I FRATELLI TOWERSTONE

 

       luglio 2001

I due fratelli Towerstone erano rimasti improvvisamente orfani a causa di un incidente in cui erano morti insieme padre e madre. I loro nove anni di differenza assegnarono loro, immediatamente, parti tanto diverse da renderli un po’ padre e figlio. Certo, nessuno poteva aspettarsi che un bambino di nove anni come il piccolo Richard, detto Dick, si guadagnasse da vivere e si comportasse da capo famiglia. Invece Bernard di anni ne aveva diciotto, quasi diciannove, e anche se, sino al giorno prima, era stato un ragazzo come gli altri, che pensava solo alla scuola, allo sport e alle ragazze, da orfano si trovò ad avere sia l’età per lavorare che la maturità per fare da padre al fratello. Abbandonò l’università, a cui si era appena iscritto, divenne viaggiatore di commercio e la sera, quando tornava a casa, crollava a letto per la stanchezza.

Certo, se si fosse dovuto guardare solo all’età, più anziana di lui c’era la sorella Mary. Costei però aveva solo ventidue anni, che non sono molti più di diciannove, ed era sempre stata tanto complessata che non ci si poteva aspettare nessun aiuto serio, da lei. Convinta di essere bruttissima, si vestiva in modo da accentuare questo difetto, come per castigarsi del peccato di vanità commesso col fatto stesso di avere sofferto della propria bruttezza. In realtà non era nemmeno tanto brutta quanto pensava d’essere. Era solo disadattata ed aveva trovato la soluzione esistenziale in una religione bigotta, sessuofobica, che aggiunta alla sua naturale misantropia l’aveva presto trasformata in una sorta di monaca. Sosteneva anzi che questo destino era ancora migliore di quello che meritava: se non fosse stata tanto stupida, sarebbe toccato a lei, in quanto la maggiore, guidare la famiglia dopo quel malaugurato incidente stradale. Per questo in casa lavorava come una schiava e obbediva a Bernardo come un cane al padrone.

Dick, come tutti i bambini, era egoista e prevaricatore. Aveva tendenza a profittare della sorella anche se aveva una paura notevolissima delle eventuali punizioni di Ben, che non tollerava la minima mancanza di rispetto alla sorella. Lui personalmente era infastidito da quest’essere sempre infelice, sempre sottomesso, sempre pronto a sacrificarsi, ma condivideva con lei la religione del dovere. Dopo avere tentato debolmente di farle notare che aveva l’età per cercarsi un marito, dopo avere provato a indurla ad uscire, vedere gente, frequentare dei giovani, si rassegnò a vivere con questa sorta di governante. Mary era forse malata di mente ma in casa era serena e non c’era ragione di renderla infelice cercando di renderla felice.

Passarono gli anni. Ben fece carriera, nel suo lavoro. Invece di viaggiare divenne caposettore, andava in ufficio a due passi da casa ed in famiglia vivevano quasi da ricchi. Non si era sposato, senza neanche una ragione precisa. Forse perché un tipo come lui si sarebbe sposato per avere una brava moglie che l’accudisse, ma nel suo caso non ce n’era nessun bisogno: Mary aveva risolutamente rifiutato di assumerne una donna di servizio e in casa continuava a fare tutto lei. Ben aveva molte volte tentato di farle notare che il suo atteggiamento era irragionevole, che i suoi scrupoli “perché non contribuiva alle spese della famiglia” erano eccessivi e via dicendo ma, ancora una volta, s’era accorto che, se avesse insistito, l’avrebbe resa infelice. Mary viveva delle faccende di casa e delle preghiere nel tempio metodista che frequentava assiduamente. Non aveva bisogno d’altro.

