DIVENIRE NULLA

Il vecchio giaceva nel suo letto con gli occhi chiusi, difeso nella sua solitudine da una completa sordità. Non rimpiangeva i discorsi degli altri ammalati: già tanto tempo prima ne aveva conosciuto la vacuità, insieme insopportabile e tragica. Tragica perché, anche quando si parla della malattia e della morte in maniera sciocca, retorica, banale, l’argomento prevale sul modo di parlarne. E poi non gli importava di sapere se il suo vicino di destra sarebbe morto prima o dopo di lui: erano malati terminali tutti e due e questo bastava.

Per la verità, in quanto morente, era più autentico il suo vicino. Aveva quarantadue anni ed era sul punto d’andare all’altro mondo: questo lo rendeva più malato di chi, come lui stesso, era giunto a novantaquattro anni. Chi muore a questa età somiglia a un treno che giunge in stazione con ritardo. Forse anche i nostri cari si stancano di amarci, se ci ostiniamo a vivere così a lungo.

In fondo, quei pochi che gli avevano voluto bene non si erano stancati: si erano limitati a morire prima di lui. Col suo sopravvivere, era un po’ come se fosse stato lui, ad abbandonarli. Dopo che aveva tanto condiviso con loro, gioie e dolori, lutti e feste di capodanno, li aveva lasciati soli nell’ultimo viaggio.

Non l’aveva fatto apposta. Anzi si chiedeva: come posso avere novantaquattro anni, io, che ancora poco fa giocavo a rincorrere gli altri bambini, in piazza? Io che sono rimasto così cocciutamente me stesso da non andare mai oltre quel bambino? Io che ho preso sul serio soltanto l’invasione del sole, la sinfonia in minore del crepuscolo, i segreti sussurrati dalle stelle?

Mi dico queste belle cose, pensava, per negare che sono un povero mucchietto d’ossa in un letto d’ospedale. Se aprissi gli occhi, tutto quello che vedrei sarebbe la fiala dell’ipodermoclisi che pende su di me. Una clessidra che lascia cadere nel tubicino, una goccia dopo l’altra, gli ultimi secondi della mia esistenza. E se mi guardassi in giro, sorprenderei lo sguardo d’un infermiere che si chiede quando lascerò libero il letto. C’è sempre la coda, per ricoverarsi in ospedale.

Con quale coraggio sono arrivato a novantaquattro anni? Non pensavo d’arrivare ai sessanta e non sono mai stato igienista proprio pensando che, tanto, era inutile. Mi credevo un macinino che mai e poi sarebbe arrivato agli ottantamila chilometri: e invece eccomi qui. Sono un abusivo della sopravvivenza.

Abusivo lo sono sempre stato, del resto. La vita deve avermi considerato come una pietra d’inciampo. Un soggetto irrecuperabile. A volte essa è generosa con chi si lascia sedurre: sapendo d’essere fin troppo truccata, fin troppo svestita, fin troppo smorfiosa, tratta con simpatia chi la crede una signora affascinante. Come può trattare chi le dice che è una vecchia befana e che, dato il suo vero aspetto, sarebbe più decente se se ne stesse zitta in un angolo?

Lui aveva fatto qualcosa di simile, con la vita: aveva commesso l’errore di non prenderla sul serio. Mentre gli altri s’impegnavano in tutte le direzioni, lui rimaneva attento al sole, al crepuscolo e alle stelle. Riguardo alla vita, le aveva anche fatto il peggiore torto che si possa immaginare: non l’aveva donata a nessuno. Da vero estraneo – avrebbe detto Camus – non aveva voluto figli, ed ora era un abusivo morente.

Perché stava per morire. E non riusciva a sistemare questo fenomeno, dietro i suoi occhi chiusi. Come diceva qualcuno – Epicuro? – non si può aver paura della morte, perché quando ci siamo noi non c’è lei e quando c’è lei non ci siamo noi. Giusto. Purtroppo, c’è un momento in cui ci siamo noi e sappiamo che fra poco ci sarà solo lei.

Non devo chiedermi come sarà: non sarà in nessun modo, visto che non avrò nessuna coscienza. Tutto quello che posso pensare lo devo pensare ora. È l’ultima occasione. Certo, se fossi Mozart, potrei rimpiangere di non avere il tempo di finire il mio Requiem, ma io non ho nessun capolavoro da completare. Sono uno che s’è scolata fino all’ultima goccia la bottiglia del vivere. E se fossi Mozart mi direi che il Requiem non è poi così importante, per me: perché proprio io non ne ascolterò la prima esecuzione, e neppure la seconda e nessuna mai.

La coscienza dell’assurdità del vivere rende la morte razionale. Se per un istante mi lasciassi andare ad immaginare me stesso come un rappresentante dell’Intelligenza Umana – dell’unica intelligenza di cui ci sia traccia nel sistema solare, e forse nell’universo – potrei dirmi che ho sbagliato tutto. L’intelligenza tende a prendere coscienza di tutto, a spiegare tutto e infine ad agire con uno scopo: e proprio per questo è in insanabile contrasto con la realtà di partenza. Questa non ha coscienza, non sa nulla e non tende a nulla. Come un cadavere. Un cadavere è razionale e coerente con la realtà mentre io, finché penso, la falsifico.

Non mi rimane che lasciarmi andare alla decadenza di questo corpo, alla sua morte a rate, alla consunzione di questa estrema vecchiezza che non ho chiesto. Anche se fino alla fine ho giocato stupidamente col mio cervello, come un bambino con un sonaglio. Se solo continuerà questa assenza di dolore, questa pace della sordità, e se solo mi riuscirà di passare dal sonno alla morte, sarà una sorta d’apoteosi.

Per me, ateo convinto, l’unica apoteosi possibile è divenire nulla.

 

Gianni Pardo, 1994

DIVENIRE NULLAultima modifica: 2012-07-22T13:21:00+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo