più eleganti. E sa perché desidera essere invitato? Per avere l’occasione di rispondere no.”Mi annoiate, voi e la vostra buona società”.

– Insomma è un presuntuoso, azzardò lei.

– Magari! Magari! Un presuntuoso è uno che presume d’essere ciò che non è. Lui invece presume d’essere ciò che è. E questo è senza rimedio. La filosofia l’ha rovinato. È distaccato da tutto, superiore a tutto, lontano da tutto. Un disastro.

– E con le donne che gli si buttano fra le braccia? chiese Alessandra, maliziosamente.

– Le donne?

Giovanni era evidentemente combattuto tra il dire tutta la verità, sparare i suoi soliti scherzi e il timore d’essere indiscreto. Stefano fu generoso:

– Dille la verità, nient’altro che la verità.

– Anche lì, in quel campo, è un disastro. O, meglio, un mostro.

– Addirittura! esclamò Alessandra, scuotendo vivacemente la testa.

– Solo un mostro può interessare le donne se non le cerca, non le calcola, non le corteggia. E si presenta come si presenta lui.

– Ne ha avute molte? Alessandra cercava, attraverso gli scherzi, di conoscere il suo passato. Ma anche Giovanni era cosciente del gioco:

– La fila dietro la porta, esagerò. Casanova era un ingenuo, al confronto. Anche Angela… Gliel’ha detto che è stato sposato?

– Sì.

– Anche Angela, l’unica che non ne voleva sentire, di lui, ha dovuto cedere, quando lui s’è degnato di farle capire che la voleva per sé.

– E poi, quando s’è innamorata d’un altro, mi ha piantato, intervenne l’interessato.

– E che doveva fare, povera ragazza? s’impietosì Giovanni.

– La maltrattava, la picchiava? domandò seria Alessandra, fingendo d’essere pronta a crederci.

– Peggio. Le lasciava intera libertà. La faceva andare da sola al cinema, alle feste, ai matrimoni, alle feste dei bambini, dovunque. Lei faceva l’abbonamento ai concerti? E lui, che passa la vita ad ascoltare musica classica, passava quelle serate da solo, a casa. Insomma, lei era normale e viva, lui era quello che è.

– Ma lei non lo sapeva com’era?

– Lo sapeva, lo sapeva. L’abbiamo anche avvertita. Ma ha prevalso il fascino del mostro, il fascino dell’abisso.

– L’abisso sarei io, finse di spiegare Stefano.

– Ed anche un po’ Jack lo Squartatore, concluse lei.

Ma erano già a Messina e Giovanni li lasciò, avvertendoli che, volendo, avevano quasi mezz’ora per andare a prendere un caffè.

– Un’ora abbondante, tradusse Stefano.

 

XVI

 

Alessandra, allegra com’era stata per tutto il viaggio, lo prese a braccetto e cominciò spiegargli come mai era dovuta andare in città, quel pomeriggio. Stefano invece viveva su due livelli. Una sorta di pilota automatico ascoltava lei, dava le risposte giuste, sembrava presente lì, su quella strada ignota di Messina, in cammino verso un caffè che forse non avrebbero trovato; mentre l’altra metà continuava a non sapere che fare e girava e rigirava nella mente il problema Günther. Già gli faceva rabbia il fatto che lei sembrasse avere assolutamente dimenticato l’episodio. Che cosa pretendeva, che lui giudicasse la cosa del tutto naturale, che non ci badasse neppure? Oppure si preparava, con quell’aria innocente, a rispondere alla sua prevedibile scenata di gelosia che era pazzo a porsi domande, e magari pronta a dimostrarsi offesa per un’ipotesi che invece era una certezza, salvo per i ciechi?

Se fosse stato un po’ più spontaneo, le avrebbe posto la domanda diretta ma spontaneo non sapeva essere. E per giunta era orgoglioso. Forse non era il fenomeno di cui parlava Giovanni, ma lo stesso aveva tendenza a non abbassarsi a chiedere spiegazioni. Possibile che lei non capisse di doverle fornire?

Alessandra continuava a parlare del più e del meno e non smise neanche arrivati nel bar. Si limitò a cambiare discorso, commentando la personalità di Giovanni. Le era molto, molto simpatico “E si vede anche che ti vuole un gran bene. Fa piacere vedere amici così”.

– Giovanni è una delle persone più care che esistano. Va bene che mio fratello vive a Genova, ma anche se stesse a Catania non ci vedremmo tanto spesso e non ci vorremmo tanto bene come avviene con Giovanni.

– Compagni di scuola e amici per la vita.

– Compagni di scuola dalla Scuola Media. Lui addirittura preferiva la scienza ma venne ad iscriversi al liceo classico, con me, per farmi piacere e perché non ci separassimo.

– Io purtroppo non ho un amico di questo genere.

– Neanche Günther?

Ecco, l’aveva detto. Aveva lanciato quel nome: ora non si poteva che parlarne. Forse si era umiliato a chiedere spiegazioni, forse lei stava trionfando, ma la cosa non poteva più andare avanti. Questa Alessandra era bella, simpatica, allegra, colta, perfino affettuosa, ma doveva essere confrontata con quella di qualche mattina prima. Per sapere come conciliare il tutto. Come giudicarla. In una parola sapere chi era.

Lei a quel nome trasalì, o forse lui pensò che trasalisse: certo aveva l’aria perplessa.

– Günther? chiese infine, quasi il nome le venisse nuovo. Poi, vedendo la faccia seria di Stefano, scoppiò a ridere.

– Günther! Mi chiede di Günther!

Stefano ne fu infastidito:

– Ridi come se dalla tua stanza da letto fosse uscito un bassotto, invece di un uomo grande e grosso.

– Ma Günther, cercò di contenersi lei, Günther solo è un amico e non potrebbe essere altro!

In che senso?

– Nel senso che è un perfetto omosessuale. Io, sarei allarmata se lo vedessi uscire dalla tua stanza da letto, capisci?

– Ma…

– Non hai occhio. O forse io credo che si veda perché lo so. Günther è stato molto gentile con me, anzi con noi – perché a quel tempo stavo ancora con Nando – e ci ha ospitati a Monaco una volta in cui, per un disguido nella prenotazione in albergo… Ma che sto a raccontarti. Günther è la persona simpatica e il buon amico che hai visto. Tu invece avevi pensato…

Stefano, pure intimamente sbalordito, era lo stesso irritato:

– Senti, tu ridi e ridi, ma secondo te io che cosa avrei dovuto pensare? Mi sembra infantile questo considerare ovvio ciò che tu sai mentre io non ne so niente. E poi, perché usciva proprio dalla tua stanza da letto?

