I DUE KUSSEWITZKIJ

Anatoly Kussewitzky era un emigrato russo, finito chissà come a Napoli. Aveva abbandonato l’Unione Sovietica negli Anni Quaranta, in occasione d’un concorso ginnico all’estero, e in quel paese non era mai più tornato. Col tempo aveva preso perfino la nazionalità italiana e nella sua famiglia nessuno conosceva il russo: la moglie non l’aveva mai voluto imparare e il figlio Andrea, in casa, non ne aveva mai sentito una parola. Anatoly tuttavia era rimasto profondamente russo: non solo nell’accento ma anche nell’amore per la sua patria perduta. Quando parlava di Saratov gli si inumidivano ancora gli occhi. E teneva a farlo sapere a tutti che era rimasto russo di cuore. Per questo, quando il figlio era cresciuto e l’aveva associato nell’impresa, aveva chiamato la società in nome collettivo Novaja Zemlja, che significava Nuova Terra: era venuto a vivere in una nuova terra, ma non dimenticava la vecchia.

La Novaja Zemlja vendeva forniture per impiantistica ed idraulica, ma l’hobby di Anatoly era quello delle invenzioni, tanto che aveva spinto Andrea, il figlio avuto quando già aveva quarant’anni, a divenire ingegnere e ricercatore universitario: chissà, forse un giorno avrebbe potuto aiutarlo da un punto di vista scientifico.

Ormai vedovo, vecchio e malandato in salute, Anatoly infatti non la smetteva con i suoi tentativi d’inventare qualcosa – magari piccoli modelli d’utilità – e Andrea vedeva la cosa come un’innocente mania. Ovviamente era sempre pronto a dargli una mano: suo padre lo meritava largamente, ma cominciava a temere che l’hobby gli avesse un po’ preso la mano. Profittando della propria età, Anatoly in effetti aveva deciso di passare al figlio la gestione del negozio, benché questi avrebbe meglio gradito una carriera universitaria. Di venderlo non si riuscì nemmeno a parlare, visto il dolore che s’era immediatamente letto negli occhi del vecchio. Andrea si rassegnò dunque a divenire negoziante e lasciò che il padre si occupasse a volontà di studiare i suoi beneamati rubinetti, le sue valvole miracolose, le sue resistenze per scaldabagni che non si sarebbero mai ricoperte di calcare.

Fu in questo periodo, mentre il figlio era in America per un lungo corso di studi specialistici (e per conseguire anche una laurea americana), che Anatoly ebbe per la prima volta un’intuizione assolutamente geniale: un modello di valvola che risolveva parecchi problemi che fino ad allora erano sembrati insolubili. Per giunta era facile da produrre e si sarebbe certo venduta in milioni di pezzi. Il modello fu chiamato ovviamente Rossìa e per non fare tornare il figlio dall’America Anatoly si fece aiutare da altri per ottenere il brevetto.

Ma proprio in quei mesi il vecchio russo si trovò ad affrontare un problema gravissimo. Il suo più grande debitore aveva dichiarato un imprevedibile fallimento e lui stesso, non potendo recuperare una grossa somma, s’era trovato a sua volta sull’orlo dell’insolvenza. Per questo, avendo sempre operato con capitale proprio e non essendo pratico di banche, aveva accettato la proposta del furbo Gilberto, il primo commesso del negozio che, col tono dell’amico che si sacrifica dando fondo a tutte le proprie economie, gli aveva proposto un contratto più o meno di questo genere: “Io le do subito il denaro per i fornitori e in seguito, a mia scelta, entro sei mesi, o lei mi restituirà il denaro con il cinque per cento d’interessi o io le darò ancora duecentomila euro e lei mi cederà il brevetto della valvola Rossìa. Se lei si rifiutasse di cedermelo dovrà pagarmi una penale di un milione di euro”. Il vecchio Anatoly aveva firmato il foglio che gli veniva proposto, aveva incassato il denaro, aveva ripianato i debiti e credeva d’aver fatto un buon affare.

Non ne parlò neppure, con Andrea: e questi, al ritorno, si sarebbe strappato i capelli. Ma come! Tutte le banche di Napoli sarebbero state felici di aiutarlo, lui era sulla piazza da decenni, mai un insoluto, mai un problema, era forse il miglior debitore della città, ed ora svendeva il prodotto dell’unico momento di genio della sua vita? Era rimbambito? Non poteva informarsi con qualcuno? Perché non gli aveva almeno telefonato? Il vecchio cercava di spiegare le proprie ragioni: “Voi tutti avete sempre sorriso delle mie invenzioni, che ne potevo sapere che questa era diversa? Tu sei ingegnere, io no. Magari avrò sbagliato, avrei dovuto aspettarti o avvertirti, ma ora che vuoi farci? Ho dato la mia parola e non tornerò indietro”.

