ALTRI RACCONTI – INTERVISTA COL MAFIOSO

L’intervista che segue è del tutto immaginaria. Non solo l’autore non ha mai incontrato questo Nunzio Pulvirenti, personaggio di fantasia, ma sa pochissimo della mafia. Oltre a non aver letto libri, al riguardo, non ha neppure letto inchieste giornalistiche, non ha seguito dibattiti televisivi, ha perfino saltato gli articoli di giornale. L’argomento è troppo noioso. Dunque quella che segue è un’opera di pura fantasia letteraria.

____________

 

Alfredo Corlesi arrivò a Catania e la prima cosa che lo stupì fu l’aerostazione: nuova, funzionale e soprattutto immensa. Al confronto, quella di Stoccolma era tanto umile e familiare che sarebbe stato facile invertirle, nel ricordo. Si ha un bel dire, gli stereotipi sono immarcescibili. Anche ad ammettere che i catanesi l’avessero costruita in mezzo a mille pastette, a mille bustarelle e perfino pagando il pizzo, costituiva lo stesso un motivo di stupore. In fondo, anche negli altri paesi e negli altri tempi, non è che i lavori pubblici siano stati puliti e trasparenti: Pericle e Fidia furono accusati di essersi impossessati di una parte dell’oro che serviva per il Partenone.

La città, cui si arrivava attraverso superstrade urbane e viadotti, lo stupì per le sue dimensioni e per l’intensa vita che l’animava. Solo il traffico era non molto vivace, per l’eccellente ragione che le fermate e gli ingorghi erano più frequenti della circolazione normale. E pensò alla famosa battuta del film Johnny Stecchino: il problema della Sicilia? Il traffico.

Ma lui non era venuto per il traffico: era venuto per la mafia e disponeva di un’occasione d’oro. Suo fratello, penalista, aveva difeso a Brescia un delinquente catanese. Era riuscito a farlo assolvere – cosa che nessuno aveva osato sperare – e se ne era conquistata l’eterna gratitudine. Oltre a pagargli un lauto onorario, e ad inviargli paste di mandorla ogni Natale, questo individuo aveva in via del tutto eccezionale – e purché il testo fosse approvato prima della pubblicazione – ottenuto per Alfredo il rilascio di un’intervista da quel tale Nunzio Virrina, considerato il capo della delinquenza organizzata a Catania. Un’autorità.

– Lo chiamasse signor Pulvirenti, mi raccomando, aveva detto al giornalista.

– Non si chiama Virrina?

– Virrina un soprannome è. Lei non lo sa, che cos’è una virrina?

– Un diminutivo di Verre? azzardò il giornalista.

– Non lo so. Comunque, lei se deve fare un buco che fa?

– Prendo un trapano.

– E se non ha il trapano? E qui l’uomo si mise a fare il gesto di uno che avvita a fatica qualcosa.

– Ho capito, un succhiello! E perché lo chiamano succhiello?

– Perché è cuttuliddu, voglio dire piccolo, sembra buono, ma non si arrende mai. E gira, e gira, ed entra, e alla fine arriva più lontano di tutti. Non perché è mio cugino, ma Nunzio è veramente l’asso, nel suo ambiente.

Fu così che qualche giorno dopo, mentre sorseggiava un caffè nella Hall dell’Albergo Excelsior, fu avvicinato da un cameriere che gli disse: “Il signore è atteso all’esterno”. Poi lo accompagnò fino alla porta girevole e gli indicò una Uno bianca. Il giovane seduto al volante fumava con aria assente, guardando il cielo, ma vedendolo, si coricò quasi sul sedile di destra per aprirgli la portiera e gli intimò un secco “S’accomodi”. Che per lui doveva essere il sommo della cortesia.

“Chissà dove mi porterà, costui”, pensò Alfredo, ma fu sorpreso vedendo che l’automobile si limitò a fare il giro dell’isolato, sprofondando nel sotterraneo dell’albergo. L’autista gli fece abbandonare la Uno e lo fece salire su una Mercedes noleggiata: quello era il garage della Hertz.

“Potevamo andare con la sua”, disse Alfredo. “Ho avuto io stesso una Uno per anni”.

“Sì, disse il giovane. Ma lei ha mai temuto che le appiccicassero sotto la scocca un gps o come diavolo si chiama?”

Una volta fuori città, il giovane prese a guidare guardando più spesso nello specchietto retrovisore che la strada, e ogni tanto addirittura fermandosi per vedere se, dalla curva, spuntasse qualche automobile che avesse già visto. Nessuno li seguiva.

“Ma il signor Pulvirenti è latitante?”

“No, perché? Che ha fatto?”

“Lei ha preso mille precauzioni, perché nessuno ci seguisse. Come mai?”

Il giovane rise: “In primis, il signor Virrina non ha solo amici. E poi, chi lo dice che stamattina qualche giudice non s’è alzato col piede sbagliato?”

