LE TRE VITE

 

Luigi sapeva benissimo che il problema più grande, quello che imbarazza anche i teologi, è l’origine del Male. E quello che imbarazza tutti è l’estensione di questo male: bambini martirizzati, milioni di esseri umani che muoiono di fame e altri milioni condannati a vedersi uccidere dal cancro. Ma il suo male personale era rappresentato dal notaio Calenzano. Per questo ogni domenica, col sentimento di compiere un dovere, come molta gente va a messa, dedicava qualche minuto ad odiarlo. Era un uomo brutto e prosaico. Un monumento al cattivo gusto. Forse solo Balzac sarebbe stato capace di ritrarlo. Era il tipo d’uomo che dava una mancia miserabile al ragazzo del bar che gli portava correndo il caffè e se ne vantava dicendo: “Per un piccolo morto di fame come quello, è ancora una grossa somma”.

Una volta, dopo aver ricevuto gli amici per una festa, aveva raccolto i liquori rimasti nel fondo dei bicchieri, li aveva versati in una bottiglia e il giorno dopo li aveva offerti come “cocktail” alle persone di servizio. Luigi lo sapeva, nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere: ma chi mai avrebbe potuto stimare Calenzano? Certo, aveva i soldi, aveva buone relazioni d’affari e contava anche nel Consiglio dell’Ordine. Si credeva una persona importante e per certi versi lo era. Abbastanza, comunque, per trattare lui, Luigi, come uno strumento al quale si rivolgeva spesso con ironica cortesia:

– Mi prende il fascicolo Pernice, se non la disturba?

– Mi prepara la stesura della permuta Carminelli-Occhipinti, se non ha niente di meglio da fare?

La sua ultima linea di difesa era stata quella di non incoraggiarlo mai a dargli del tu. Ma Calenzano si vendicava a modo suo, ora trattandolo sarcasticamente da collega e dandogli incarichi da notaio, ora chiedendogli, sempre cerimoniosamente, servigi da fattorino:

– Se non le dispiace, tornando a casa, potrebbe fare una piccola deviazione…

Ma era tutta colpa sua, di Luigi. Se invece di pensare alla metafisica e all’origine del Male non fosse finito fuori corso, all’università, si sarebbe laureato prima che suo padre morisse. Oggi sarebbe stato – forse – un vero praticante notaio. Come il giovane dottor Belli. A Belli, quando commetteva qualche errore, il notaio diceva: “Hai sbagliato qui e qua”; quando invece era lui, a sbagliare, il cappelletto di rito era:

– Mio caro amico, se fosse arrivato alla laurea, forse saprebbe che…

E che rabbia non potergli rispondere:

– E come mai ogni tanto sbaglia anche Belli? Non è laureato, lui?

Quella situazione era tutta colpa sua, d’accordo, ma Calenzano sarebbe comunque andato all’inferno, un giorno. Se solo c’era un inferno. E Belli poteva anche accompagnarlo. “Se non aveva niente di meglio da fare”.

Costui era uno sciocco che forse non meritava tutto il disprezzo di cui lo faceva oggetto. L’esagerata passione che metteva nell’avviarsi al concorso per il notariato era certo insopportabile ma altri l’avrebbero definita “ammirevole ambizione”. Belli studiava giorno e notte, a volte comprendendo solo la lettera della legge; era felice della minima lode del notaio; si disperava quando si accorgeva di non conoscere qualcosa (“E se me l’avessero chiesto agli esami?”) e in totale il suo orizzonte non andava oltre. Una mentalità da talpa.

Con questo atteggiamento non faceva ombra a nessuno e nessuno l’odiava. Certo, salvo Luigi. Ma anche Luigi era sempre gentile, con lui, e perfino amichevole. Questo, perché “neanche spiegandoglielo per un giorno intero avrebbe mai potuto fargli capire perché lo odiava”.

In futuro, comunque, Belli sarebbe diventato notaio, mentre lui aveva così poco, era così poco importante, aveva prospettive così tristi ed era tanto disperato, che forse non valeva la pena di vivere. Severino Boezio aveva avuto consistenti motivi per essere infelice ma almeno non era stato obbligato a lavorare per il notaio Calenzano.

– Dio mio, sospirò ad alta voce, perché hai voluto farmi vivere così?

– Io non c’entro per nulla, fu la risposta.

– Chi ha parlato? chiese Luigi, con i capelli ritti sulla testa.