Il problema invece era Dick. Giunto alla fine delle scuole secondarie con qualche difficoltà, era abbastanza normale. Forse solo un po’ più svogliato, un po’ più superficiale della media. E certo non sarebbe stata una tragedia il fatto che a scuola era sempre fra gli ultimi e che un paio di volte i poliziotti l’avevano riportato a casa ubriaco: il guaio era che aveva per “madre” una monaca e per “padre” un fratello da cui lo separavano non i nove anni anagrafici, ma la differenza di mentalità che ci può essere fra un giovane allevato dalla televisione e uno allevato da un patriarca biblico. Ben, per dire il tipo, teneva sulla sua scrivania una foto di se stesso e i genitori, e un’altra, con la pistola in mano, ad un concorso di tiro che aveva vinto. 

Dick era reso ancora peggiore dall’odio che aveva sviluppato per Ben. Lo odiava per le botte che gli aveva dato da ragazzo, per i continui rimproveri e per l’immagine di una vita fatta di sofferenze, di sacrifici e di senso del dovere che gli aveva sempre presentato. Era arrivato a gridargli sul muso che la prova che Dio l’amava era che gli aveva ammazzato i genitori per dargli l’occasione di fare l’eroe. Non era certo un intellettuale, il ragazzo: ma questo non era necessario per rendersi conto che fratello e sorella vivevano in un mondo privo di luce, medievale e maniacale. Purtroppo reagiva con un comportamento opposto, con una vita votata al divertimento, alla convinzione che tutto s’aggiusta, che c’era insomma sempre modo di far pagare i vetri rotti alla sorella o al fratello.

Il risultato finale fu che anche Ben prese ad odiarlo, pur senza osare confessarselo. Ben infatti imponeva a se stesso la magnanimità e la tolleranza di un padre, mentre l’istinto l’avrebbe spinto a fare a pezzi quel buono a nulla. L’ideale era che Dick si trovasse un lavoro ed andasse a vivere per proprio conto, ma era limitato dal fatto che non aveva un mestiere e aveva gusti dispendiosi: con un lavoro da operaio o da piccolo impiegato non se li sarebbe certo potuti permettere. Ed ecco che dipendeva economicamente dal fratello in tutto e per tutto, anche ora che si avvicinava a sua volta ai vent’anni.

Liti quotidiane. Per tenere a freno il fratello e nel contempo dimostrargli che non era tirchio, Ben, gli dava a stento il denaro per qualche pizza e qualche capriccio e nel frattempo – cosa che gli faceva notare tutti i giorni – aveva aperto un conto speciale in cui depositava denaro “per il giorno in cui sarai capace d’amministrarlo”. Dick arrivava a rubare i pochi spiccioli dalla borsa della zia e una volta arrivò anche a vendere un quadro del settecento che Ben, dopo una lite memorabile, andò a recuperare pagandolo quasi il doppio da un rigattiere.

La tragedia avviene quando Dick s’innamora perdutamente e la ragazza va a vivere in un’altra città. Dick vorrebbe andare a trovarla, magari rimanere dove lei abita, forse anche trovarsi un lavoro, per quanto umile, e reclama una grossa somma almeno per vivere lì qualche settimana, il tempo di sistemarsi. Ben gli ripete che quel denaro, e anche di più, è già su un conto che andrà a lui: ma non intende smobilitarlo per un capriccio. Se è disposto a lavorare, che lavori lì, in città, metta da parte i soldi, e ci vada poi, dalla ragazza. Un paio di mesi basterebbero, visto che mangia e dorme in casa.

Una sera che la discussione viene ripercorsa ancora una volta, Dick, furente, va nella stanza del fratello, prende una delle sue pistole da tiro sportivo, torna dal fratello e gli chiede d’aprire la cassaforte e dargli subito quello che chiede. Ben gli ride in faccia, dicendogli che ha visto troppi film. Che non si spara a un fratello per denaro. Dick spara un colpo verso il soffitto e Ben si preoccupa. Pur non cedendo e rimanendo in piedi, fa scorrere il cassetto della scrivania dove c’è la sua pistola e dice: 

– Che cosa ti fa credere che io possa cedere per paura? Quando mai mi hai visto spaventato?