____________

 

Mezz’ora dopo, percorso un vialetto tra filari di viti, apparve una villetta civettuola e ben curata, con davanti una terrazza. Sotto il pergolato, un tavolo era quasi interamente coperto da un giornale aperto e, su una poltroncina di vimini, sedeva Virrina. Questi si alzò subito, cerimoniosamente, invitandolo ad occupare l’altra poltroncina e, riposto il giornale, gli chiese che cosa gradisse.  Concettina andò a fare un caffè e poi ci fu un momento di silenzio.

Nulla distingueva quell’uomo da un altro. Era effettivamente bassino, ma tanti siciliani lo sono. Era scuro di capelli e l’unica caratteristica inattesa erano i suoi miti occhi azzurri. Aveva l’aria di un gatto che non conta di aggredire e non teme di essere aggredito: solo la sua fama contrastava con quell’aura di anonimato, e quasi di insignificanza, che emanava.

– Lei mi voleva parlare, disse infine Pulvirenti. Deve scrivere il solito pezzo di colore sulla mafia, vero? Mi dispiace di non poterla aiutare come vorrei. Non ho neanche i baffi. M’avessero avvertito in tempo, me li sarei fatti crescere.

Alfredo rise e gli offrì una sigaretta:

– Non fumo, disse Virrina. Il fumo fa male.

– Ha ragione. Ed io dovrei smettere. Ci sto pensando. Ma… se mi consente, parliamo di male.

– Male di chi?

Alfredo rise ancora una volta. Quell’uomo aveva il senso dell’umorismo, e risultava ancora più comico in quanto aveva l’aria di parlare serissimamente.

– Vede, io non sono venuto a chiederle segreti che lei non mi potrebbe rivelare. Non sono venuto a chiederle di parlarmi della sua storia, di come è divenuto… diciamo una persona importante. E neanche a farle la morale. Sono venuto con uno scopo preciso, se lei me lo consente. Sono venuto a chiedere il suo punto di vista sulla realtà locale.

– Sulla mafia? chiese Virrina, con evidente ironia. Aveva pronunciato quella parola come se ne avesse paura.

– Le denominazioni non m’interessano. Io so chi è lei e tuttavia non le chiederò nulla di personale. Ecco il tema: secondo tutti la mafia, o delinquenza organizzata, o come vuole chiamarla, è un male della società. Ma ciò che è male per uno può non essere male per un altro. E di solito ognuno pensa di far bene, non di far male. Ha sentito parlare di Socrate?

– Ho solo la licenza media. Che c’entra Socrate?

– Lei mi dovrebbe spiegare come vede il problema. In particolare, se vuole, mi dovrebbe spiegare come un capo interpreta la propria attività in questo campo.

Nunzio lo contemplò per qualche secondo con sguardo incolore. Probabilmente si aspettava molte cose ma non questo approccio e per questo era divenuto guardingo. Allarmato no, ma era meglio essere chiari:

– Si spieghi meglio.

– Immagini che io sia un sergente dell’esercito. Ho delle reclute e loro pensano che le maltratto. Ma in realtà io non le maltratto: cerco di indurirle, di abituarle all’obbedienza, di farne dei soldati. Un capo, nel suo campo, come si rappresenta la propria attività? Per dirne una, come giustifica la sua richiesta del pizzo, condita con la minaccia che, se non è versato, un incendio può sempre scoppiare?

Virrina per la prima volta sorrise. E fu come se le nubi scomparissero dal cielo.

– Tutto qui! commentò scuotendo la testa. E lei viene da Brescia…

– Da Milano.

– Da Milano, per chiedermi questo! Finisca il suo caffè.

La pausa che seguì fece pensare al preludio di certe opere liriche: un’ouverture celestiale per poi parlare di odio, di assassini, di passioni travolgenti. Lì l’ouverture era il canto degli uccelli, una cicala lontana, lo stormire delle fronde, la quiete di quel quadretto agreste. Due amici, una tazzina di caffè ormai vuota, una conversazione pacata.

– Dev’essere chiaro che non parlo di me. Quello che dico lo dico perché conosco l’ambiente, e non è detto né che riguardi me né che corrisponda a me. Lei vuole solo una risposta teorica. Dico bene?

– Perfettamente.

Virrina si sistemò meglio nella poltrona, come chi ha molto da dire. Poi, mostrò i palmi di ambedue le mani, come per scodellare un’evidenza.

– Il capo, disse, non nasce capo. Diviene, capo, o sottocapo, o quello che sia, salendo gli scalini ad uno ad uno. Poi, se proprio arriva alla cima, ha solo da vedersela con i capi degli altri territori. Dunque, dal suo punto di vista, il suo primo problema non è quello che fa lui, è quello che fanno gli altri. Meglio o peggio di lui. E soprattutto sa che una cosa, se non la fa lui, la farà qualcun altro. È inutile che il leone si chieda se è giusto mangiare la gazzella: se non la mangia lui, la mangerà suo fratello. Mi spiego?