– Quasi mi offendo, rispose lei seria. Ti do quest’ultima spiegazione ma non voglio più sentire parlare di questa storia. Usciva dalla mia stanza da letto perché era andato a rimettere a posto il libro che gli avevo prestato per prendere sonno, la sera prima. È un uomo ordinato. Ma a questo punto comincia a preoccuparmi qualcos’altro. Torniamo all’automobile.

Alessandra era seria e stavolta non lo prese a braccetto. Teneva i lembi del suo cappotto stretti sul petto come qualcuno che dovesse proteggersi non dal freddo, ma dall’incomprensione.

– Dimentichiamo Günther. Il fatto è che un rapporto come quello che tu hai immaginato l’ho avuto. Forse più d’uno. Sei un moralista, tu? Sei ancora mentalmente vergine o che?

– Per niente. Ho solo trovato offensivo il modo, intendo il modo in cui mi sembrava fosse avvenuta la cosa. Se non offensivo, visto che tu hai il diritto di fare ciò che vuoi, scortese e meritevole d’una spiegazione. Puoi dire che ho sbagliato?

– Lasciamo perdere chi ha sbagliato. M’interessa sapere se il fatto che io una volta sia andata a letto con un uomo che non era mio marito, mentre ancora eravamo sposati, per te costituisca motivo di condanna morale.

– Non particolarmente. Tutto dipende dai rapporti che avevi in quel momento con Nando.

– Giusto, ma questo vale per il lato affettivo. Non è quello che interessa, in questo momento. Perciò ti dico: m’è anche capitato d’avere un rapporto con un uomo – di cui non ti dirò molto, né ora né poi – che non amavo, non stimavo e che non sarei stata lieta d’esibire in società. Perché insieme avevamo un sesso strepitoso. Veniva, facevamo l’amore come pazzi, si rivestiva e se ne andava. Sono diventata una puttana?

– Ma che domande fai!

– Che domande faccio? Ma non è qualcosa di simile a ciò che tu hai presunto per Günther?

Stefano si fermò, la prese per le spalle, se la pose di fronte e, inaspettatamente, le stampò due bacioni sulle guance:

– Senti, ragazzina, primo, non è questo il modo di discutere. Noi abbiamo deciso di volerci bene, non di litigare. Secondo, io volevo soltanto sapere con chi avevo a che fare. Ora me l’hai detto: va benissimo. Non ti propongo l’amore in tre o in quattro perché non mi piace, ma per me, in campo sessuale, non ci sono problemi. Di nessun genere. Per me sarebbe allarmante se tu mi chiedessi di farti un figlio, ma se mi dici che per te il sesso non è peccato, perché dovrei allarmarmi? La pensi come la penso io, ecco tutto.

– Meno male, disse lei. Finalmente sorridendo. Poi aggiunse: Me la cavo con due Pater, due Ave e due Gloria?

– È prevedibile che te la cavi con qualche strapazzo in più a letto.

– Ma quello non è Giovanni?

Lo era, ma non era un Giovanni felice. L’avevano fatto andare a Messina per niente.

– Ci devo tornare domattina. Ci vieni?

– E perché no? Tu, Alessandra?

– Io no, ho un impegno.

 

XVII

 

Il viaggio verso Messina stavolta aveva tutt’altra connotazione. Avere un rapporto di famiglia significa non avere più nulla da scoprire, nessuna domanda da fare, addirittura rischiare il silenzio. Stefano, come altre volte, spinse dunque il suo amico a parlargli del suo lavoro, cosa che Giovanni faceva quasi con gratitudine e come se potesse ricavarne un utile consiglio. Era perfettamente improbabile, visto che Stefano non era per nulla competente, in quei campi, ma non si perde facilmente un’abitudine contratta nell’adolescenza. Per Giovanni i problemi suoi era normale fossero anche di Stefano, e viceversa. Poi, quando si fece un silenzio, Stefano notò:

– Hai visto quanta neve, sull’Etna?

– Fa più freddo del solito, quest’anno. E noi dobbiamo ancora far revisionare il riscaldamento. Devo pensare a tutto io, a casa mia.

Stefano lo sapeva benissimo. La moglie di Giovanni, nata in una famiglia ricca, non s’era mai seriamente occupata dei problemi di conduzione della casa e delle piccole beghe tecnico-giuridiche che hanno tutti gli adulti. Giovanni del resto, pur lamentandosene, non sarebbe stato lieto di affidare un’incombenza a qualcun altro. L’esperienza gli aveva insegnato che avrebbe corso troppi rischi e che era perfettamente vero il proverbio francese per cui on n’est jamais si bien servi que par soi-même, non si è mai serviti tanto bene come quando ci si serve da sé.

Si fece un altro silenzio e Stefano si lasciò andare a porre la domanda più scema:

– Novità?

– Nessuna. Il marito della portinaia s’è rotta una gamba. Ora c’è finalmente sempre qualcuno, nella guardiola.

– Non tutto il male vien per nuocere.

Improvvisamente Giovanni esclamò:

– Ma una novità c’è eccome: Arturo è tornato da Dorotea.

– Veramente? E quando?

– Un paio di giorni fa. Ma la vera domanda è: perché? L’ho saputo da Gerry. Neanche lui ne sa di più. Tu che ipotesi fai?

– Come dici tu: Ah, saperlo! In realtà penso che la ragione principale sia sempre la stessa: l’amore del noto e la paura dell’ignoto. Un po’ tutti abbiamo sofferto, nella famiglia in cui siamo nati. E tuttavia, se ce ne siamo allontanati, il ritorno è stato sempre un rientro in porto. Il ritorno alle certezze costanti, alla regola fondamentale. E poi, se rompi con la famiglia, stanno tutti a chiederti perché, dandoti la sensazione d’avere commesso qualcosa per cui devi giustificarti.

– Ma Arturo questo prezzo l’ha già pagato! obiettò giustamente Giovanni. Allora, perché tornare indietro?

– Perché si separa seriamente solo chi soffre seriamente. Chi è invece soltanto infastidito dalla famiglia, e ovviamente in particolare dal coniuge, borbotta, gli fa le corna o le fa le corna, sta lontano da casa quanto può, ma in totale che ragione ha di separarsi?

– E tuttavia Arturo ci ha provato.

– Devo pensare che sia stato in seguito ad una lite. S’è innervosito ed ha deciso di mandare tutti al diavolo. Poi gli è sbollita…

– Ma se è una delle persone più serie ed equilibrate che conosciamo! Forse Dorotea gli ha promesso di cambiare atteggiamento.

– E lui le avrebbe creduto? Lui che è tanto intelligente? È vero che stiamo parlando d’affettività, non d’intelligenza. Solo una persona in preda a problemi affettivi può prendere sul serio la promessa di “cambiare atteggiamento”. Nessuno cambia niente. Siamo quello che siamo, soprattutto fra le quattro mura di casa.