Il fatto era che aveva dato ben più che la parola. L’enorme penale che il primo commesso gli aveva fatto accettare rendeva impossibile ogni ripensamento. Per la prima volta in vita sua Andrea s’era talmente arrabbiato col padre da chiamarlo “vecchio imbecille” e quando Anatoly, rendendosi finalmente conto dell’enorme errore fatto, invece di dargli uno schiaffo, come avrebbe fatto in anni lontani, s’era messo a piangere, Andrea gli aveva buttato le braccia al collo e gli aveva chiesto mille volte scusa. Sarebbero sopravvissuti. Gilberto però andava stato licenziato in tronco, il giorno dopo. Come poi avvenne.

Passarono un paio di mesi e nessuno parlò molto del brevetto. Né loro, che non volevano passare per sciocchi, né il commesso che rischiava una denuncia per circonvenzione d’incapace. Anzi, non che mostrarsi offeso per il licenziamento, diceva in giro d’averlo chiesto lui stesso perché intendeva mettersi in proprio. Cercava infatti di convincere le banche a finanziarlo, per pagare i duecentomila euro ai Kussewitzky e per creare un’industria che producesse e vendesse in tutto in mondo la Valvola Rossìa. E le cose non si mettevano neppure male, tanto evidente era il valore dell’invenzione

Andrea, che fino a quel momento l’aveva solo avuto antipatia, malgrado la stima che ne aveva il padre, ora lo odiava profondamente. Non solo per la perdita economica che gli avrebbe provocato, ma perché aveva ottenuto questo risultato raggirando un vecchio, tecnicamente geniale ma commercialmente sprovveduto. E si rodeva il fegato pensando che non poteva far nulla.

Le condizioni di salute del vecchio Anatoly, forse per i dispiaceri avuti in quei mesi, o forse perché era anziano e stanco, intanto peggioravano e Andrea capì che non l’avrebbe più avuto accanto per molto. Per questo lo assisté con infinito amore, soprattutto a partire dal momento in cui il vecchio non poté più alzarsi dal letto. Fece di tutto per fargli dimenticare l’invenzione e quando fu lo stesso Anatoly a parlarne chiedendogli scusa per averlo involontariamente depredato del frutto del suo unico momento di genio, Andrea s’era sciolto in lacrime e gli aveva detto che gli aveva regalato qualcosa di valore ancora maggiore, un tesoro inestimabile: un buon padre e un grande esempio. Che non dicesse mai più una cosa del genere, se non voleva lasciargli per sempre lo scrupolo d’avergli mancato di rispetto, se pure una sola volta nella vita. Il padre morì cinque giorni dopo.

Ormai bisognava guardare al futuro. I giorni passavano ed era costretto a pensare che presto, in obbedienza all’impegno preso dal suo cointestatario della società in nome collettivo, sarebbe stato costretto in quanto titolare ormai unico della Novaja Zemlja a firmare quel contratto capestro. La cosa gli faceva l’effetto dell’obbligo del condannato a morte di controfirmare la sentenza. Fra l’altro il commesso furbescamente s’era tenuta la porta aperta, dietro. Se, in seguito a più approfondita analisi, avesse deciso di non appropriarsi del brevetto, s’era concessa la facoltà di richiedere indietro il denaro già versato, più il cinque per cento. Al contrario, quella porta l’aveva ben chiusa dietro le spalle dei Kussewitzky: non avrebbero mai potuto pagare la penale. L’unico modo d’impedire a Gilberto d’optare per il brevetto sarebbe stata che morisse prima di poterlo fare. Ma era un sogno poco realistico: era giovane e in buona salute. Non andava neanche in motocicletta e non aveva nessuna voglia di suicidarsi. Soprattutto non ora che intravedeva un futuro molto roseo.

Ai primi di dicembre, mentre, anche per distrarsi un po’, si apprestava a partire per un convegno a Stoccolma, in negozio gli dissero che l’aveva più volte cercato Cardìa. Era costui un grosso cliente, pesantemente esposto nei confronti della Novaja Zemlja, ma col quale la collaborazione durava da decenni. Mai un insoluto, solo qualche occasionale ritardo nei pagamenti: un riferimento sicuro. Dunque, niente di strano che insistesse per parlare personalmente con lui. Ma la telefonata si rivelò diversa da tutte le altre. Cardìa era dolentissimo, proprio i Kussewitzky erano i colleghi che stimava di più, ma non poteva pagare le ultime tratte. Anzi che non ne avrebbe più pagate: era in stato d’insolvenza. Aveva portato i libri in Tribunale. Andrea, mentre faceva mentalmente il conto di quanto gli sarebbe costata la botta, era indignato.

– Ma caro Cardìa, lei non poteva dirmelo prima, che era al verde? Non poteva rifornirsi da qualcun altro, se sapeva che non avrebbe potuto pagarci? Che male le ha fatto, mio padre, che male le ho fatto, io, per imporci questa perdita?

Cardìa aveva fornito mille spiegazioni tecniche, aveva insistito ancora una volta che nessuno più di lui stimava i Kussewitzky, che lui era umiliatissimo, che si sarebbe venduto la camicia, per pagare almeno loro, degli altri non gl’importava nulla, e anzi…

Anzi gli chiese curiosamente d’incontrarlo, in piazza Plebiscito. Perché? Il perché Cardìa non volle assolutamente dirlo. Parlò, misteriosamente, di “dimostrargli la stima che aveva di lui e la stima che aveva avuto di suo padre ”.

La mattina seguente Cardìa spiegò che non aveva potuto dirgli per telefono la ragione dell’incontro perché temeva che il suo telefono fosse sorvegliato: la sua impresa s’avviava non solo al fallimento, ma ad una sicura bancarotta fraudolenta. Riprese a raccontargli con un mare di parole che aveva tentato in tutti i modi di salvare la sua impresa, anche imbrogliando, ma la bancarotta fraudolenta era incontestabile. E dire che lui non s’era messo in tasca un euro! Falliva veramente. Come imprenditore e come uomo. Non era “nu delinquente”, ripeteva per la centesima volta, era “nu fess”. Ma proprio perché i Kussewitzky non meritavano di perdere denaro per causa sua, era venuto a portargli l’unica cosa di cui disponesse, la sua carta oro, una credit card con cui avrebbe potuto spassasserla per qualche giorno, fino ad esaurimento del fido. Purché si presentasse come Cardìa. Avrebbe recuperato almeno una parte del credito.

Andrea aveva esitato ma nel dubbio aveva accettato il documento. Del resto, se ci avesse ripensato, avrebbe potuto restituirlo, disse. Neppure questo, rispondeva Cardìa, non poteva restituirlo, al massimo poteva buttarlo nella spazzatura, perché lui si sarebbe dato alla latitanza. Non facesse il fesso, dunque, ricuperasse quello che poteva. Infine era sparito nella folla dandogli un ultimo consiglio:

– Non s’insinui neppure nel fallimento. Spenderebbe i soldi per non prendere niente.

Andrea si ritrovò con una carta oro in mano e molti dubbi nella testa. Certo, con diecimila euro si può vivere qualche giorno da gran signore, ma usarla non è che fosse il massimo della legalità. Presentandosi a nome di un altro commetteva il reato di sostituzione di persona. Spendendo soldi che non sarebbero mai andati ai creditori commetteva il reato di partecipazione in bancarotta fraudolenta. E forse ce n’era qualche altro. Ma era bello che Cardìa non gli pagasse il suo debito, che la legge permettesse tanti imbrogli e tanti insoluti, nel commercio?

Fu a questo punto che si mise a ripensare ad un suo problema di gioventù, quando ancora si chiedeva se iscriversi in lettere o in ingegneria.

Se i principi morali fossero di origine metafisica, si diceva allora, cioè rivelati direttamente da Dio, sarebbero dispen­sati dall’essere utili a chi li segue. Presso gli Ebrei uccidere non era lecito ma Dio aveva ordinato ad Abramo di sacrifica­re Isacco e tanto bastava. Se invece la morale non ha alla sua base l’ordine di Dio, si pone il problema della sua giustificazione. Una giusti­ficazione che dovrà essere logica, intrinseca e terrestre.

La ricerca di questa seconda giustificazione cominciava dalla constatazione che la società predica virtù che non pratica. E del resto anche l’individuo, opponendo ipocrisia ad ipocrisia, predica anch’egli le virtù ma segue pressoché costantemente la via del proprio interesse. E in fondo, mancando una base metafisica all’imperativo morale, coloro che fanno il proprio interesse – sia la società sia l’individuo – sono assolutamente razionali. L’unico limite realmente invalicabile è l’in­teresse altrui, ma non per generosità: perché gli altri potrebbero reagire e questo impedirebbe di avere i migliori risultati. Insomma il principio dell’interesse andava corretto così: “Fa’ sempre il tuo interesse, ma fallo con intelligenza, in modo da avere rendere le massime le utilità e minimi gli incon­venienti”. A titolo d’esempio: “Menti raramente, in modo da essere creduto quando lo farai”. Il che, di fatto, spingeva ad avere un comportamento non dissimile da quello che si sarebbe avuto praticando la virtù.

Rimaneva tuttavia un punto essenziale: dal momento che l’unico punto di riferimento era l’interesse, bisognava tenere conto anche di quello di vivere serenamente, con la coscienza tranquilla. “Forse non sarò un ladro, si diceva Andrea. Ma questo perché vivrò più tranquillamente da ingegnere che da ladro”. Se tuttavia un individuo è sicuro di non avere neppure problemi di coscienza, non ha nessun motivo per non rubare, non ferire, non uccidere. Basta che sia ragionevolmente sicuro che non me gliene verrà nessun male.

 Per l’omicidio le cose erano ancor più complicate. Questioni di coscienza a parte, per avere la ragionevole certezza di farla franca si spendono tesori di calcolo, prudenza e intelli­genza e tuttavia l’uomo intel­ligente si rende conto che, anche se molto frequentemente il colpevole di un delitto non è scoperto, è anche vero che è quasi impossibile progettare il delitto perfetto. Quanti film polizieschi non svolgono un teorema per il quale il delitto meglio programmato viene poi scoperto per un particolare insignificante, una stupi­daggine che va storta? Nella realtà magari quel genere di vicenda è assolutamente improbabile, ma non si può totalmente escludere. E tanto basta all’uomo intelligente per non correre il rischio. Ecco perché Gilberto poteva dormire sonni tranquilli. Andrea non l’avrebbe ucciso. Al contrario, per la carta oro, molti elementi lo spingevano ad accettare il regalo.