– Ma, mi scusi, se il capo non facesse pagare il pizzo, e nessun altro lo facesse pagare, non sarebbe meglio?

– Ovviamente. Ma il pizzo si paga. E quando il capo non è ancora un capo, arriva in un mondo in cui il pizzo già si paga. E dunque o lo pagano a lui o lo pagano ad un altro. E allora perché non a lui? Ché anzi, e qui vengo a parlare del buon capo, lui non chiede troppo, assicura una vera protezione dai cani sciolti, è rispettoso con i suoi clienti, vive e lascia vivere. E soprattutto non si sporca mai le mani. Anzi, cerca di non farle sporcare a nessuno.

– Ma un incendio può sempre scoppiare.

– Eh sì, qualche incendio può sempre scoppiare. E ogni tanto ci scappa il morto. Che vuol farci? Di delinquenza stiamo parlando. Lei m’ha chiesto come la vede il capo ed io le sto dicendo che la vede così: identifica un buon posto nella società e se l’appropria prima che se l’appropri un altro.

– Se dipendesse da lei, farebbe sparire la delinquenza organizzata?

– Certamente sì, affermò inaspettatamente Virrina. E per la seconda volta sorrise: lei m’attribuisce la capacità di prevalere e di guidare gli uomini, crede che non troverei un altro mestiere, un’altra buona collocazione, come dite voi persone colte?

Alfredo rimase pensieroso. Infine volle essere sicuro di avere capito bene.

– Riassumo. Io, capo, ho trovato una nicchia etologica, intendo, mi sono guadagnato una bella posizione e l’occupo cercando di fare il meglio per me stesso, per i miei soci e per i miei clienti. E per questo non ho scrupoli. Anche perché, se non ci fossi io, qui, ci sarebbe un altro. Probabilmente peggiore di me. Ho capito bene?

– Peffettamente, scappò detto a Virrina.

– Ma, mi scusi, le pare giusto che la gente prima paghi le tasse allo Stato, per avere i Carabinieri, e poi le paghi a lei, per non subire un malaugurato incendio?

– A me? sorrise Virrina.

– Va bene, al capo. E ai suoi accoliti. Le pare giusto?

– No che non è giusto. Lei ha mille volte ragione. La gente non dovrebbe pagare le tasse per i Carabinieri. Bastiamo noi.

Alfredo finalmente ritrovò la voglia di ridere e disse cordialmente a Nunzio:

– Lei non conosce bene Socrate, ma è un tizio che le sarebbe piaciuto. Parlando seriamente, lei mi sta dicendo che la colpa della situazione non è del picciotto, che nascendo trova il mondo com’è. Non è del capo, che in fondo è solo un picciotto più svelto degli altri. E non è neppure dei Carabinieri, che fanno il possibile. Ma il possibile non è molto. E allora di chi è la colpa, dello Stato?

– Lei sa che cos’è un reato di omissione?

Il giornalista rimase interdetto. Era laureato in economia e commercio e le sue conoscenze di diritto penale non erano gran che. Soprattutto era stupito che Virrina sapesse di cose del genere. Ma questi si dispose con pazienza alla spiegazione:

– Avevo un cognato che lavorava nella società del gas e una volta si dimenticò di chiudere un rubinetto, insomma di fare qualcosa che avrebbe dovuto fare, e una persona finì all’ospedale. Non aveva fatto male a nessuno, lui, solo che non aveva fatto quello che avrebbe dovuto fare. E il giudice lo condannò. Nello stesso modo lo Stato, che dovrebbe essere il più forte, che dovrebbe essere in grado di proteggere tutti e non ne è capace, è colpevole delle conseguenze. Noi invece siamo in grado di assicurare l’ordine. E allora i veri Carabinieri siamo noi e lo Stato è il primo mafioso, o comunque la vera origine della mafia. È lui che estorce le tasse per un servizio che poi non fornisce.

Alfredo era confuso ma anche divertito. Quell’omino era evidentemente nato nella stessa isola di Pirandello. Si alzò:

– Gliel’ho detto, Socrate le sarebbe piaciuto. Se mi permette le farò avere, via suo cugino, un dialogo di questo grande uomo. E domani il testo dell’intervista che conto di pubblicare.

– Lasci perdere. Mi fido. Lei è stato accolto come un amico e degli amici io sono abituato a fidarmi. La prego solo di non farmi passare per un cretino.

– Un cretino? Lei? Quella è una preghiera che dovrebbero rivolgermi molti politici.

– Lei è molto gentile. È che tutta la mia esperienza è concreta, disse umilmente Virrina, alzandosi a sua volta. Non è fatta di parole.

– E si vede, caro signor Pulvirenti. Si vede eccome, disse Alfredo.

Gianni Pardo, pardo.ilcannocchiale.it

2 settembre 2007 

ALTRI RACCONTI – INTERVISTA COL MAFIOSOultima modifica: 2012-07-22T13:50:00+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo