il patrigno

Chiamare un bambino Adalberto è un azzardo. Un nome così pomposo e altisonante può essere un handicap. Né è un buon rimedio scoprire che lo si può abbreviare in Ady, nome breve, dolce, e adattissimo a un bambino di due o tre anni. Perché quando l’interessato cresce, ha cinquant’anni, un po’ di pancia, è al suo secondo matrimonio, e non riesce a leggere se non inforcando gli occhiali, il vezzeggiativo Ady è quasi un’irrisione. Per fortuna, si fa l’abitudine a tutto. Infatti Ettore, con i suoi sedici anni, considerava il soprannome del patrigno del tutto adatto ad un uomo anziano, freddo e distante.
Il ragazzo era assennato. Andava bene a scuola, non frequentava cattivi ragazzi, di droga ed alcool neanche parlarne. A casa era pulito, ordinato e affettuosissimo con la madre. Un piccolo modello. Tuttavia aveva un neo, nemmeno tanto piccolo. Odiava il patrigno di un odio freddo e implacabile, chiuso ad ogni possibile compromesso. E questo era una spina nel cuore della madre. Irene aveva trovato in Ady il compagno che aveva sempre desiderato: saggio, solido, affidabile, tenero. Insomma tutto quello che non era riuscito ad essere il padre di Ettore. Ma benché qualche volta avesse tentato di indurre il figlio a vedere i lati positivo dell’uomo che ormai faceva le veci del padre, aveva solo ottenuto che negasse l’evidenza e sciorinasse tutti i propri meriti: aveva mai mancato di rispetto, al patrigno? gli aveva mai rimproverato qualcosa? si era forse lamentato di lui, con lei? La strategia era chiara: esigeva la libertà di detestarlo senza che glielo si potesse rimproverare.
Del resto non è che gli venisse difficile, perché Ady era anche lui irreprensibile. Ciò che era ovvio lo faceva senza farselo neppure chiedere, ciò che era opinabile lo lasciava decidere a sua moglie Irene, e ciò che era fuor di luogo Ettore non avrebbe mai osato chiederglielo. Una situazione apparentemente perfetta e tuttavia terribile, perché senza drammi e senza uscita.
Irene ne soffriva. Voleva bene a tutti e due e non si capacitava che non si amassero fra loro. Tanto che quando il ragazzo compì sedici anni decise che, a ventiquattro mesi dalla maggiore età, un chiarimento era del tutto inevitabile. Per questo parlò al marito: “Tu non soffri di questa situazione, ma io sì. Tu non sei curioso, ma io sì. Devi parlargli. Non dico sbloccare la situazione dal punto di vista affettivo, ormai ho perso le speranze, ma almeno sapere che razza di vicenda abbiamo vissuto, in tutto questo tempo”.
Ady obiettava con ragione che la cosa era molto più semplice per lei, dal momento che il ragazzo le voleva bene, ma anche Irene aveva le sue ragioni: Ettore la lasciava parlare, ma era sempre evasivo, nelle risposte, e ogni volta lei rimaneva con la sensazione di avere posto domande domande stupide. Forse non era abbastanza intelligente per scardinare le sue difese dialettiche. “Dopo tutto, la cosa riguarda te, non me. E poi, tu sei sempre più capace di me, perché non vuoi aiutarmi, stavolta?”
Ady l’amava e non sapeva mai dirle di no. Sicché promise che avrebbe tentato il chiarimento. E il modo di affrontare il problema gli fu suggerito da un telefilm poliziesco. Due detective erano andati a chiedere informazioni ai genitori di una giovane rimasta vittima di un delitto, e dovendo per prima cosa annunciare il fatto uno dei due aveva detto: “Scusatemi, ma non c’è un modo indolore di dirlo: vostra figlia è stata assassinata”. Questo gli fece capire che anche per lui non era il caso di cercare strade traverse. Per questo una domenica mattina, verso le dieci, quando sua moglie era uscita con un’amica, chiese ad Ettore se avesse tempo per un colloquio.