In primo luogo, Cardìa sarebbe stato latitante, dunque non ci sarebbe stata la possibilità d’affermare che non era nel posto in cui sarebbero stati spesi i soldi del documento di credito. Inoltre, era un amico ed avrebbe sempre avuto interesse a tenere la bocca chiusa. Quanto a lui stesso, nessuno avrebbe notato la sua assenza: non sapevano tutti, da tempo, che doveva andare a Stoccolma?

A questo punto ebbe un’idea. Comprò delle cartoline illustrate d’argomento non specifico (mazzi di fiori, bei cani, panorami montani), avendo cura di sceglierle fra quelle prodotte in paesi come Taiwan, le compilò e le inviò ad un caro collega americano, grande viveur, pregandolo di spedirle da Stoccolma. In modo che la sua scappatella con l’amante fosse coperta e la moglie napoletana (inesistente, ma l’americano non lo sapeva) potesse realmente credere che era a Stoccolma. Infine, sistemate le cose come al solito, partì per una settimana bianca a Cortina. Qui si registrò come Cardìa, allegando d’aver smarrito i documenti e, visto che pagava una settimana in anticipo, l’albergatore si contentò, oltre al nome riportato sulla card,  dei dati che gli dettò.

Da quel giorno cominciò a vivere come non aveva mai vissuto. Aveva solo il problema di spendere il massimo piuttosto che di spendere bene. Per questo si mise a comprare anche oggetti assurdi come dei gemelli d’oro, lui che non portava mai camicie con quel genere di polsini, una grattugia elettrica, un coltello a serramanico decorato con madreperla, solo perché gliene erano piaciuti i riflessi, un nuovo, completo equipaggiamento per sciare – cosa che faceva religiosamente ogni giorno, per parecchie ore, anche permettendosi qualche fuori pista – e infine libri, liquori, e perfino un’altra valigia in cui mettere tutto il ben di Dio che andava accumulando. Ovviamente pranzava e cenava in ottimi ristoranti: sembrava Alì Babà nella grotta dei ladroni. L’unico problema era che non era sicuro di riuscire a spendere tutto nel tempo che s’era prefissato. E prima che la polizia si desse a cercare Cardìa.

La brutta sorpresa l’ebbe il quarto giorno quando, uscito di sera per andare a trovare, se possibile, un nuovo ristorante, vide Gilberto. Era insieme ad una ragazza e sembrava divertirsi un mondo. Il farabutto aveva cominciato a beneficiare di già dei crediti delle banche e in previsione del completamento delle procedure se la godeva già, ecco la spiegazione!

L’odio che aveva cercato in tutti i modi di tenere a freno, e quasi di dimenticare, lo faceva avvampare. Era costretto a rivivere quella brutta vicenda e a ricordare che fra un mese e mezzo l’attendeva l’umiliazione di firmare la sua capitolazione. Questo gli avvelenava il piacere di quelle vacanze insolite. Ma che poteva fare? Da quel momento, come un bambino che gioca con una spada di legno, cominciò ad andare in giro col coltello a serramanico in tasca. Sognava di quel delitto perfetto che la sua morale gli avrebbe permesso di commettere ma di cui non aveva nessun piano e nessuna occasione. Anche se l’aveva seguito fino a scoprire dove alloggiava, a che cosa poteva servirgli? Lui che aveva dissertato del delitto che nessuno scoprirà mai, che doveva fare, pugnalarlo per la strada, dinanzi a tutti? E a che gli sarebbe servito?

Eppure il sogno di quell’omicidio diveniva importuno. Gl’impediva di prendere sonno.  Nel buio ricapitolava gli elementi del problema. Dato positivo, Andrea Kussewitzky  era a Stoccolma, per tutti: a Cortina c’era Cardìa. E l’eliminazione di Gilberto era l’unico modo per ritornare in possesso del brevetto e della ricchezza. Morto lui, chi avrebbe potuto esercitare quella facoltà d’acquisto del brevetto, soprattutto nel tempo previsto? Certo, Andrea avrebbe ripagato agli eredi il debito, avrebbe anche partecipato all’eventuale funerale, ma bisognava che il capo commesso morisse… E poi c’era il dato negativo che azzerava tutto: come sbarazzarsi di lui? Il castello di sogni crollava prima d’essere costruito.

Il giorno dopo tuttavia, visto che non riusciva che a pensare a lui, invece d’andare direttamente a sciare, senza neanche sapere a quale scopo, l’aspettò fuori dall’albergo, deciso a seguirlo. Alle nove e dieci lo vide uscire, vestito anche lui da montagna e con gli sci sulle spalle. Grazie al cielo era solo: la ragazza evidentemente era rimasta in albergo. Lo seguì mentre si recava all’impianto di risalita e ancora e ancora, senza essere notato, visto che l’altro mai e poi mai avrebbe pensato che qualcuno potesse pedinarlo. A Cortina, poi, dove nessuno lo conosceva.