– Insomma, mi stai dicendo che anch’io, che mi sento un uomo freddo, potrei all’occasione comportarmi da cretino. Consolante.

– Semplicemente umano. Se t’innamorassi follemente come avviene a volte intorno ai quarant’anni (quello che i francesi chiamano il démon de midi, il diavolo di mezzogiorno), saresti capace di fare cose che oggi giudichi inverosimili. Anche Angela pensava forse che si sarebbe innamorata di quel tale, fino a tradirmi e piantarmi nel giro di due mesi?

– Ma lo sapevamo, che lei era una passionale. Lo stesso modo furioso in cui teneva a te, dopo averti sposato, tanti anni fa, meravigliava un po’ tutti. Tu eri addirittura imbarazzato, lo ricordo.

– È vero. Ma credimi, di dare i numeri potrebbe capitare anche a me. A tutti.

– A te non credo. Accidenti, sembri una roccia!

– Ma no, rise Stefano. Che roccia! Se qualcosa mi coinvolge fortemente sono come tutti gli altri. Ricordi com’ero sconvolto e debole e fragile, quando a sedici anni mi sono innamorato di Russotti? Toh, la chiamo ancora col cognome. È rimasta solo una compagna di classe.

– Perché non hai voluto dirglielo, che t’eri innamorato di lei.

– Non ho voluto? Era la più bella e non mi degnava d’uno sguardo, mentre io ero goffo e bruttino: che avrei dovuto fare, rendermi ridicolo?

– No, avresti dovuto provarci, come ti dicevo allora. Magari farti dire di no, magari farti dire va al diavolo, ma provarci. Questo era buon senso.

– In fondo è giusto, è quello che avrei dovuto fare. Ma appunto, come vedi, non sono stato ragionevole neppure io, allora.

– Ti sei rifatto in seguito. Come dice Arturo, Stefano non ha sangue, nelle vene, ha un anticongelante.

– In genere sono abbastanza razionale in cose magari spettacolari, che però non mi coinvolgono. Come quando sono stato coinvolto nell’alluvione. Per questo ho la fama di uomo freddo. Mentre per i normali sentimenti…

– Nell’alluvione? Quale alluvione?

– Tu non c’eri, in quel periodo eri a Torino.

– E cos’è successo?

– Tu sai che a Catania, quando piove, capita che piova di brutto. Dall’Etna scendono valanghe d’acqua che imboccano le strade fino a renderle intransitabili, creano laghi profondi anche quaranta centimetri e insomma fanno vivere ore di catastrofe. Una mattina,  uscendo di casa, ho notato che pioveva in       questo modo anormale, nel senso che cadevano goccioloni così consistenti da essere capaci d’inzupparvi i vestiti in quindici secondi, ma non ci ho fatto caso. Ho solo pensato: eh sì, piove come piove a volte da queste parti. Smetterà. Sono entrato nella mia automobile e non mi sono certo preoccupato. L’acqua scivola via.

Sono arrivato a semaforo di via Molise, ostinatamente rosso, e per questo, da fermo, ho avuto modo di vedere che l’acqua stava aumentando di livello. S’era formato un ingorgo, il semaforo rimaneva rosso e l’acqua aumentava. Finché cominciò a spostare la macchina. Istintivamente premevo sul freno, come uno scemo, ma ovviamente non ottenevo nulla. L’auto cominciò a scendere, trascinata dalla corrente, e come la mia le altre automobili. Tutti ci guardavamo smarriti, attraverso i finestrini, ma eravamo impotenti. I veicoli cominciavano ad urtarsi, proseguendo lentamente ed a caso lungo la discesa. Cinquanta metri. Sessanta. Settanta. Cento metri.

– Accidenti, non so se sei tu che la racconti bene o è una cosa veramente terribile. Meno male che sei qui, significa che t’è finita bene, rise Giovanni.

– La corrente mi girò l’automobile, due volte, e l’acqua cominciò a penetrare dentro, dalla base dagli sportelli prima, poi dalla fessura del freno a mano e infine, dopo essersi arrampicata sul cofano, cominciò a zampillare anche dalle prese d’aria. Avevo freddo perché, benché fosse novembre, ero poco coperto, ma mi divertiva pensare che la scena somigliava ad un film catastrofico. Al cinema, mi dicevo, ho visto cose del genere e in quel momento parevano vere. Ora vivo una catastrofe vera e… mi sembra inventata, surreale, puramente spettacolare.

– Sei un pazzo.

– Non è il peggio. Come è ovvio, nessuno poteva ragionevolmente scendere dall’auto:  e infatti una tizia che ci ha provato è anche morta, perché la corrente l’ha incastrata sotto un’automobile e l’ha annegata. Io non potevo scendere, non potevo far nulla, e allora? Allora, non appena l’acqua è diminuita di quel poco che le ha impedito di entrarmi in auto dalle prese d’aria, mi sono messo a leggere. Come sai, tengo sempre qualcosa da leggere, in auto, per il caso di tempi morti.

– Ah, perché quello era un tempo morto! Non è che a momenti eri morto tu?

– Ma no, ti ho detto che l’acqua cominciava a diminuire: ho capito che il fenomeno era in via di regressione.

– In via di regressione! Ma come parli? E con l’auto com’è finita, l’hai dovuta buttare?

– Macché. Ho evitato di metterla in moto e, dopo una settimana (per fare asciugare l’imbottitura dei sedili), l’ho trainata dal meccanico. Lui ha cambiato l’olio e voilà, auto come nuova. Vedi, in questo caso il sangue freddo era naturale. Da un lato non potevo far niente, dall’altro non ero in pericolo di vita. E so anche nuotare, se serve. Invece non posso garantire che affronterei nello stesso modo un’umiliazione, l’abbandono della persona che amo, la notizia che ho il cancro e devo morire.

– Ma queste sono cose terribili.

– Terribili? Sono cose che capitano tutti i giorni, se non a te o a me, a qualcun altro. Dunque non giudico Arturo, avrà le sue ragioni. Ma non posso impedirmi di pensare che l’avrei preferito solo e libero, come quel giorno che è venuto da me. Invece s’è lasciato trascinare indietro.

– Come quell’alluvione che trascinava la tua macchina.

 

XVIII

 

Ci sono dei giorni in cui il cielo sembra voglia comunicarci un messaggio: la vita può essere felice, anche se oggi non lo è. Presto sarà primavera. Gli uccelli cantano felici e non sanno quanto breve sarà la loro vita. Siamo in febbraio ma ti prego di credere che siamo in aprile, anzi io sorrido come se fosse maggio.

Stefano abbassò gli occhi e fece un bagno nel disprezzo di se stesso. Il cielo non parla a nessuno. Avere il bisogno di sentirne la voce è una delle nostre infermità mentali. “Delle nostre? Della mia”.