– E poi, continuò Dio, non ti sei sempre dichiarato ateo, tu? Che senso ha, la tua domanda?

– Io, veramente, intendevo… balbettò Luigi. Ma fu lesto a riprendersi:

– Io ero ateo, ma come potrei esserlo ora, se tu mi parli?

– Già, come potresti? ironizzò l’Altissimo.

– E dunque la mia domanda ha senso. Perché mi fai vivere così?

– Non mi hai sentito? Faber est quisque…

– Lo so, non sono il tipo che fonda un impero partendo da zero e comunque avrei potuto laurearmi in tempo. Ma se fossi nato ricchissimo, forse che sarei obbligato a lavorare con Calenzano? Se fossi famoso, magari senza alcun merito, che so, come il principe ereditario, forse che non troverei un editore per i libri che scrivo e magari un’università pronta ad offrirmi una cattedra di filosofia?

– In questo c’è del vero, lo riconosco. Ma sei sicuro che la vita ti apparirebbe molto diversa?

– Caspita! esclamò Luigi, evitando a stento un più ampio turpiloquio.

– Questa sì è una risposta, sorrise Dio. Bene, proviamoci.

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Le sorprese, in quei due giorni, erano state tante che, spesso, aveva detto di sentirsi male, pur di potersi ritirare a riflettere e a mettere un po’ d’ordine nella sua mente. I giornali – soprattutto la stampa “rosa” – ne avevano approfittato per fare grandi titoli: “Il principe Luigi colpito da una malattia misteriosa – la Corte non rilascia nessun bollettino”. Ma c’era di peggio: “La dinastia è in pericolo?” si chiedeva un tabloid. E Luigi faceva gli scongiuri. Un giornale della sera che, contrariamente agli altri, aveva creduto alle smentite ufficiali, si lanciava in un’ipotesi catastrofica: “Luigi è malato d’amore: chi è la fortunata?”

La verità era un’altra e meno banale. L’Onnipotente l’aveva trasferito in una realtà per così dire doppia. Da un lato era il vecchio Luigi che aveva lavorato con Calenzano (ed il vecchio Calenzano era del resto nell’elenco telefonico, al solito indirizzo) dall’altro era il principe Luigi. Incontrando funzionari, politici, personale della reggia, metà del suo io sapeva tutto di loro, sapeva come comportarsi e che cosa dire nello stesso momento in cui l’altra metà di sé, il vecchio Luigi, si rendeva perfettamente conto che li vedeva per la prima volta. Era una situazione paradossale. Se fosse andato in studio da Calenzano, il suo vecchio io temeva che il notaio l’avrebbe fatto a pezzi per essersi assentato senza avvertire e senza giustificarsi, il suo nuovo io sapeva invece per certo che il vecchio non l’avrebbe riconosciuto. Si sarebbe trasformato in untuoso scendiletto, gli avrebbe perfino fatto l’inchino, “Signor Principe, quale onore!”

La sua nuova posizione sociale offriva certo dei vantaggi ma comportava uno svantaggio essenziale: la mancanza di libertà. Sin dal risveglio, al mattino, la sua giornata andava avanti su binari prestabiliti. Non c’era spazio per fantasie o cambiamenti di programma. Anche se gli impegni li aveva presi lui stesso, ora erano leggi ineludibili. Se aveva promesso una visita ai piccoli orfani del Convitto S.Giuseppe, non poteva non andarci. Tutti si erano preparati da settimane all’augusta visita e non poteva deluderli. Chissà, forse i giornali avrebbero titolato: “Luigi fa piangere gli orfanelli”. Il suo lato principesco gli diceva chiaro e tondo che non poteva permettersi nulla del genere. Il risultato era che si sentiva schiavo di questo mestiere più di quanto si fosse sentito schiavo di Calenzano. Il notaio lo disprezzava ed era padrone di buona parte del suo tempo, ma ora quel paese che lo onorava come un semidio era padrone di tutto il suo tempo.

Decise tuttavia che non doveva lamentarsi. Dio gli aveva offerto una possibilità che forse non aveva mai offerto a nessuno, prima, e non doveva mostrarsi ingrato. Doveva solo approfittare dei lati buoni. Per esempio, doveva portarsi a letto qualche marchesina o quale polposa contessa. Doveva provare a pubblicare il suo libro di filosofia, “Crisi e Necessità dell’Etica”. Doveva insomma vivere da principe, visto che principe era.