Giunti in cima l’uomo, eccellente sciatore e conoscitore dei luoghi, si dette a scendere fuori pista e Andrea, se pure con qualche difficoltà, gli stette dietro. Sembrava fosse costretto a seguirlo e fu così che inaspettatamente si presentò l’occasione d’oro.  Quando l’altro si fermò su uno spuntone di roccia a guardare il panorama Andrea, dopo aver visto che non c’era nessuno in vista, col cuore in subbuglio e senza nemmeno sapere se alla fine avrebbe avuto il coraggio di agire, decise d’attaccarlo. Sorpreso dal rumore della fermata brusca sulla neve, Gilberto si voltò e Andrea, come un automa, gli vibrò una coltellata al cuore, con quanta forza aveva in corpo.  Ma, per quanto infinitamente sorpreso, l’aggredito ebbe un istintivo e brusco movimento di difesa, tanto che il coltello, piuttosto che ucciderlo, gli ferì il braccio. Se la cosa fosse avvenuta altrove, quell’aggressione non gli sarebbe costata molto: ma era sull’orlo dello strapiombo e il movimento all’indietro che aveva fatto per evitare il colpo gli fu lo stesso fatale. Cadde giù con un grido e un secondo o due dopo fu di nuovo il silenzio.

Fu di nuovo il silenzio e la calma inverosimile d’un giorno di sole e senza vento, su quella distesa candida. Con le cime degli alberi ferme e scolpite contro il blu del cielo come in una cartolina illustrata. Tutto parlava di pace e Andrea al contrario era così turbato da non sapere se stesse veramente vivendo quel momento o se fosse solo un incubo. Poi si riprese: guardò ancora in giro e controllò che nessuno fosse in vista, fin dove arrivava lo sguardo. Raccolse la neve su cui era caduto un po’ di sangue e la gettò di sotto, perché non rimanesse traccia di nulla. Purtroppo rimanevano le tracce delle due paia di sci ma non poteva farci nulla. E poi aveva sentito dire che il tempo stava per guastarsi. Se solo fosse nevicato… Ma era inutile stare a dire cose del genere. Sarebbe andata come sarebbe andata.

Sotterrò il coltello a chilometri di distanza sia dal luogo de delitto sia da Cortina. Nessuno l’avrebbe mai trovato. Comunque, nessuno che potesse metterlo in relazione con quel delitto. Infine tornò in paese ed entrò in albergo come un sonnambulo. Al chiuso s’accorse d’essere ancor più sconvolto che immediatamente dopo il fatto. Rifletteva più freddamente ed era sbalordito in primo luogo dalla propria stupidità, dalla propria brutale violenza. Lui, che aveva tanto parlato di delitto perfetto, di delitto che nessuno poteva scoprire, che razza di crimine aveva commesso? Per quanto improbabile fosse la cosa, Gilberto poteva anche essere vivo, laggiù. E l’aveva visto in faccia. Certo, avrebbe parlato d’un Kussewitzky che non risultava essere a Cortina. Ma lo stesso l’accusa sarebbe bastata per farlo arrestare. Si sarebbe scoperto che non era andato a Stoccolma…

E poi, come aveva potuto essere tanto sciocco da sperare che, chissà perché, l commesso non s’accorgesse d’essere aggredito, che potesse colpirlo senza che il rumore della frenata sugli sci, in un giorno così calmo e senza vento, l’avvertisse? Per fortuna era caduto! Insomma, doveva ammettere che aveva ucciso, se veramente aveva ucciso, come un cretino: senza la certezza di portare a compimento la cosa, solo perché non c’erano testimoni intorno. Se l’uomo era solo ferito, e ancora abbastanza vivo da denunciarlo, era fregato. Gli sarebbe mancato un alibi. Anzi, peggio di così: si sarebbe pensato che tutte le sue manovre per far credere che era a Stoccolma fossero preordinate al delitto. Dunque, omicidio premeditato. Ergastolo. E lui era quello dell’omicidio perfetto?

Il giorno dopo, già nella hall dell’albergo, sentì parlare della strana morte d’un tale Gilberto Perizzi e sentì in cuore una tale felicità che si sarebbe messo a baciare tutti. Dovette voltarsi e andarsene perché nessuno s’accorgesse che accoglieva una notizia tragica con un irrefrenabile sorriso di contentezza. Andò a celebrare con un secondo caffè e dando una mancia regale al cameriere del banco. Questi lo ringraziò con occhi stupiti ma non troppo, nei posti di villeggiatura di eccentrici non c’è penuria.

Mezz’ora dopo, calmatosi, andò a parlare con l’albergatore e gli disse che doveva tornare a Milano perché era morta sua madre. Gli rimanevano ancora due giorni pagati, ma il proprietario, vedendo la faccia di funerale che nel frattempo aveva recuperata, gli credette immediatamente. Tanto che gli restituì l’importo dei due giorni pagati e gli offrì le sue condoglianze.