La strada si svolgeva dinanzi ai suoi occhi nella maniera consueta. Tornava a casa dalla sua quotidiana umiliazione intellettuale d’insegnare a dei ragazzini cose che non capivano e non li interessavano e si sentiva, come altre volte, “un cannone usato per ammazzare una zanzara”. I colleghi, almeno, simili a sergenti d’un esercito in guerra, credevano o fingevano di credere nel valore della loro missione. Lui invece si sentiva come un generale di corpo d’armata, di quelli che vedono quanto fango, grettezza, mancanza di scrupoli, stupidi massacri e bieche ambizioni stanno dietro i proclami. In guerra c’è chi muore e chi fa carriera, chi piange e chi si arricchisce. A volte è pure necessario combattere, a volte si è aggrediti e non si ha scelta, è vero: ma induce al pianto l’idea che la nostra vita possa dipendere da un essere umano come un tenentino sciocco, magari il nostro collega di matematica richiamato, quello che oggi parla di “questi bambini che per me sono tutti come figli”. E poi cerca di guadagnare qualche misero soldo, facendo la cresta sulla spesa della gita scolastica.

Il cielo, per fortuna, smise d’essere ipocrita e s’annuvolò. “Meglio così, non raccontare balle”, bofonchiò ad alta voce Stefano.

La verità era che Alessandra costituiva un problema. Da qualche mese sembrava che la regola fosse: per ora non diciamo niente, poi ne parleremo. E invece tutto rimaneva nel vago. Lui, certo, non l’aveva forzata. In nessun senso. Perché da prima aveva pensato che non potesse essere una donna per lui: nobile, bella, ricca e il resto, non poteva mettersi con una sorta di barbone laureato. Uno che, come quel personaggio della favola, possedeva solo un gatto e per giunta senza stivali. Ma di fatto con lui ci si era messa: e allora?

Avevano passato tante ore insieme, in perfetta e gradevole confidenza! E senza neppure sapere come e perché erano finiti a letto insieme. Anzi, avevano fatto l’amore tante di quelle volte da essere autorizzati a credere che ormai erano… che cosa? Questo era il punto.

Se la loro relazione fosse stata fastidiosa ma meravigliosa a letto, avrebbe potuto dedurne che erano legati dal sesso e basta. Succede. Ma non era così. Ogni volta ch’erano insieme il tempo scorreva via veloce, come diceva Lamartine. Ma senza alcuna tristezza romantica: erano due vecchi amici, quasi due complici, che ridevano facilmente e facilmente condividevano piccoli progetti. Riascoltare la sinfonia in re minore di Franck, andare a vedere il mare in tempesta o un vecchio film perduto in un cinema di Messina. Insomma si volevano bene. Amici, dunque? E gli amici che fanno l’amore sono ancora solo amici o sono amanti? O persino innamorati che non osano pronunciare parole grosse?

Recentemente ogni tanto Alessandra spariva. Quando si separavano gli diceva laconicamente “Ti telefonerò io” e magari passavano quattro giorni. Poi, quando si risentivano, non era che si meravigliasse dei giorni trascorsi. Non è che dicesse “Mi potevi telefonare tu”, niente. Tutto normale. E lui cominciava a soffrirne, di questo andazzo. Avrebbe voluto sapere che atteggiamento avere. Sul momento era costretto a sospendere il giudizio: non conoscendo i sentimenti di lei – quelli veri, quelli profondi – non poteva permettersi né di cercare d’innamorarsi di lei, ammesso che uno possa cercare d’innamorarsi, né cercare di considerarla un passatempo, un’amica che gli apriva occasionalmente la sua casa e il suo letto. O che veniva da lui per condividere momentaneamente la sua vita d’eremita. Ma in questo modo temeva continuamente d’imboccare un vicolo cieco, di sbilanciarsi nell’una o nell’altra direzione sbagliata. Che poteva essere sbagliata.

Doveva parlare di tutto questo? Forse no. Le donne sono più coraggiose e risolute degli uomini, nei sentimenti. Per quanto ne sapeva, se lei avesse voluto avere un vero rapporto d’amore non gliel’avrebbe lasciato ignorare. Anzi gli avrebbe già rimproverato di non essere stato più chiaro, lui. Di questo era praticamente certo. Dunque a che scopo chiederle se lei l’amava, quando già conosceva la risposta?

Forse le domande che lei non gli poneva doveva intanto porle lui, a se stesso. Lui personalmente, che cosa desiderava? E qui s’accorse di non sapere che cosa rispondere.

Nella vita sentimentale, teorizzò, abbiamo due situazioni nettamente distinte, una di totale costrizione e una di piena libertà. Se c’innamoriamo, ma proprio sul serio, come avviene nel primo amore, non è che possiamo scegliere di amare o di non amare. Questa è una situazione di totale costrizione. Al massimo possiamo scegliere, e con costi altissimi, di tacere il nostro amore, di non farlo vivere nella realtà: ma sul sentimento non ci possono essere dubbi, non dipende da noi ed ha tutta l’evidenza delle ossessioni. Questo, per fortuna, è il caso più raro. Molte persone s’innamorano in questo modo una sola volta nella vita, da ragazzi. Se Romeo e Giulietta fossero sopravvissuti e lui l’avesse sposata, magari dieci anni dopo si sarebbe stufato di lei e avrebbe avuto un’amante. L’amore per Giulietta sarebbe rimasto un’altra cosa, sarebbe sembrato inverosimile, dieci anni dopo. Sarebbe apparso retrospettivamente come l’epifania di Venere e di Cupido, la sopraffazione dei mortali da parte d’un dio. Ma nel frattempo lui sarebbe andato a letto con un’altra. E lei, chissà, con un altro.

A questa situazione se ne contrappone un’altra, nella vita di tutti i giorni. Una situazione in cui possiamo scegliere e ci chiediamo: vado avanti o mi fermo? Ne faccio un passatempo o una cosa serissima, magari il centro della mia vita? Cerco di non bruciarmi le dita, maneggiando questa cosa, o cerco d’innamorarmi? E a questi interrogativi si giustappongono quelli che si pone l’altro. Perché anche l’altro si chiede che cosa sta vivendo e che cosa deve fare. Tanto che spesso la scelta comune è più una risultante che il frutto della decisione di uno degli interessati. O i due stanno insieme e a poco a poco s’accorgono di non poter fare a meno l’uno dell’altro, oppure s’accorgono che il rapporto è in perdita di velocità, comincia a denunciare controindicazioni, si avvia a finire e i due si chiedono come possono decentemente metterci punto. E se è vero, come dicevano i romani, che habent sua sidera lites (i processi hanno la loro stella), anche gli amori habent sua sidera. E qual era la stella sua e di Alessandra?

Il mistero del futuro. Lui era disponibile a giocare un gioco o l’altro, ma finché lei, pur col suo comportamento disinvolto e solare, rimaneva ambigua, era bene che non puntasse troppo su questa storia. Se, quando lei spariva, spariva perché aveva qualcuno o qualcosa di più importante di lui, non gli rimaneva che approfittare di ciò che questa “amicizia” gli offriva. Raccogliere le briciole in attesa di meglio, magari tenersi la porta aperta per altri incontri, altri sorrisi, altri amori. Se invece…

Il “se invece” comunque dipendeva da lei. Ecco perché era vagamente arrabbiato. Scopriva che tanta parte della propria vita dipendeva da un’altra persona a cui non osava neppure chiedere che cosa volesse fare. Che cosa volesse fare di lui.

E tuttavia aveva torto. Non avrebbe dovuto arrabbiarsi. Non era lui che sosteneva che siamo tutti, sempre e inguaribilmente soli? Se si sentiva abbandonato era perché cedeva un po’ alla debolezza e alle illusioni correnti. Aveva “un copioso se stesso”, come una volta aveva detto brillantemente Alessandra, e non poteva lamentarsi. Tanta gente non aveva neppure quello.

Un copioso se stesso. Alessandra una volta aveva accennato a questa sorta d’impossibilità di penetrare nel sancta sanctorum del suo essere. “Tu sembri un ventriloquo: permetti agli altri di parlare solo col tuo pupazzo, non con te stesso”. Altra frase brillante: ma vera?

Per fortuna, arrivato a casa, le cose da fare, il gatto, la fame, una telefonata proprio di quel collega di matematica che tanto disprezzava – e che tuttavia era tanto cordiale, poverino! – gli fecero dimenticare quei pensieri che gli avevano tenuto compagnia lungo tutta la strada. La vita continuava.

 

XIX

 

Le ragioni per avere un contatto telefonico con gli amici possono essere le più varie, ma quella di quel giorno, per risentire Gilda Scandiani, fu fra le più inconsuete e derivò dalla sua fama di “gattologo”. La donna di servizio di Gilda aveva una gattina che stava male. Dopo essere stata in calore, ed anzi continuando ad esserlo, presentava dei sintomi preoccupanti. Pareva pazza ed andava lasciando in giro tracce di sangue. Per fortuna a Stefano la cosa era già capitata con Mabel, la gatta che aveva avuto prima di Grif, quando viveva con Angela in città, e sapeva che si trattava. Non avendo potuto accoppiarsi, l’eccesso di ormoni le stava facendo male. Dovevano proprio trovarle un maschio.

– Loro non parlano di bisogno d’amore ma vivono cose più violente di noi, dunque? aveva chiesto divertita Gilda.

– Evidentemente sì, non sono come certe beghine che rimangono eternamente vergini e possono credere d’avvantaggiarsene spiritualmente.

– Un vantaggio ce l’hanno, però: non hanno da fare con gli uomini.

Una frase più che stupefacente, quella. Soprattutto da parte di una donna che aveva cambiato quasi tanti uomini quanti le era capitato d’incontrarne. “Solo il treno non le è passato sopra”, aveva detto una volta Lorella, col suo linguaggio colorito.

Doveva incoraggiarla a dire di più? Sarebbe apparso un affettuoso interessamento o un’indebita curiosità? Non ebbe il tempo di decidere perché lei riprese:

– Ma tu non hai un gatto?

– Messer Grif. È qui con me.

– E se gli portiamo la gatta fa il difficile? Che principi morali ti risulta che abbia?

Più o meno i tuoi, stava per rispondere. Ma ancora una volta preferì non commettere gaffe o, chissà, ferirla. Sicché rispose:

– Lasciamo che questo glielo chieda la gatta. Se vuoi, la tua donna di servizio può portarmela, ma non garantisco che non scappi. Ricordati che ho un giardinetto.

– E come mai il tuo gatto non scappa?

– Fosse matto. Questa è casa sua e per giunta è trattato da re.

– A proposito, ma Grif che nome è?

– Significa grinfia, in francese, anche se in francese si scrive “griffe”.

– Hai un gatto firmato?

– Ma che dici, griffe per firma d’alta moda viene proprio da grinfia, è il colpo di zampa del grande maestro, la zampata che rivela il leone.

– Ma guarda quante cose s’imparano, con te! Vediamo se riesci a fornirmi un’altra informazione. Conosci qualcuno che ripari serrande?

– Sì, anzi proprio a te ne ho fornito il nominativo, non molto tempo fa.

– Il signor Razzinga? L’ho chiamato e sua moglie m’ha detto che non fa più questo mestiere: è stato assunto alla Ferrovia Circumetnea. Insomma non s’abbassa a riparare le serrande. Qualcun altro?

– Non conosco nessuno. Fra l’altro, le mie eventualmente le riparo da me. Ma che è successo, alla tua?

Fu in seguito a questa conversazione che si trovò quel pomeriggio stesso da Gilda, con la cassetta degli attrezzi e tutto quello che poteva servire. Un po’ come quando aveva cambiato le serrature d’Alessandra. E che ne era, di Alessandra? Cinque giorni, con quello, che non ne aveva notizie. Per strada comprò un nastro e fu una fortuna, perché diversamente non avrebbe concluso nulla. La gente aspetta che si rompa, prima di sostituirlo. Il lavoro non risultò molto difficile e alle cinque e mezzo del pomeriggio si ritrovò con un tè in mano ed una Gilda seduta in poltrona di fronte a lui. Era gratissima e un po’ stupita:

– Sei una risorsa, tu.

– Niente di speciale. La regola è: dare un’occhiata, prima d’arrendersi. Molte volte la soluzione è evidente. Massimo è di quelli che non ci provano neppure?

Lei si rabbuiò e lui ricordò immediatamente quella traccia d’amarezza che aveva percepito per telefono. Accidenti, forse aveva commesso una gaffe.

– Con Massimo ho praticamente rotto. Non che, se fosse stato in giro per casa, sarebbe stato capace di fare quello che hai fatto tu. È un signorino, lui. Ma per il momento è meglio che non si faccia vedere.

Ancora una volta, chiedere o non chiedere? Non potendo rimanere zitto, cosa che sarebbe equivalsa ad una richiesta di proseguire nella confessione, commentò tenendosi sul vago:

– Per fortuna tu sei il tipo di donna capace di badare a se stessa.

– Giusto, magari un po’ puttana ma libera.

– Che espressione! Ti comporti come si comportano gli uomini e ne hai tutto il diritto, a mio parere.

– Questione di lingua. Di un uomo si dice “conquistatore” di una donna si dice “puttana”. Ma mi sta bene e me ne frego, non ti preoccupare. Non è che debba piacere alla famiglia del mio beneamato.