-Di che dobbiamo parlare?
-Di qualcosa che richiede almeno un’oretta. Sì o no?
Ettore si trovò con le spalle al muro. Dire di no sarebbe stata una scortesia e fino a quel momento le scortesie, fra loro due, erano stata accuratamente escluse. Si rassegnò dunque ad uscire col patrigno per andare a prendere un gelato (“Lo prenderai se ne avrai voglia. Io ne ho voglia”) e in auto il silenzio fu totale. Ettore non voleva rendere più facile il colloquio, Ady non voleva mostrare di averne bisogno. Dunque ambedue aspettarono di essere seduti sulla terrazza del bar con vista sul mare. E qui Ady aprì le ostilità.
– Non c’è un modo indolore per dirlo: tu mi odi.
– Non è vero, disse Ettore, dopo qualche secondo. Senza però riuscire a sollevare gli occhi dal gelato.
– Ettore, non perdiamo tempo. Hai sì o no il coraggio della verità? La verità non è una scortesia. A che scopo dire “non è vero”, quando tutti e due sappiamo benissimo che è vero?
– E a che servirebbe parlarne?, rispose il giovane guardandolo dritto negli occhi. Fra l’altro forse che tu non mi odi?
Ady gli sorrise con sincero compiacimento:
– Bravo, così va bene. Ma ti prego di discutere una cosa alla volta: prima i tuoi sentimenti per me, e il loro perché, poi i miei sentimenti per te, e il loro perché.
– E perché in questo ordine?
– Semplice: perché si potrebbe porre la stessa domanda se cominciassimo dai miei sentimenti invece che dai tuoi. Ciò che bisogna comunque evitare è che ci si rinfacci qualcosa. Cioè che tu mi accusi di qualcosa e che io mi difenda accusandoti di qualche altra cosa. Perché non è un procedimento logico.
Ettore lo guardò interdetto. Gli seccava troppo dire “non ho capito”. Ma poi trovò che accennare al lato “logico” dell’affermazione non era una confessione.
– Perché non è logico?
– Perché se io ho rotto un piatto, e qualcuno me lo rimprovera, non posso rispondergli che lui ha provocato un incidente stradale. Perché così dimostrerei soltanto che anche lui può sbagliare, e sfonderei una porta aperta. Rimproverandomi per il piatto che ho rotto non ha con ciò stesso affermato che lui non ne ha mai rotto uno e non ne romperebbe mai uno. Insomma io non giustificherei il mio atto maldestro, perché esso è del tutto indipendente dal suo incidente stradale. Se tu mi accusi di qualcosa io devo o ammettere il mio torto oppure, se posso, dimostrarti che sono innocente. E vale anche per te.
Ettore ebbe ancora una volta la sensazione che l’aveva assalito, a volte, vedendo il patrigno parlare con altri adulti: la percezione di non essere ancora all’altezza di quegli scambi e nel frattempo una sorta di fredda determinazione di superarli, un giorno, magari dimostrando loro che non avevano capito la sua argomentazione. dimostrando che loro non capivano quello che lui pensava. Comunque stavolta gli venne in mente una buona parata:
– Ma non è mai così, che ho sentito la gente discutere.
– Hai ragione. E infatti spesso le discussioni portano ad odiarsi, non a chiarirsi. E invece tutti e due abbiamo sempre evitato la minima frizione. Dunque siamo partiti col piede giusto, per discutere con disciplina. Dunque ripartiamo da capo. Tu mi odi. Sei in grado di dire perché?
Ettore si mise a pensare furiosamente. Non poteva più girare intorno al problema. Come se non bastasse, quel sentimento gli era sempre sembrato così ovvio ed evidente, che gli veniva difficile spiegarlo. Da che parte cominciare? Qual era la cosa più importante?
