L’EREMITA E IL GATTO

Un eremita viveva in una grotta, su una montagna, e sopravviva grazie alla carità di alcuni valligiani che, sapendolo solo e privo di risorse, ogni tanto passavano a lasciargli qualcosa da mangiare o un vecchio maglione bucato e tuttavia ancora buono per proteggerlo dal freddo. L’eremita ringraziava tutti con la sua aria trasognata e se il donatore si tratteneva gli offriva una pietra su cui sedersi. Era certo un misantropo, e per questo viveva lassù, ma la distanza dal paese era tale che il prossimo non l’importunava troppo di frequente e questo rendeva gradevoli i rapporti.

Il maestro elementare, un uomo anziano che insegnava a tutti i bambini insieme, era l’autorità culturale del paese. Quando gli capitava di parlare con l’eremita non si privava del piacere di discutere qualche questione teologica o anche la sua scelta di vita.

– Come mai non ha nemmeno un cane? gli chiese un giorno.

– Un cane è l’ultima bestia che vorrei accanto a me, disse il vecchio.

– E perché mai? Tutti dicono che i cani sono affettuosi, gentili e onesti come forse nessun uomo riesce ad essere. Le terrebbe compagnia e le farebbe da sentinella.

– Non è per questo, si spazientì quasi l’eremita. Innanzi tutto non ho bisogno di sentinelle: non c’è nulla da rubare, qui. Persino se m’uccidono affrettano di poco la mia morte. Il fatto è che un cane mi amerebbe anche se fossi un diavolo. Mi amerebbe e basta. E questo è un errore. Nessuno merita d’essere amato solo per avere fatto la fatica di nascere. Poi mi rispetterebbe come un capo: e chi dice che, agli occhi del Signore, io abbia titolo per comandare ad un altro essere vivente? Insomma il cane piace tanto alla gente perché, invece di coltivare l’umiltà dell’individuo, o più esattamente il suo senso della realtà e l’esatta misura di sé, fa sentire chiunque un sovrano dinanzi al quale il suddito s’inclina. Esiziale. Come se non bastasse, il cane è anche rumoroso. Se l’immagina il frastuono del suo abbaiare incongruo, in questa pace?

La discussione si ripeté pressoché senza variazioni ogni volta che il maestro andò a trovare l’eremita e ogni volta costui, pazientemente, ripeté gli stessi concetti, pensando che all’altro, forse, piaceva sentirseli ripetere.

Un giorno tuttavia l’insegnante cambiò registro.

– Sa che lei forse m’ha convinto? Il cane, visto come tratta l’uomo, non è poi la bestia intelligente che tutti dicono. È un servo condizionato ad amare il suo padrone. Ha una natura di perfetto schiavo. E io ho trovato ciò che fa per lei: un gatto.

– Un gatto? Si stupì l’eremita. A quell’animale non aveva mai pensato.

– Certo. Non solo non abbaia – rise il maestro – ma forse l’amerà e forse no, forse le obbedirà e forse no. E comunque non l’amerà certo se non se lo merita. Che obiezioni può avere, contro un gatto?

L’eremita sul momento non seppe rispondere e fu così che, qualche settimana dopo, il maestro gli portò un micio di qualche mese, con cui l’eremita fece amicizia. Mangiavano le stesse cose, quando c’era da mangiare. A volte persino nella stessa ciotola. Si tenevano caldi a vicenda sul pagliericcio, e l’eremita lodava molto il suo compagno quando, per contribuire alle spese della comunità, si presentava con qualche uccellino o qualche topo che era riuscito a cacciare.

Un giorno – era passata da poco la Pasqua – all’eremita portarono una notevole quantità di dolci. Erano gli avanzi d’un festino e rischiavano d’andare a male, se non fossero stati consumati subito. L’eremita, che cose del genere non ne mangiava da anni, si chiese se commettesse peccato, approfittando di quella manna. Poi si disse che, contrariamente a tutta una tradizione di mortificazione della carne, dal Vangelo risulta che Gesù era una persona sana e solare. Mangiava e beveva con gli amici – a volte persino con donne – fino a farsi criticare dai benpensanti. Se avesse potuto invitarlo nella sua grotta, probabilmente anche il Cristo avrebbe apprezzato quelle buone cose.

Gesù non poteva invitarlo ma il gatto sì. Per questo, dopo averlo chiamato a gran voce e averlo visto arrivare, dopo qualche minuto, tutto allegro e con la coda dritta in alto (segno inequivocabile di gioia e amicizia), gli disse:

– Toh, annusa, che te ne pare di questo bignè?

Micio – si chiamava semplicemente Micio – annusò il bignè e lo guardò perplesso. Pareva chiedesse: si mangia?

– Ma certo che si mangia, scemo! Non avrai più un’occasione simile!

Micio rimase sulla negativa e l’eremita gli propose un pasticcino al cioccolato. Poi delle paste di mandorla. Una fettina di torta. Almeno un esemplare di tutto quello che gli avevano portato, finché l’eremita dovette convincersi: Micio non voleva assaggiare nulla di tutto ciò che era arrivato. – Sei scemo, decretò l’eremita. Sei proprio scemo.

Quando il maestro venne a trovarlo, dopo averlo ringraziato del regalo del gattino, divenuto parte importante della sua vita, gli raccontò l’episodio e domandò:

– Fino a quel momento Micio m’era sempre sembrato intelligente e ragionevole. Persino raffinato, se penso alla sua discrezione, alla sua cortesia, alla sua eleganza. Ma in questa occasione s’è proprio comportato da cretino, non trova?

Il maestro lo guardò negli occhi e sorrise:

– Caro il mio sant’uomo, così profondo in tante riflessioni e così ingenuo in questo caso! Lei trova ottimi i dolci, anche se ne mangia rarissimamente, e Micio li ha rifiutati sdegnosamente. Lui, scemo? Nient’affatto. È semplicemente che ha dei gusti differenti dai suoi.

E l’eremita, improvvisamente, si sentì più scemo del gatto.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, 5 aprile 2005

 

L’EREMITA E IL GATTOultima modifica: 2012-07-22T13:23:00+02:00da gianni.pardo
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