Per quanto riguardava le donne, il suo nuovo io l’avvertiva di un paio di cose: l’impresa era estremamente facile, purché usasse sempre il preservativo, sia a fini igienici che dinastici. Il problema era un altro: tutte quelle donne pronte a ficcarsi nel suo letto non erano affatto incantate da lui, lo facevano per interesse. Speravano di guadagnarci qualcosa, le più giovani speravano addirittura di farsi sposare. Insomma, essere principe era un po’ come avere una tessera per andare gratis in tutti i bordelli più costosi. Solo che invece di puttane professioniste aveva a che fare con puttanelle titolate o vecchie cortigiane piene d’esperienza. Con l’aggravante di non sapere mai se, con una di queste donne, era nato un vero rapporto. “Mi ama o finge meglio delle altre?” E comunque, anche se avesse incontrato l’amore, non era certo libero di sposare chi voleva.

Il suo vecchio io gli fece notare che aveva ripreso, dopo qualche settimana d’interruzione, una vecchia abitudine: quella di cambiare donna ogni quattro o cinque giorni. L’unica relazione pressoché stabile l’aveva con Lucilla che, malgrado il suo nome di martire cristiana, era quella che lo faceva veramente godere, a letto, perché a sua volta era una fanatica del sesso. L’aveva incontrata in un ufficio amministrativo della reggia e aveva dovuto faticare per sedurla, ottenendo soltanto che lei ne facesse il suo amante segreto, con la seguente motivazione: “Altro che principe, sei un maiale ma mi attiri fisicamente: per questo siamo finiti a letto. Mi fai sentire una troia in calore. Tra noi ci sarà sempre soltanto sesso”. Era infatti fidanzata con un bravo giovane, Marco, e considerava il rapporto con Luigi un peccato inconfessabile: “Spero proprio che mi stancherò di te”.

Nel frattempo, però, i loro incontri erano entusiasmanti ed egli avrebbe preferito vedere più spesso lei e meno le altre. Purtroppo quella ragazza, per il resto del tutto ordinaria, non bellissima e non nobile, gli si lesinava dicendo virtuosamente: “ Tu sei solo un capriccio e io devo pensare al mio futuro. Non posso permettermi d’indurre Marco ad avere dei sospetti. È lui l’uomo che amo. È lui l’uomo della mia vita”.

Per il capitolo filosofia, decise da prima d’approfittare della sua posizione solo dal punto di vista economico. Pubblicò dunque, a sue spese e con uno pseudonimo, presso un piccolo editore non del tutto ignoto, “Crisi e Necessità dell’Etica”. Il libro, di cui furono tirate tremila copie, fu inviato a tutte le librerie e dopo tre settimane ne era stata venduta una sola copia. Chissà, magari qualcuno l’aveva comprata per sbaglio.

Una bella delusione. Fece dunque ritirare tutte le copie – ma proprio tutte – dalle librerie e chiese all’editore di apporvi una sopracopertina in cui rivelava che il vero autore era lui, il principe Luigi. E fu una bomba.

Uno ha un bel sapere che la società va avanti a mode, a conformismi, a suggestioni, ma la differenza fra una sola copia venduta (a chi mai?) e l’avvenimento del giorno, sulla base dello stesso libro, fu veramente troppo grande. Ovviamente i giornali popolari si lanciarono a corpo morto sul fatto e Luigi divenne il principe filosofo, il nuovo Marco Aurelio, ci fu persino chi lo paragonò a Federico II di Prussia, quello musicista e questo pensatore.

La reazione degli accademici fu encomiastica ma più cauta. Qualcuno si limitò a lodare la lingua, “chiara e lineare”, cosa che nel gergo filosofico significava ingenua e superficiale, qualcuno, senza ritegno, gridò al capolavoro, alla svolta in filosofia, la maggior parte lodò l’opera citando qualche concetto fra quelli meno controversi e, in sostanza, banali e solo un giornaletto d’opposizione, forse per farsi notare, parlò di “scemenze sgrammaticate”, “operetta presuntuosa d’un incompetente”, “compendio d’errori tecnici e culturali” che però non enumerava. Luigi ne dedusse che neanche i suoi redattori avevano letto il libro con attenzione e neanche loro avevano cercato di giudicarlo con obiettività.