Per riabituarsi a guardare in faccia il prossimo, prima di lasciare la città, s’impose di fare ancora qualche acquisto e infine andò a spendere il residuo denaro a Treviso. Due giorni dopo, a Napoli, passò in farmacia per comprare antipiretici, un termometro e tutto quello che poteva far pensare ad un’influenza e in un supermercato prese tutto quello che gli poteva servire per tre giorni. Infine si chiuse in casa. Telefonò agli impiegati che era rientrato e che sarebbe andato in negozio al più presto: ma potevano contattarlo per telefono. Perché aveva la voce così abbattuta? Loro aveva provato ad avere l’influenza e la febbre a trentanove?

Tutto sistemato. Tutto sistemato, ma non con se stesso, perché non riusciva a pensare ad altro. Si svegliava più volte, senza ragione, la notte, e definitivamente tra le quattro e le cinque del mattino. Per poi magari morire di sonno a mezzogiorno. La televisione e i giornali del resto, visto che era stata una morte pittoresca, non smettevano di parlarne e ci ricamavano su ogni giorno. Da principio avevano descritto un suicidio con gli sci, saltando come nelle gare di trampolino. Solo che qui non c’era trampolino. Poi si erano appassionati al côté sentimentale, ed avevano ovviamente attribuito il suicidio agli screzi con la ragazza. La sera prima i due avevano litigato, ecco la spiegazione di tutto! La ragazza ripeteva che non era successo niente di grave, che loro si amavano, che lei non credeva affatto al suicidio, ma i giornalisti sembravano saperne più di lei. Altri fecero ipotesi più concrete: aveva forse problemi di lavoro? Certo, era stato licenziato: ma era avvenuto un paio di mesi prima e comunque non si poteva certo dire che facesse la fame, se si poteva permettere d’andare a Cortina…

I giorni passavano e i mezzi di comunicazione di massa – maledetti! – non smettevano d’occuparsi di quel morto. Quando nel mondo c’è un terremoto, una guerra, un attentato, un incidente aereo in cui muoiono duecento persone, si parla di quello. Diversamente si riciclano le notizie già date, facendo finta che ci siano grandi novità. Per il Perizzi tuttavia un paio di giorno dopo ci fu veramente, una novità importante: la polizia comunicò che il corpo presentava, su un braccio, una ferita difficilmente compatibile con gli effetti della caduta: un taglio. Dunque era impossibile che la causa della morte fosse la volontà di suicidarsi. E se era stato accoltellato, si chiedevano ora i giornali, chi era stato a ferirlo? Non poteva essere che si fosse procurato il taglio nella caduta? insistevano quelli della tesi del suicidio. Il Perizzi – notavano – era uscito da solo, nessuno l’aveva visto in compagnia di qualcuno e la successiva nevicata aveva anche cancellato le eventuali impronte: non si sapeva nemmeno da dove fosse caduto. Inoltre, facevano notare quelli che propendevano per il suicidio, sul corpo del Perizzi non c’era assolutamente alcun segno di colluttazione. E tuttavia, facevano notare gli altri, se fosse stato spinto giù improvvisamente, che segni ci potevano essere? E si sarebbe fermato su uno strapiombo con il suo assassino? O è che se ne fidava perché era un amico? Ma a Cortina comunque non si trovò nessuno che lo conoscesse tranne la ragazza. E costei, per concorde testimonianza degli addetti dell’albergo, quella mattina era rimasta in città. La polizia, come si dice in questi casi, “non escludeva nessuna ipotesi”: in realtà brancolava nel buio e procedeva con la solita routine, indagando sul suo passato. Risultò che Gilberto non era simpatico a molti, ma niente peggio della media. Quanto ad Andrea, i poliziotti si fermarono alle dichiarazioni dei commessi del negozio. Appresero perfino, per caso, che aveva spedito cartoline da Stoccolma, nei giorni dell’omicidio, e dunque non ebbero nessun dubbio. La notizia lasciò le prime pagine, poi passò a quelle interne, infine sparì.

Il titolare del negozio ricominciò ad essere regolarmente presente e infine, messosi in contatto con gli eredi, ripagò il debito del padre. Col cinque per cento d’interessi e sentendosi molto ringraziare per la sua disponibilità.

Del delitto non si parlava più ma Andrea non l’aveva metabolizzato. Ammetteva anzi che, se fosse stato da rifare, non l’avrebbe rifatto. Ci vollero mesi perché potesse riprendere a dormire normalmente e non pensare all’omicidio venti volte al giorno. Ma alla fine ci riuscì. Dopo sei mesi, era come se il primo commesso non fosse mai esistito.

 

Il tempo prese a scorrere nella solita maniera sorniona. E per il verso giusto. Cardìa, quando uscì dal carcere, riaprì l’impresa. Essendo fallito lo fece a nome della moglie, ma tutto riprese come prima. Ricominciò a comprare merce da Kussewitzky e dell’episodio della credit card, un insoluto perso fra mille altri, non parlò mai più. Una sola volta Cardìa gli disse, ridendo: “Sono andato in galera per bancarotta fraudolenta e non ci ho guadagnato una lira. L’unica distrazione di fondi di cui sono colpevole è quella credit card che detti a te ma, in fondo, era solo un modo per pagare una parte del mio debito. Insomma, sono finito in bancarotta perché ero un fesso. Oggi non mi succederebbe più”.