– Allora?
– Tu non sei amabile.
Forse non era la cosa centrale, ma era la prima che gli era venuta in mente in quel momento. Del resto da troppi anni era abituato a non cercare lo scontro e quelle parole avevano il vantaggio di essere fra le meno dure. Ma vide che Ady sorrideva:
-Eh no. Se sono stato amato dai miei genitori, dai miei amici, dalle donne che ho conosciuto prima di tua madre e soprattutto da lei, almeno per qualcuno amabile devo essere. Dunque rimane da spiegare perché, proprio per te, non sono amabile.
Ettore lo guardò fisso negli occhi e gli sparò contro una fredda bordata:
– Perché dovrei amarti, se tu non mi ami?
– Petitio principii, ragazzo mio, petitio principii. Cioè il serpente si morde la coda. Se tu non mi ami perché io non ti amo, perché dovrei amarti io, se tu non mi ami?
Il ragazzo si sentì smarrito. Quella risposta era sicuramente sbagliata, ma non sapeva dire perché.
Ady gli venne incontro:
– Forse la risposta ce l’ho io. Dal momento che io dovrei essere tuo padre e tu dovresti essere mio figlio – lasciamo da parte le finali “igno” e “astro” – tu vorresti che fosse applicata la regola per la quale i genitori amano i figli più di quanto i figli amino i genitori. Li perdonino più di quanto i figli non perdonino loro. È così?
– Certamente.
– Ma questo è lo schema naturale, non lo schema razionale. La specie vuole che i genitori tollerino l’impossibile e amino i figli molto al di là dei loro meriti perché se così non fosse la specie stessa sarebbe in pericolo. Razionalmente invece, se uno si disinteressa della specie, può anche decidere di non entrare nel gioco. E personalmente, come sai, non ho figli.
– Ma hai sposato mia madre! Sei tu che hai voluto in qualche modo divenire mio padre. Invece da quando ti conosco sei sempre stato uno che “fa il suo dovere”, senza nessuna partecipazione. Forse addirittura sopportandomi con cortesia, soltanto per non litigare con la tua donna. Io da te mi sono sempre sentito giudicato, perfino positivamente, ma giudicato, non amato. Ti ho visto più affettuoso perfino con Jack.
Stavolta fu Ady che si prese un po’ di tempo prima di rispondere. E ne approfittò per far segno al cameriere che poteva riprendersi le coppe e portare il conto.
– Non hai torto, nel bilancio. Ma soggiaci ad un errore che, in un certo senso, è indegno della tua intelligenza.
All’accenno alla sua intelligenza, Ettore sentì che arrossiva, ma non disse nulla.
– Hai l’aria di pensare che mi avresti concesso il tuo affetto se io ti avessi per primo proposto il mio. Ma dove sta scritto, questo dovere? Mi hai detto che io l’avrei perché dovrei fungere da padre ma questo non spiega nulla. Infatti si può sempre chiedere: e perché un padre ha questo dovere? Questo supposto dovere è solo un istinto, inserito nel nostro dna, per gli interessi della specie. Io questo istinto lo rifiuto. Posso concederti la mia amicizia se tu mi dai la tua, e se mi va di rispondere ad essa, come tu puoi darmi la tua amicizia se io ti do la mia, e se ti va di rispondere ad essa. L’idea che io dovrei pregarti, per entrare in questo rapporto con te, indica che mentre io sono uscito dal mio istinto, tu non sei uscito dal tuo. La tua supposta debolezza di minorenne non ti dà nessun diritto. Fra adulti, poco importa, per giungere all’amicizia, chi lancia per primo i segnali. Basta rispondere con un piccolo rilancio, nella direzione della simpatia, ogni volta, e si può andare molto lontano. Insomma, caro mio, tu non hai nessuna giustificazione per il tuo odio, se non il tuo egoismo, residuo dell’infanzia. Ecco il punto: della mia eventuale indifferenza nei tuoi confronti io non devo fornire nessuna spiegazione. Forse che tu devi spiegare perché sei indifferente al cameriere che ci ha portato il conto? A proposito, ora lo pago.
Quando l’uomo fu andato via, Ady temette di essere stato troppo duro e riprese sorridendo:
– Io amo Jack perché lui mi fa le fusa e sembra contento di vedermi. Insomma lui mi offre la sua simpatia felina, quando ne ha voglia, ed io gli offro il mio affetto umano, quando lui ne ha voglia. In piena libertà. Il nostro è un rapporto tra uguali. Tu invece vorresti essere amato perché, mentre un gatto di tre anni è un adulto, un adolescente di sedici non è ancora un uomo. Caro Ettore, io posso offrirti la mia amicizia, ma da uomo a uomo, fra uguali, come con Jack.
Ettore si sorprese ad odiare anche il gatto. Tutti gli davano lezioni. E tuttavia quel lungo discorso l’aveva turbato.
– Non è che sia un’offerta entusiasmante, disse alla fine.
– Lo capisco, rispose placido Ady.
Ettore fu leggermente indignato da quella tranquillità. E protestò:
– Se ti rendi conto che l’offerta è scoraggiante, perché me la fai? O perché ti aspetti che io l’accetti?
– Perché per te è un’occasione di uscire dall’infanzia. Se accetti che l’amore si conquista, che non lo si ottiene solo perché si è “piccoli”, entrerai nel mondo com’è. Una volta un amico cieco al quale dicevo che tutti dovrebbero sentirsi in dovere di trattarlo con maggiore delicatezza mi rispose a muso duro: “No. La massima aspirazione di un cieco è quella di essere trattato da uguale”. Aveva ragione. Chi tratta un altro con particolare benevolenza lo reputa un debole e, per dirla tutta, un inferiore.
– Un figlio è dunque un inferiore?
– Un figlio è tale finché ha dodici-tredici anni. Poi, essendo capace di riprodursi, per la natura è un uomo. In natura l’adolescente non esiste. Non è vero che alla tua età si sogna di essere adulti? Bene, qui, salvo che dal punto di vista economico, ti si apre questa porta. E non sono soltanto vantaggi.
Ady guardò l’orologio. E anche Ettore guardò il suo.
– Concludo, disse Ady. Hai tempo per pensarci. Ma ti interesserai a ciò che racconto del mio lavoro? Cercherai di darmi il tuo consiglio? Io a mia volta mi interesserò delle tue vicende scolastiche, anche se occasionalmente dovessi trovarle noiose. Ti capiterà di volere che ti faccia un favore? Te lo farò, nella misura del possibile, ma tu andrai a fare la fila al mio posto, o al posto di tua madre, per fare una raccomandata. La famiglia è un’impresa comune. E la stessa amicizia è una gara di favori offerti, non di favori richiesti. Infine, credimi, anche tua madre sarebbe felice di sentire che ha in te un appoggio, e non più un bambino.
Ettore era intimamente lusingato, da queste immagini, ma non riusciva a non sentire paura. Quell’uomo sarebbe veramente divenuto un padre o avrebbe continuato a schiacciarlo?
– Non rispondere subito, disse Ady, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Anzi, non rispondere affatto. Lo vedremo tutti e due, in concreto, se questo nuovo rapporto funziona. Io spero di sì, e non tanto per te, che non amo ancora, quando per tua madre, che ne sarebbe felice e che merita già tutto l’amore tuo, mio e di chiunque la conosca.
Ettore chinò la testa, colpito al plesso solare da quella parola, “amore”, di cui sapeva di avere fin troppo bisogno. Ma di cui ora era chiamato a dimostrare di essere capace.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
14 marzo 2013

 

il patrignoultima modifica: 2015-01-11T15:02:15+01:00da gianni.pardo
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