La conclusione fu tuttavia chiara: il libro non valeva niente. Le lodi erano vaghe, le critiche vaghe anch’esse e – quanto all’idea centrale – con l’aria di volerne dimostrare la profondità, molti professori l’avevano accostata alle probabili sorgenti d’ispirazione, dimostrando in sostanza che non era né nuova né particolarmente brillante. Solo un giornale straniero, in una nota di poche righe, aveva centrato la definizione giusta: “Un’onesta tesi di laurea”.

Luigi denunciò l’editore per avere rivelato l’autore, lasciandogli però, come da accordi, tutto l’utile della pubblicazione, fece ritirare dal commercio le copie invendute e rifiutò di rilasciare interviste su questo argomento, limitandosi a dire che “il giudizio era già stato dato quando il libro era stato pubblicato sotto pseudonimo”. E stavolta ricevette parecchie lodi – finalmente sincere – dal mondo accademico come dai giornali rosa. Tutti apprezzarono un principe che aveva rinunziato alle proprie ambizioni filosofiche forse perfino troppo presto ma aveva certo dimostrato grande umiltà e un grande senso del reale.

Quanto a Luigi, sentì d’essere rimasto al punto di partenza: prima gli era mancato il lettore, poi il lettore spassionato. Una sola cosa era sicura: non aveva scritto un capolavoro.

I giorni ripresero a scorrere normalmente e Luigi si annoiava sempre più. Gli appuntamenti galanti cominciarono a rarefarsi – quelli con Lucilla erano sempre stati poco frequenti – e più rari furono pure gli impegni ufficiali. A chi gli rimproverava d’essere diventato praticamente inavvicinabile e invisibile rispondeva che Shakespeare aveva consigliato ai reali di apparire molto poco in pubblico, se volevano acquistare una dimensione veramente mitica agli occhi del popolo. Solo che Shakespeare non aveva a che fare con gli opinion makers, i consiglieri di corte e i giornali rosa. “Luigi snobba il suo popolo” titolò “Tutto su tutti”, il giornale che si interessava di più della famiglia reale.

Fu allora che Dio si rifece vivo:

– Contento?

– Meglio principe che impiegato di Calenzano, certo.

– Ma?

– Ma non sono felice. Innanzi tutto ho solo relazioni false. Tutti hanno a che fare col principe e nessuno con me. Anche coloro che mi sembrano amici sinceri probabilmente scomparirebbero all’orizzonte se sapessero che lavoro da Calenzano e non sono neanche un praticante notaio. Quanto alle mie ambizioni filosofiche, l’essere principe è solo servito a sapere che gli editori avevano ragione, quando rifiutavano il mio libro. Le donne, poi! Le signore borghesi che avrei adorate mi lasciavano regolarmente all’asciutto e ora sono passato ad un ambiente di cortigiane, in tutti e due i sensi.

– Salvo Lucilla.

– Lucilla non c’entra niente, col mio essere principe.

– C’entra col fatto che sei un gran birbante. Ma di questo parleremo un’altra volta. Oggi sono qui per vedere che cosa ti piace e che cosa non ti piace della tua situazione.

– Mi piace l’agiatezza, ammise subito Luigi. Sono felice di non essere legato ad orari costanti e di non dover subire Calenzano, ma per il resto… Non m’importa del lusso, non m’importa dell’ossequio della gente, che ossequierebbe chiunque fosse al mio posto, non m’importa di nulla di ciò che ha a che vedere col fatto che sono principe, precisamente perché non è diretto a me personalmente ma al principe. A una figura di cartapesta che sono costretto a portare in giro, quasi fossi al carnevale di Viareggio.

– Vediamo se ho capito bene, disse Dio, che oltre ad essere buono in sommo grado era anche in sommo grado ironico. Vediamo. Impiegato di Calenzano no, principe ereditario neppure. Non hai l’ambizione di diventare re, un giorno? Non potresti aspettare?

– Neanche per idea, il re è ancora più schiavo del principe. Da re non potrei mai marcare visita. Una vita d’inferno. Dovrei per forza sposarmi, dovrei avere figli e dovrei perdere Lucilla.

– Tu dovresti smetterla, con questa Lucilla.

– Ma se è l’unica nota positiva!

– Una nota per nulla regale. E poi, i miei comandamenti, li hai dimenticati? Torniamo alle cose serie. Impiegato di Calenzano no, principe ereditario no, re neppure: che cosa vorresti essere?