Andrea creò uno stabilimento ad Ottaviano, non lontano da Napoli, e il brevetto della valvola fruttò molto denaro per parecchi anni. Quando infine si capì che sarebbe stato superato da altri ritrovati, Andrea fu lesto ad acquistare altri brevetti, tanto che la Hydor S.p.A. rimase un’impresa leader, nel campo dei prodotti idraulici per l’edilizia e l’impiantistica. Suo padre non avrebbe creduto ai suoi occhi, se avesse potuto vedere dove era arrivato, partendo dal negozietto di Napoli. Era un imprenditore eminente e soprattutto ciò che gli anglosassoni chiamano un law abiding citizen: un pilastro della società. Un uomo di cui non si sarebbe facilmente creduto che fosse capace di rendersi colpevole d’una sosta vietata.

Non minore era il suo successo personale. S’era sposato con la figlia di un notaio, donna che accoppiava ad un bell’aspetto un solidissimo buon senso, aveva avuto dei figli che per giunta s’erano rivelati dei bravissimi ragazzi e la sua famiglia era un’oasi di pace. Da dieci faceva parte del Rotary e da due anni aveva comprato una villa non lontano da Gaeta.

Il passato pareva interamente morto ma si fece vivo, inaspettatamente, un giorno che dovette andare da solo nella villa di Gaeta. Alcuni vicini avevano visto uscire acqua da sotto la porta che conduceva nel giardino e l’avevano avvertito che doveva essersi rotta una tubazione. Che stupidaggine, non aver chiuso il rubinetto generale. Comunque non rimaneva che andarci a rotta di collo. La ricerca dell’idraulico (il padrone della Hydor poteva ridursi a cercare un idraulico!) e il tempo della riparazione l’avevano indotto a fare tardi e per questo decise di non tornare a Napoli immediatamente. Telefonò a casa e andò a dormire nel grande letto matrimoniale, con la compagnia della televisione. Non la guardò a lungo, tuttavia: rischiava più d’indignarsi che di divertirsi. Provò allora a leggere il “Mattino” che aveva comprato la mattina, ma anche la lettura non lo catturava. I soliti problemi internazionali, il solito cortile politico, le solite beghe cittadine. Per fortuna aveva la buona abitudine di dormire per molte ore, di “ricaricare le batterie”, come diceva con poca originalità, e per questo alle undici di sera spense la luce, addormentandosi quasi subito.

Per lui, il mondo e lui stesso cessarono d’esistere. Poi, in piena notte, nel totale silenzio della campagna, nel buio totale della stanza in cui si stagliava il rettangolo della finestra, fu come se si spalancasse l’inferno.

Gilberto era lì, sul ciglio del burrone, ferito al braccio, ma stavolta non cadeva affatto e lo guardava con occhi carichi di disprezzo:

– Assassino, gli diceva. Assassino. Assassino! Come osi ingannare tutto il mondo, come osi essere felice seduto sulla mia tomba? Come osi vivere come se non m’avessi ucciso, come se non fossi un assassino? È passato tanto tempo e gli altri ignorano tutto. Ma tu ed io sappiamo la verità. È una verità che non puoi cambiare. Sei un assassino. Assassino, assassino…

Il terreno gli franò sotto i piedi e cadde all’indietro, nel baratro. I suoi occhi però non smettevano di guardare Andrea quasi fossero rimasti lì, sospesi a mezz’aria, mentre il corpo rimbalzava sempre più giù, con un rumore d’inferno, spezzando rami e sradicando alberi.

Andrea si trovò improvvisamente seduto sul letto, con gli occhi sbarrati, sudato e terrorizzato. Non osava neppure respirare. Temeva che Gilberto l’accoltellasse a sua volta… ma no, era un sogno, si disse accendendo la luce.

Un sogno? Lui era spaventato come lo si può essere solo nella realtà, quando si è atterriti da un pericolo vero. Il cuore continuava a battergli in petto, disordinatamente, fino a farlo sentire male. Si guardò intorno: tutto tranquillo e silenzioso. E tuttavia l’emozione prevaleva sulla realtà. In quel momento il delitto non era un fatto lontano, quasi dimenticato al punto d’essere divenuto inverosimile: era qualcosa d’attuale, di palpitante, di nuovo. Era appena avvenuto e il grido di Gilberto mentre cadeva gli rintronava ancora nelle orecchie.