Stefano cominciò a sentire per lei una sorta di pietà. Gilda non era mai stata tanto amara, tanto delusa, tanto pessimista. E per questo decise d’essere se stesso, di dire ciò che pensava. E andasse come doveva andare:

– Come mai questa rottura con Massimo ti ha tanto colpita? Non ti ho mai vista così.

– E forse non lo sono mai neanche stata, disse lei alzando le spalle. Il fatto è che, al di là della classica fottutella con un amico, questa volta sembrava nascesse qualcosa di diverso. Sai, il sesso è divertente, ed anche cambiare partner: ma l’idea d’avere un compagno col quale condividere le serate, magari parlando del più e del meno, qualcuno cui affidare la bolletta da pagare, per una volta, qualcuno cui raccontare i guai che mi procurano i miei figli… Insomma, sarà che sono invecchiata, ma quasi quasi mi piaceva, l’idea di un “marito”.

– E non è andata?

– No. Non è andata appena si è sentito autorizzato a venire qui non solo per fottere, ma anche per vivere un po’ con me. È stato sì disposto a divenire una sorta di marito ma con tutti i difetti del marito. Voleva essere servito, il signore. Voleva trovare una cena calda, quella fredda non andava. E neppure far venire delle pizze, bastava. Come programma dovevamo vedere quello che piaceva a lui, si seccava se andavo a vederne un altro col televisore della cucina. A momenti era geloso del tempo che dedico ai miei figli. Poi tendeva a non scucire un soldo… Insomma ha rivelato tali e tanti di quei limiti che mi sono stancata. E l’ho messo alla porta.

– Però dicevi d’avere “praticamente” rotto con lui. Che significa “praticamente”?

– Che lui vorrebbe tornare. Ma non si possono incollare i cocci. Non ho bisogno d’un vaso rattoppato. E quanto ai compagni di letto, ne trovo quanti ne voglio.

Si fece un lungo silenzio, nel corso del quale la cosa più importante sembrò essere una fronda d’albero che, scossa dal vento, rischiava di colpire, o almeno d’accarezzare, l vetro della finestra. La casa di Gilda aveva tutto lo stile che dà il progetto d’un architetto, visto che proprio architetto era stato suo marito. Quell’albero maltrattato dal vento sembrava il tocco di dramma che un regista sapiente inserisse nel suo set. Forse per correggere l’asettica bellezza di quel grande soggiorno.

– A te è successo che hai riscoperto come, in capo alla libertà, ci sia la solitudine, rifletté infine ad alta voce Stefano. Hai deciso di sfidare gli uomini anche nel campo in cui si credono superiori, quello del libertinaggio, ed hai tentato di fare a meno di tutti. Ma siamo umani. Alla fine non ti sarebbe dispiaciuto avere quei vantaggi cui tanta gente sacrifica la libertà e il libertinaggio. Ma sono vantaggi difficili da trovare, soprattutto per una donna.

– Soprattutto per una donna? Tu stesso dici che mi comporto come un uomo!

– Soprattutto per una donna perché mentre io, per avere una compagna, devo cercare fra le donne, tu, donna, devi cercare fra gli uomini. È questo, lo svantaggio. Gli uomini, francamente, non siamo gran che.

Gilda rise rinfrancata e l’invitò a riprendere ancora un paio di cioccolatini. “Te li meriti”.

– E perché va così, a tuo parere? chiese poi.

– Perché il nostro DNA ci dice di cercare la femmina ma di evitare d’occuparci di lei e dei suoi figli. Ecco perché la donna ideale è la vamp incontrata in treno, con cui si va a letto in albergo e che si perde poi di vista. La coppia implica invece un rapporto umano molto impegnativo. Un bilancio di dare ed avere, un equilibrio di comportamento che non tutti abbiamo. E forse tutto dipende dalla vita primitiva. La donna si occupava della caverna e della prole. L’uomo era lontano, a caccia. Poi tornava, mangiava, faceva l’amore in cinque minuti e dormiva fino al giorno dopo. In altre parole, l’uomo è nato per lo sport – visto che la caccia è anche sport – e il sesso. La donna per il resto. Quando ci mettiamo insieme e cerchiamo di vivere nello stesso modo, la donna accetta male la vita mascolina e l’uomo sopporta male di mettersi le pattine per non sporcare il parquet.

– Non c’è speranza, rise ancora una volta Gilda. E Stefano fu veramente felice di vedere che l’aveva tirata fuori dalla sua tristezza. Forse poteva anche andarsene a casa. Tanto che alla prima buona occasione si alzò. Lei gli pose un’ultima domanda:

– Allora, non mi dài nessuna speranza? Non esiste Mr.Right?

– Certo che sì. Può capitare d’incontrarlo, Mr.Right: ma è meglio non contarci. Io stesso ho una compagna, in questo momento, ma non so se è Mrs.Right. Solo Grif è Right, come gatto. Ma difetta in materia di conversazione.

Gilda lo baciò in modo sfacciato, ma non provocatoriamente sessuale, e si limitò a ringraziarlo ancora per la riparazione della serranda.

A mo’ di benedizione, quando già s’avviava lungo il vialetto verso la sua automobile, gli disse una frase degna di quella linguaccia di Lorella: “Sembri un fesso e poi sei straordinario”.

 

XX

 

Una volta in macchina Alessandra sembrò essere una persona diversa. Era muta, vagamente accigliata, quasi che qualcosa la preoccupasse e non fosse stata lei a proporre, gaiamente, quella gita in montagna. Quel giorno era stata proprio strana. Prima gli aveva telefonato, allegra, come l’avesse sentito il giorno prima e l’aveva invitato ad andare da lei. Poi, quasi senza una parola, avevano fatto l’amore con entusiasmo, quasi per compensare l’astinenza di tanti giorni, ed infine lei, dopo il sacrosanto caffè post-amore, aveva proposto quella gita. “C’è la neve bassa, la troveremo sopra Nicolosi. Quanto tempo è che non vedi la neve?”

Avrebbe dovuto risponderle che non gl’importava nulla, della neve. E che non aveva nemmeno molta benzina, nel serbatoio. E anche se la benzina poteva comprarla, recentemente aveva sentito una sorta di schianto, dietro a destra. Ficcandosi sotto la macchina non aveva scoperto niente, ma il rumore c’era stato. Era prudente avventurarsi in una gita fuori città, per giunta con quel freddo? Solo che in questi casi, se uno parla di guasti e problemi, l’impressione che si dà è che si vuol dire di no. “Non sei forse venuto in macchina? E se è andata bene per venire qui perché non dovrebbe andar bene in montagna?” Vai a spiegare che un guasto in montagna, dove non ci sono meccanici e per giunta fa un freddo cane, è una cosa diversa.