– Non ci ho ancora pensato, confessò Luigi. Non mi aspettavo la tua visita e non mi aspettavo che m’avresti ancora dato la possibilità di scegliere. Vorrei vivere ignorato, questo sì. Non vorrei avere problemi economici e vorrei avere molto tempo per me stesso.

Dio sorrise e il sole uscì dalle nuvole:

– È il ritratto di un pensionato vedovo.

Luigi rise ma ripensandoci ammise che era vero. E per questo precisò:

– Né del tutto vedovo né del tutto pensionato. Vorrei un lavoro da svolgere in casa, per qualche ora al giorno.

– Traduttore va bene? Ti regalo la conoscenza d’alcune lingue.

– Va benissimo. E poi vorrei conservare Lucilla.

– Sei un insolente. Purtroppo l’esperimento vuole che ti conceda quello che chiedi…

La nuova vita di Luigi ebbe sin dal primo giorno un sapore d’antico. Tutto banale, tutto scontato, tutto monotono, anche se Luigi, che era stato uno e doppio, ora si sentiva uno e trino. La vita quotidiana gli ripeteva che non era nessuno e i suoi ricordi gli ripetevano che questa era la situazione che s’era scelta. Aveva il dovere d’esserne felice, anche se essa non differiva quasi per niente dalla vita di tante altre persone. Era certo vero che il nuovo lavoro gli piaceva immensamente più del precedente. Ma questo dipendeva dal fatto che Calenzano era un essere schifoso o dal fatto che lui stesso era un misantropo?

Quella sera, per esempio, che necessità aveva avuto, di rimanere a casa, a completare un lavoro, piuttosto che uscire, vedere gente o magari andare al cinema? Aveva solo scelto la solitudine, il suo computer e i suoi dizionari. E non gli era neppure andata bene, perché era mancata la luce ed era stato come un cenno del destino, l’occasione per smettere di lavorare. Poi, in attesa della corrente e di riprendere la lettura del suo libro giallo, s’era messo a letto con le mani dietro la nuca e aveva deciso che avrebbe passato il tempo a riflettere. La sua vita recente, del resto, gli forniva argomenti a iosa. In particolare desiderava capire se la sua attuale situazione era un trionfo o un fallimento. E capire anche come si potesse avere un simile dubbio.

La differenza fra successo e insuccesso, debuttò mentalmente, è nelle intenzioni. Se voglio ottenere un risultato che per gli altri sarebbe un successo, e l’ottengo, ho incontestabilmente avuto un successo. E viceversa, se ottengo qualcosa che per gli altri è un successo ma che per me è una seccatura, come essere principe ereditario, sono sicuramente davanti ad un insuccesso. Devo dunque chiarire perché quello che per gli altri può essere gradevole per me può essere l’opposto. Cominciamo dal contatto col prossimo. C’è gente che nella folla sta a proprio agio. Che gode della compagnia, anche se si fanno discorsi stupidi e s’inanellano sciocchezze e banalità. Io invece in questi casi soffro. Rimpiango la mia solitudine. Rimpiango i libri che avrei potuto leggere, i vasi che avrei potuto innaffiare, la musica che avrei potuto ascoltare, la distensione che si ha non dovendo tener conto degli altri e neppure dell’immagine che si dà di sé. In conclusione, la compagnia mi piace quando è intellettualmente nutriente, quando è interessante. Quando quello che l’altro dice val la pena d’essere ascoltato. E poiché questo è raro, nel dubbio è meglio evitare le conversazioni. I libri – queste conversazioni a senso unico – hanno il vantaggio che, quando ci si stanca d’ascoltare, un gesto basta a chiuderli e a farli tacere. Magari per sempre.

Né molto diversamente vanno le cose per quelle successive estensioni della voce umana e del libro che sono il teatro, il cinema, la televisione. Anche qui, le cose che val la pena di vedere e ascoltare sono talmente rare che, di fatto, andare al teatro o al cinema è una grossa imprudenza. Mentre la televisione e il libro ci consentono di stare a casa nostra e di farli tacere con un gesto, il teatro e il cinema implicano un notevole impegno. Bisogna andare ad pedes, da loro, bisogna perfino pagare e poi, se si è delusi, magari dopo cinque minuti, non si può girare una manopola ed eliminare il tutto. Si rimane inchiodati lì, almeno per mezzo film o per un atto di commedia. A perdere tempo e a soffrire. Teatro e cinema? No, grazie.

