L’AVVENTURA DI UN MATTINO

L’AVVENTURA DI UN MATTINO

Una mattina dolce, come tante altre, nel solito quadro. Sto a letto, con le gambe distese e il “trabiccolo”, come lo chiamo, mi porta poco sopra le ginocchia la tastiera e il monitor del computer. La stanza è invasa come sempre dalla musica che una fata benevola, Radioswissclassic, mi invia in alta fedeltà e limitandosi – che Dio la benedica – ad annunciare i brani trasmessi. Accanto al monitor mi tiene compagnia una gran tazza di tè English Breakfast ed è uno dei momenti più belli della giornata: sto scrivendo un articolo. Le mie mani battono veloci, al margine del campo visivo, e mi godo le idee che si allineano sullo schermo. È il momento della spensieratezza. Poi verrà il momento delle correzioni, quello in cui mi accorgerò di avere scritto troppo, in cui comincerò a vedere le ripetizioni, le goffaggini. E ci sarà la prima rilettura, e poi la seconda, e poi la terza… Anche questa è una bella attività, anche se tormentosa.

Stamani la pace è stata interrotta da una botta secca e forte contro il vetro del balcone. Altre volte il colpevole, un uccello, è volato via, immagino piuttosto ammaccato e stramaledicendo Ermelinda, la nostra collaboratrice, che è tanto brava, nel pulire i vetri, da renderli forse invisibili ai poveri pennuti. Ermelinda è una persona intelligente, oltre che una donna molto attraente, e avrebbe meritato una sorte migliore, soprattutto avrebbe meritato di studiare fino all’università e oltre. Ma questo gli uccellini non possono saperlo: per loro è un’involontaria nemica che può condurre a tragedie come quella di oggi.

Infatti il volatile che ha sbattuto contro il vetro, fino a lasciarci appiccicate alcune piccolissime penne, è stato un passero non ancora del tutto adulto che dopo l’urto è caduto sul balcone, zampe all’aria, perfettamente immobile. Stecchito. “Si è rotto l’osso del collo”, ho detto alla mia donna amata – che altri chiamano mia moglie – quando è venuta nella mia stanza. “E non possiamo fare nulla, per lui”. “Poverino”, ha detto lei, senza riuscire a staccare gli occhi da quell’esserino che fino a poco prima sfrecciava nell’aria. Ogni tanto la coda aveva qualche piccolo fremito: movimenti di vita residua, li chiamano i medici legali.

Abbiamo girato il “trabiccolo” e mia moglie si è seduta dinanzi allo schermo. Prima una lunga lettura silenziosa, interrotta dalla correzione di qualche errore di battitura, poi una seconda lettura, infine le critiche: “L’articolo mi piace ma qui hai usato tre volte lo stesso aggettivo nello stesso paragrafo”. “Questo concetto l’hai già espresso prima”. “Qui sembra che ci sia un salto logico” e infine, come sempre: “Fammelo rileggere, prima di pubblicarlo. Distratto come sei…!”

Ogni tanto volgevamo lo sguardo verso il balcone e il cadavere dell’uccellino era sempre lì. Pochi grammi di quaresimale sulla fragilità della nostra esistenza. Io penso al dolore che darò, lasciandola sola, lei pensa a proteggermi da qualunque pericolo e si consola come può: “Non sempre muore il più vecchio…” Infine mi ha riconsegnato computer e testo perché procedessi alle correzioni tenendo conto dei suggerimenti ed è andata via.

Questo è il momento dei sinonimi, del tormento della punteggiatura, della politura. Entrando per caso, tempo dopo, mia moglie mi ha sorpreso: “Il tuo cadavere s’è rimesso sulle zampe!” Effettivamente, mentre non lo guardavamo il passero s’era ripreso a sufficienza per non stare riverso. Ora era accucciato e immobile, volto verso l’interno della casa, come un piccolo questuante. Ma che potevamo dargli?

Sono passato ad altre occupazioni – i testi devono “riposare”, prima di essere ripresi – volgendo ogni tanto lo sguardo al piccolo ferito, immobile come una sagoma. Finché ho creduto di percepire un movimento della testolina. Forse mi sbagliavo. Ma tempo dopo ho notato che il becco sporgeva di più: sicuramente aveva girato un po’ la testa. Da quel momento l’ho guardato abbastanza spesso e i movimenti della testa sono divenuti più frequenti. Ho chiamato mia moglie, per farglieli vedere, e poco dopo è capitato che volgesse il capino a destra e a manca, a destra e a manca. “Si prende per Obama, il piccolo”. “Non si è dunque rotto l’osso del collo”, ha detto lei. “Sì, ma rischia di morire di freddo o di fame. È lì da ore. Forse dovremmo prenderlo e metterlo dentro, qui almeno c’è il riscaldamento”. “Dentro no! Gli uccelli defecano continuamente. Gli potrei mettere del cotone idrofilo sotto le zampette”. “In primo luogo, le loro zampe quasi non hanno carne, non è lì che soffrono il freddo. E poi, volendolo prendere, forse farebbe l’impossibile per scappare, magari cadendo dal balcone… Purtroppo neanche un veterinario potrebbe essergli d’aiuto. È troppo piccolo. Se si è spezzata un’ala, anche se si è ripreso, è morto lo stesso”.

Abbiamo ripreso a vivere, io scrivendo e leggendo, lei andando e venendo, l’uccellino muovendo ogni tanto la testa, ma solo la testa.

È stato in uno dei momenti in cui mia moglie è venuta a riporre un po’ di biancheria stirata nell’armadio che ha notato che l’uccellino s’era girato di novanta gradi. E mentre ci impietosivamo sul nostro malatino senza speranza, questi prima ha scosso le ali, poi con un movimento improvviso le ha aperte ed è schizzato via verso nord-est. Ci siamo guardati negli occhi, sopraffatti dall’emozione, e mia moglie ha detto: “Oggi è una bella giornata, abbiamo avuto una magnifica notizia!” Ero così contento anch’io che le ho chiesto: “Quando mai avremo bisogno di alcol, quando mai avremo bisogno di droga?”

E un abbraccio ha suggellato la gioia di essere vivi, tutti e tre.

Gianni Pardo

20 febbraio 2012

L’AVVENTURA DI UN MATTINOultima modifica: 2012-07-22T13:11:00+02:00da gianni.pardo
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