Comunque, in fondo era stato tanto contento di rivederla e tanto contento di rifare l’amore con lei, che non aveva pensato nemmeno per un momento a fare obiezioni. E comunque, fino ad allora, tutto andava bene. Bastava che facesse rifornimento, alla prima occasione.

– A che pensi? chiese lei.

E a lui venne da sorridere. Proprio nel momento in cui stava solo pensando a quale distributore fermarsi, ecco che lei, forse proiettando su di lui il proprio stesso imbarazzo, gli chiedeva che cosa pensasse.

– Mi chiedevo se devo prendere benzina dove costa di meno o dove offrono i tagliandi per i regali.

– Pensieri profondi, ironizzò lei.

– Se avessi sempre pensieri profondi finirei col soffrire di dispnea. Manca l’ossigeno, nelle altezze e nelle profondità.

– Manca un po’ anche accanto a te.

Era una provocazione, indubbiamente. Si voltò a guardarla, per capire meglio, e la vide soltanto più bella del solito. Col suo sguardo intento, il suo bel corpo snello, le sue mani delicate. E si chiese quale amarezza mai albergasse in quel capolavoro della natura. In ogni modo, se voleva rimproverargli qualcosa, doveva fare tutta la strada. Lui non l’avrebbe incoraggiata con domande:

– Vedi quel posto lì? Lì potrai trovare il tipo di giara di terracotta che ti serve per sostituire quella rotta.

– Un’altra volta.

– Certo, un’altra volta.

Insomma era chiaro che voleva parlare di qualcosa. Qualcosa d’importante. Magari l’aveva chiamato ed aveva fatto l’amore con lui per dirgli addio. Il bicchiere della staffa. O il sesso della messa in moto: bisogna aggiornarsi. In fondo anche lui era pronto. Se proprio non dovevano vedersi più, era solo un peccato che lui fosse obbligato a quella gita in posti che conosceva troppo bene, per vedere una cosa senza importanza, la neve, e magari per essere obbligato a montare le catene.

Come mai era così pronto a perderla, nel momento stesso in cui era tanto contento di fare l’amore con lei, nel momento stesso in cui la trovava più bella ed affascinante del solito? L’unica spiegazione era il terrore della sofferenza. Partito da una situazione di svantaggio – dal punto di vista economico, dal punto di vista estetico, dal punto di vista della capacità di realizzare qualcosa – non appena si era accorto che era senza difesa contro tutto ciò, aveva imparato a rinunciare. Era ormai un campione, in questo campo. Posto dinanzi al dilemma “darsi da fare per qualcosa o lasciar perdere”, aveva sempre scelto la seconda soluzione, quella in discesa. E  rinunziare era divenuto sempre più facile.

Non era stato del tutto folle, in questo. Non solo i filosofi greci s’erano accorti che l’unica risposta all’infinità dei nostri desideri è la rinuncia ai desideri stessi, ma molto era dipeso dal suo senso critico. Innamorato della bellezza, non era bello. Innamorato della musica, non aveva voce. Innamorato delle donne prima non aveva avuto successo, poi era stato piantato da Angela. Innamorato di certi mestieri – lo scrittore, il giornalista, il giramondo – non aveva avuto nessuna possibilità di intraprenderli. Non c’era  stato nessuno che gli desse una mano, un consiglio, un aiuto. Ogni volta che nella vita aveva desiderato qualcosa gli era stato risposto di no. “Ho combinato qualcosa solo quando ho usato il cannone per ammazzare una zanzara”, diceva ad esempio parlando di vincere un concorso. Per il resto, mai un colpo di fortuna, mai un regalo. Per questo, quando infine la vita aveva cominciato a dirgli qualche sì, si era vista accogliere con un sorriso ironico. Arrivava troppo tardi. Ora, non appena gli si offriva qualcosa in cambio d’una minima contropartita, non aveva più voglia di dire sì. C’era sempre il contraltare della rinuncia, che era gratis: una concorrenza imbattibile. Ecco perché l’idea d’una discussione con Alessandra lo tediava profondamente.

Ma non sarebbe riuscito ad evitarla, tanto valeva nemmeno provarci: le sue assenze delle settimane precedenti, il suo stesso comportamento di quel giorno erano segni sufficienti di uno show down.

– Ti devo parlare, disse infine Alessandra e lui stava per rispondere un laconico, maiuscolo  “Ovvio”, quando pensò che sarebbe sembrato provocatorio. Meglio tacere.

– Tu non mi rendi le cose facili, aggiunse lei.

– Se desideri che non ci vediamo più, non hai che da dirlo. Senza spiegazioni. Questo immagino ti renda le cose estremamente facili.

Visto che non rispondeva si volse a guardarla e constatò il suo stupore. Che avesse sbagliato indirizzo?

– Scusami, posso esserti sembrato brutale. Ho solo fatto un’ipotesi. E, in un caso come quello che ho ipotizzato, le spiegazioni non servono a niente. Solo a fornire materiale per l’amarezza.

– Un momento, un momento! protestò lei, peggio che indignata. Io non ho ancora detto niente e tu ti precipiti a mandarmi al diavolo? Trovo tutto questo offensivo. Allora, se io ti dicessi che forse è meglio che non ci vediamo più tu non faresti il minimo tentativo per trattenermi, per chiedere spiegazioni, magari per tentare di convincermi che stiamo facendo un errore? Ti rendi conto che tutto questo significa che non tieni affatto a me? Che quasi stai aspettando l’occasione per piantarmi, tu?

– Io non ho mai piantato nessuno, fino ad ora, obiettò lui amaramente. Forse per questo non ho nemmeno fatto l’ipotesi.

– Cominceresti con me, a quanto vedo.

– Senti, qui c’è già un po’ di neve, posso fermarmi così parliamo in pace?

– Fa’ come credi.

Il panorama era effettivamente splendido. La neve spessa e fresca arrotondava gli spigoli come nei fumetti di Walt Disney. Era pulita come se il mondo fosse stato appena creato e fosse ancora un film in bianco e nero. Su di essa imperava per giunta il cielo blu di Sicilia. Tutto sembrava invitare alla gioia di vivere.

Lui si girò, mettendo il braccio destro lungo il bordo superiore dei sedili, e la guardò dritto in faccia:

– Senti, Alessandra, ti pare normale che noi dobbiamo discutere del modo come io accoglierei ciò che tu devi dirmi, invece di discutere di ciò che devi dirmi?

– E a te pare normale che tu, dinanzi alle mie perplessità, sembri rispondermi: fa’ come credi, posso fare a meno di te?

Lui scosse la testa.

– Non capovolgiamo la realtà. Noi ci conosciamo da un po’ meno di quattro mesi. Dopo un periodo in cui tutto è andato normalmente, tu hai cominciato, sostanzialmente, ad evitarmi. Che dovevo pensare, che il tuo amore era divenuto straripante? Ho pensato quello che penserebbe qualunque uomo di buon senso: che t’interessassi meno di prima, che t’interessassi sempre meno e forse eri solo imbarazzata all’idea di liquidarmi. Oggi mi dici con la faccia seria “Ti devo parlare” ed io che devo capire? Che mi vuoi parlare della civiltà Maya?

– E comunque non ti strappi certo i capelli, osservò lei acida.

– Non ti ho detto che non ne soffrirò. Ma a che servirebbe, parlartene? Ti ho già dimostrato che, se vuoi che non ti cerchi, non ti cerco. Che corro da te se solo mi dici che desideri vedermi. Che faccio l’amore con te o non lo faccio, secondo ciò che tu vuoi. E infine che sono costantemente lo stesso. Se poi questo “costante me stesso” non ti piace, al punto che t’allontani, che altro posso offrirti? Io sono l’unico me stesso.

– Ora parlo io, replicò lei decisa. Non è detto che quest’unico te stesso non mi vada. Il fatto è che quest’unico te stesso lo conservi solo per te. Ecco la verità. Anche il discorso che hai fatto oggi è su questa linea. Stefano è questo, offre poco ma non può offrire di più: prendere o lasciare.

– Se offro poco è forse perché sono poco.

– Magari! Magari! No, caro mio. Sei moltissimo, da tutti i punti di vista. Ma ne sei così innamorato, tu per primo, di ciò che sei, da non desiderare di condividerlo con altri.

– Qui devo protestare. Mi presenti come un narcisista patologico.

– Sei narcisista ma non lo sei come lo sono gli altri, i narcisisti normali. Cioè i narcisisti ingenui. Sei narcisista in maniera solipsistica. Sei così centrale, nel tuo mondo, che non ti ami più degli altri, ma in assenza degli altri. Da un lato basti a te stesso, dall’altro è come se gli altri non esistessero.

Stefano, pure sorpreso dall’acutezza delle osservazioni, non sapeva bene come difendersi. Si sentiva così pieno di tenerezza, nei confronti di tutti, che gli pareva strano potesse essere dipinto in quel modo. Non che fosse del tutto assurdo: ma era la solita questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Protestò nel primo modo che gli venne in mente:

– Ma se amo teneramente perfino il mio gatto, tanto che tutti mi prendete in giro!

– Bell’esempio! approvò lei ironicamente. Perché non dovresti amare un gatto che non ti chiederà mai dove sei stato, se per caso preferisci un altro gatto, se oggi non gli hai comprato la carne perché lo ami meno di prima? Tu ami il prossimo purché stia fuori dalla porta. Fuori sei felice di fargli un sorriso, perfino di fargli l’elemosina, ma in casa no, non deve entrare. Potrebbe tossire mentre ascolti musica.

Nel silenzio che si fece lui pensò alla domanda inglese: “Where do we go from here?” E allora? Forse era opportuno scendere sul concreto. Per questo le chiese:

– Ti sei sentita così poco amata? Mi dispiace.

– Poco amata? Sì e no. Mi sono sentita amata perché sei sempre stato delicato, disponibile,  affettuoso perfino. Perché non ammetterlo? Ma non mi sono sentita amata perché… diciamolo in un altro modo: tu non ti condividi. Non solo non sei innamorato di me, ma sembri sempre col cappotto addosso, pronto ad andartene.

– In realtà mi sono sempre sentito inadeguato, per te. Tu sei bella, giovane, nobile…

– Smettila.

– Ed io sono quello che sono. Ho sempre pensato che non sarebbe durata. Che ti saresti stancata di me.

– Ma, cavolo! una persona normale avrebbe cercato di cambiare le cose, di legarmi a sé, di colmare questo divario, se è vero che c’è. Perfino in questo periodo in cui, allontanandomi da te, ho cercato di capire che senso ha, il mio rapporto con te, che importanza ha, se è positivo o negativo, se posso rinunciarci facilmente o me ne pentirei, tu non hai fatto altro che aspettare. E aspettare significa essere disposti ad accettare senza discussione il sì e il no, Alessandra sì, Alessandra no. Del resto non è così, che hai cominciato a rispondermi, oggi? Ma sei fatto di legno?

Stefano si sentì infinitamente triste e stanco. Se solo fosse stato possibile piangere a comando, in quel momento si sarebbe sciolto in lacrime.

– Non sono fatto di legno. Sono fatto di ricotta, o forse di nuvole. Sin da ragazzino ho sofferto troppo per qualunque cosa. Finché ho capito che potevo sopravvivere solo se riuscivo a soffrire di meno. Per questo ho imparato a fare a meno di tutto e di tutti, per non soffrire dell’abbandono. So già che Grif sarà il mio ultimo gatto perché non potrò permettermi la morte di un altro gatto. Ho capito qual era il mio carattere quando è morto mio padre ed ho ereditato la sua stilografica d’oro. Dopo qualche mese ho visto che non l’avevo usata nemmeno una volta e non pensavo minimamente a portarla fuori di casa. Per non perderla, per non danneggiarla. Scrivevo con la matita, poi con la penna a sfera, perché queste potevo perderle senza piangerci su. E questo è diventato la regola generale. Per paura di cadere dalla sedia sto seduto per terra. Per paura della morte penso che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo e per paura della tristezza mi obbligo a vivere quest’ultimo giorno in piena letizia, o almeno molto serenamente. Ecco perché appaio d’umore sempre uguale. Perché ogni giorno sono mortale e ogni giorno per me è una festa l’essere ancora vivo.

Cara Alessandra, scusami. Forse non sono fatto per l’amore. Forse la ferita che mi è stata inferta facendomi nascere non s’è ancora rimarginata. A te do tutto l’affetto di cui sono capace, se te ne andrai ne soffrirò eccome, come ne ho già sofferto in queste settimane, pur cercando di non confessarmelo, ma che posso farci, se tutto questo non ti basta? Non puoi rimproverare ad un negro d’essere negro. E a me d’essere come sono.

– Insomma avevo capito benissimo la situazione, per quanto ci riguarda, disse lei con tono rassegnato. E sta a me decidere se voglio sì o no avere a che fare con questo fenomeno.

Lui allargò le braccia come per dirle che, appunto, era lei che doveva decidere, ma lei dette un diverso significato a quel gesto e si gettò fra di esse. Poi, con la testa sulla spalla, gli mormorò: “Ho cercato di starti lontana per capire che cosa dovessi fare, e neanche oggi lo so, che cosa dovrei fare. So soltanto che desidero rimanere qui.”

Gianni Pardo

2003 o parecchio prima.

 

 

 

 

 

LA SECONDA OCCASIONE DI STEFANOultima modifica: 2013-05-26T19:01:00+02:00da gianni.pardo
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