E i concerti? I concerti sono per coloro che dicono d’amare la musica. Cioè persone che, frequentando le sale da concerto, ascoltano la sinfonia in re minore di César Franck ogni dieci anni e lo Stabat Mater di Pergolesi ogni venti. E che, per tutti questi anni, non ne sentono la mancanza. Io della musica ho un vero bisogno, il mio tempo ideale d’ascolto va dalle sei alle otto ore al giorno. Come potrei frequentare i concerti, soprattutto visto che il programma è stabilito da altri, magari inserendo Bartok, Schönberg ed anche Liszt, musicisti che mi mandano in bestia? Niente concerti. Nessuna mondanità, in materia di musica. È una religione i cui riti, da quando esistono le riproduzioni e l’alta fedeltà, vanno celebrati in solitudine.

Rimangono i viaggi. Da giovane li ho immensamente amati ma anche qui il tempo ha prodotto aggiustamenti. Mentre un tempo ero avido di conoscenza, e giustamente pensavo che il sentimento di una cattedrale gotica non può essere dato da una fotografia, ho viaggiato abbastanza, ormai, per potermi contentare dei documenti visivi, per esempio a proposito degli Stati Uniti. Sono come un direttore d’orchestra che, sfogliando una partitura, sente idealmente suonare un’orchestra. I viaggi rimangono interessanti ma devono vincere la battaglia contro la mia pigrizia. Bangkok è certo diversa da Bari o Bordeaux, ma siamo sicuri che valga la pena d’andarci? E capirei di più andandoci o leggendo un buon libro sulla Tailandia?

Sto facendo un lungo discorso e oltre tutto ormai è tornata la luce. La verità è che non bisognerebbe avere una così chiara visione della vita. Se io fossi stato un po’ più ingenuo o anche, siamo franchi, un po’ più stupido, da principe ereditario sarei stato contento del mio successo come filosofo e avrei attribuito il precedente rifiuto degli editori alla sfortuna. Invece ho giustamente capito che mi facevo delle illusioni, su me stesso. Ed ho perfino capito che, se avessi avuto un vero successo, mi sarei trovato invischiato nel mondo accademico dove i colleghi dicono bene o male di te prevalentemente per ragioni indipendenti dal tuo valore. Salvo essere Kant. Ma forse dico questo perché non conosco a sufficienza la vita dell’uomo di Königsberg.

L’esperimento che Dio ha fatto con me ha provato, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che chi è in grado di smascherare le imposture della vita non ha molto da sperare. Troppe cose si afflosciano come palloncini. Troppe statue di marmo si rivelano di cartapesta. Troppi ideali svaniscono al contatto con la realtà.

La coscienza della morte, che conclude qualunque vita a somma zero, quella d’Alessandro Magno come quella del mio padrone di casa, rende inutile ogni impresa. Potrei scoprire un medicinale utile come la penicillina, se fossi un biologo fortunato come Fleming, ma non dovrei credere d’avere fatto chissà che. Tanto, morirei lo stesso. Bisognerebbe riuscire a scoprire la penicillina così, per passare il tempo.

Su questo mare insignificante galleggia solo il piacere. Il piacere di lavorare alla scoperta di un medicinale miracolo come alla soluzione di un problema di scacchi, il piacere d’ascoltare musica, a letto, come quello di leggere Knock, di Jules Romains. Il piacere di mangiare pane fresco e formaggio. Di passeggiare in un bosco o di far l’amore con Lucilla, che il signore me la conservi e che il suo uomo non sappia mai di noi.

L’esperimento di Dio è servito a rivelarmi che Calenzano è insopportabile ma che, con un datore di lavoro appena appena normale, avrei avuto, anche prima, tutto ciò di cui avevo bisogno. O comunque tutto ciò di cui son capace di godere.

Sarei contento se potessi rivelare questa dolce verità a tanta gente che desidera ciò che non ha. Ma la gente non vuole essere salvata. Potrebbe anzi dirmi che la totale caduta delle illusioni è troppo simile ad un antipasto di morte. Che ognuno vada per la sua strada, allora. La mia sembra un lunghissimo, placido viale fra due alte file di cipressi.

Gianni Pardo, 2003

 

LE TRE VITEultima modifica: 2012-07-22T13:49:00+02:00da gianni.pardo
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