Gli ci volle del tempo per riprendersi. Intellettualmente tutto era stato immediatamente risolto – chi può dare importanza ai sogni? – ma emotivamente era diverso. Per questo s’impose di riportarsi alla normalità andando ad orinare, facendosi un caffè, interessandosi persino ad una lezione di chimica che una televisione trasmetteva in piena notte. Ma non ci riusciva gran che. Spense la televisione e per eliminare quel silenzio di morte andò ad infilare nell’apparecchio il primo CD che gli capitò sotto mano, la Holberg Suite di Grieg.  Musica bellissima. Ma troppo triste. Vinse la pigrizia ed andò a sostituirlo con un disco di Brandeburghesi di Bach: una musica solare, una musica che parlava di una realtà razionale e serena.

No, non c’era modo d’evitare il confronto con le emozioni di quella notte. Alcuni sogni hanno un’evidenza talmente insolente che è impossibile disfarsene con un’alzata di spalle. È come se si ricevesse un messaggio in codice che è indispensabile, urgente decifrare. Doveva sistemare più seriamente quell’esperienza. “Dunque, ricominciamo da capo”, si disse.

In primo luogo, non era abbastanza primitivo per pensare che quella fosse una visita di Gilberto. I morti sono morti e non tornano mai. Su questo non ci potevano essere dubbi. Il problema era un altro: ammettendo che fosse il suo subconscio, ad inviargli il messaggio, che cosa voleva dirgli, ripetendo ancora e ancora la parola “assassino”? Gli rimproverava evidentemente d’aver per troppo tempo dimenticato di esserlo: e in questo aveva certamente ragione. Indubbiamente, dal punto di vista della realtà, se assassino è colui che ha ucciso un altro uomo, lui, Andrea, era un assassino. Ma c’era un secondo significato, da tenere presente: assassino è colui che è considerato tale. E allora lui non lo era.

Lui aveva potuto dimenticare il suo crimine dal giorno dopo quello in cui l’aveva commesso. Non solo, da oltre vent’anni, non era neppure sospettato d’omicidio, ma era considerato da tutti un perfetto galantuomo. Era anzi inserito in un mondo in cui era inconcepibile dare uno schiaffo ai figli, parcheggiare dinanzi ad un passo carrabile, bestemmiare in presenza di suore. Andrea Kussewitzky era una persona per bene. Al contrario, l’innocente condannato per omicidio sarà considerato un assassino in carcere, sarà considerato un assassino se ottiene qualche giorno di permesso dal carcere, sarà considerato un assassino anche vent’anni dopo, quando avrà finito di scontare la pena. Si proclamerà innocente? Ma tutti si proclamano innocenti, si sa. Lui è un assassino.

Stanotte tuttavia, dinanzi all’evidenza del suo crimine, si sentiva un bugiardo e un imbroglione. Quel criminale che era stato tanti anni prima, a Cortina. Forse avrebbe dovuto essere ancora in carcere. Ma la detenzione, insegnano i libri di diritto, persegue due finalità: la prima, tenere fuori dal consorzio sociale una persona pericolosa. E lui non era pericoloso per nessuno. La seconda è l’espiazione e il recupero morale del condannato. Quanto al recupero del condannato, nel suo caso non c’erano dubbi: l’ing. Andrea Kussewitzky era un modello di cittadino, un onesto contribuente, un law abiding citizen e persino di benefattore, nell’ambito delle iniziative del Rotary. Nessuno avrebbe potuto chiedere di meglio.

Rimaneva la mancata espiazione. Sì, doveva ammetterlo. Non solo non aveva espiato ma non si era neppure pentito. Gilberto era stato una canaglia, uno che aveva approfittato dell’ingenuità d’un povero vecchio per rubargli il frutto della sua genialità. Di quell’unica idea che, in tanti anni, avrebbe potuto dargli la ricchezza che non aveva mai raggiunto. Quel vecchio gli aveva offerto un lavoro, l’aveva trattato quasi come un figlio, ed era stato ripagato così. Ma anche chi uccide una canaglia deve espiare. A meno che… A meno che,  cercò di convincersi, un Tribunale Superiore non giudicasse che al furto di un brevetto era corrisposto il furto di una vita. Quasi una legittima difesa fra ladri.

E comunque, se pure nel modo più maldestro, aveva commesso un delitto perfetto. Non gli rimaneva che goderne i frutti.

Erano ormai le quattro del mattino e la bottiglia di cognac, succeduta per fargli compagnia al primo caffè, era già a tre quarti. Forse due terzi? Certo è che tutto quell’alcool e tutto quel pensare cominciavano a dargli sonno. Dormire, forse sognare, diceva Amleto. E se, addormentandosi, fosse ricominciato l’incubo? Ma no, ma no. Se avesse sognato di nuovo Gilberto, si disse con un sorriso cattivo, l’avrebbe buttato giù prima che avesse il tempo di parlare. A questo punto, sorridendo del proprio coraggio e del proprio quieto immoralismo, si dispose a dormire di nuovo.

Il giorno dopo, alle nove e cinque, l’ing. Andrea Kussewitzky era in auto, diretto a Napoli. La radio, per caso, trasmetteva la Holberg Suite di Grieg ma, nel pieno sole della Campania, sembrava più romantica che triste.

Catania, 15 gennaio 2004

I DUE KUSSEWITZKIJultima modifica: 2012-07-22T13:17:00+02:00da gianni.pardo
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