– E allora muori senza avere paura! grida Dick. E preme il grilletto. Ben balza di lato, ricevendo la pallottola nel braccio sinistro, trae fuori a sua volta la pistola dal cassetto e spara. Dick, colpito al cuore, cade per terra, bocconi, senza un grido. Ben, indignato, gira intorno alla scrivania e sovrastando il fratello gli spara due colpi nella schiena mormorando: “Assassino, assassino di tuo fratello! M’avresti ucciso per denaro!”

Poi chiama la polizia.

L’inchiesta

Ben si è reso conto che, se dicesse la verità, quei colpi sparati alla schiena potrebbero costargli cari, anche se l’inizio dello scontro è chiaramente un caso di legittima difesa. Per questo racconta tutta la verità ma afferma che i due colpi alla schiena sono stati sparati quando il fratello, colpito dal primo sparo, ha per così dire piroettato su se stesso.

Discussioni, perizie e controperizie. La scena come la racconta Ben è abbastanza inverosimile ma depongono a suo favore le continue liti precedenti, il passato di galantuomo di Ben e il carattere di scioperato di Dick, da tutti descritto come violento; il colpo che si è conficcato nel soffitto e quello che si è fermato contro la parete, dietro la scrivania, dopo avere attraversato il muscolo dell’accusato; le tracce di polvere da sparo sulla mano destra di Dick; il fatto che, sparando a qualcuno, non si può mai essere sicuri di essere stati capaci di neutralizzarlo al primo colpo. Dunque anche gli altri colpi potrebbero essere coperti dalla legittima difesa.

Il processo sembra volgere a favore di Ben non tanto perché il suo racconto sia del tutto convincente, quanto perché non si riesce a dimostrarne la falsità senza che rimangano perplessità e infine perché la vittima non è molto simpatica. È vero che anche se il fratello maggiore non riscuote simpatie: anzi l’accusatore, perspicace, negli interrogatori dei vari testimoni, fa risaltare come Ben sia sì una persona per bene, ma anche un moralista. Una volta che una prostituta si era fermata per un paio d’ore nella sua strada era corso al commissariato per farla arrestare, e c’era voluto del bello e del buono per convincerlo che al massimo potevano pregarla d’allontanarsi, se non infastidiva nessuno. “Ben”, sostiene il procuratore, “è un uomo che per tutta la vita ha fatto sempre e soltanto il suo dovere, e fin qui bisognerebbe applaudirlo. Ma è anche stato uno che ha preteso dagli altri lo stesso comportamento, che non ha mai ammesso che si potesse vivere diversamente, che accanto alla formica potesse anche vivere la cicala”. La cicala, sosteneva, non è saggia, se non pensa per l’inverno. Ma la formica non è migliore di lei, se uccide. E comunque ognuno ha diritto a vivere a modo proprio.

Secondo l’accusatore le cose erano andate così: Dick aveva sparato per primo, Ben aveva risposto, infine era andato a sparargli, una volta che era a terra, per completare l’esecuzione, col proprio disprezzo. Prima si era difeso, poi aveva voluto uccidere, anzi “eseguire la sentenza”. Dunque era passato dalla necessità della legittima difesa all’omicidio. Ma la sua tesi rimaneva dubbia.

Mentre il processo si avvia verso le arringhe finali, un poliziotto, andato al tempio metodista per tutt’altra faccenda (ottenere il salone per la festa delle famiglie dei poliziotti), apprende per caso che Mary, la sera del delitto, era sì andata al tempio, come s’era sempre detto, ma era andata via prima del solito. Prima quanto?

Il poliziotto, che vorrebbe divenire detective, per fare bella figura in vista degli esami si mette a fare indagini presso gli altri frequentatori del tempio fino ad essere certo che la donna è effettivamente andata via prima del solito: più precisamente in tempo per essere presente all’omicidio. Come mai non ne aveva mai parlato? E perché mai era tornata a casa prima del solito? Nei ricordi dei poliziotti accorsi sulla scena del delitto c’era che ella era giunta pochi minuti dopo di loro, dalla porta posteriore, stringendo nervosamente fra le mani la sua borsetta, e del tutto sconvolta. Dove era stata, durante quei minuti così importanti?

L’accusatore ascolta il poliziotto e si rende conto che forse ha pescato un asso. Prega la polizia di non far parola di tutto ciò e – giocando sull’effetto sorpresa e sulla sua emotività – convoca la donna alla sbarra come per una semplice precisazione. Una volta lì la tempesta con i dati di cui ora dispone, la minaccia d’arresto se mente, le ricorda che ha giurato dinanzi a Dio di dire la verità, finché la donna s’impappina, scoppia in lacrime, fa per scappar via tanto che i poliziotti la devono bloccare e infine, mentre Ben è pallidissimo, confessa che sì, è tornata a casa prima del solito, perché si era convinta d’aver lasciato il gas aperto. Era rientrata dalla porta posteriore e aveva visto da lontano, dal fondo del corridoio, che Dick sparava a Ben, Ben rispondeva e poi…

– Poi?

– Beh, lo sapete, come è andata.

– No, signorina. Lo vogliamo sapere da lei. E ricordi che è sotto giuramento.

– Io… non ricordo.

– Lei ricorda benissimo, la incalza il procuratore. Lei ha il dovere di dire la verità, e non solo perché il Giudice potrebbe farla arrestare, se mente, ma perché lei ha giurato dinanzi a Dio, è Dio che la giudicherà più severamente di noi, lo capisce questo?

– Scusami, Ben… Io… Io non posso… 

– Dick era a terra, quando Ben gli ha sparato alla schiena?

– Sì.

– Dick era già caduto, Ben ha fatto il giro della scrivania e gli ha sparato alla schiena. È così?

– Sì. Dick lo ha meritato. Ha alzato la mano su suo fratello.

Il processo, ovviamente, prende tutta un’altra piega. È chiaro che la sorella, rientrata in casa senza essere udita, vista la scena, era salita in camera sua per poi ridiscendere e riapparire, come fosse appena rientrata dal tempio attraverso la porta posteriore. Finché nessuno le aveva fatto domande dirette era riuscita a non mentire e a non denunciare il fratello, mentre alla sbarra aveva reso quella testimonianza devastante, che non lasciava adito a dubbi. L’accusa gongola e la difesa non sa che dire. Ci si avvia ad un’inevitabile condanna per omicidio e Ben è divenuto ancor meno simpatico, ora che si è scoperto che è anche bugiardo. Bugiardo per difendersi, ma bugiardo. Dunque in contraddizione con tutta una vita di moralista.

Il giorno delle arringhe, il difensore di Ben ha un’idea e chiede di risentire il medico legale, per pochi minuti, prima che il procuratore prenda la parola. Il giudice lo concede ed ecco l’interrogatorio.

– È lei che ha effettuato l’autopsia sul corpo del cadavere?

– Sì.

– Come è morto Richard Towerstone?

– Ha ricevuto tre colpi d’arma da fuoco, non da distanza ravvicinata, e infatti non ci sono tracce di polvere da sparo sui suoi vestiti.

– Tutti e tre i colpi sono stati mortali?

– No, due. Il primo è penetrato nel costato anteriormente, ed ha colpito il cuore. Quando dico il primo seguo il racconto dell’accusato, ovviamente.

– In che senso?

– Nel senso che io ho trovato tre ferite, sul corpo, ma da queste non posso dedurre l’ordine in cui sono state inferte. È l’accusato che sostiene d’avere colpito il fratello standogli di fronte, da prima.

– Giusto. Ma di questo nessuno dubita. L’altra ferita mortale?

– Mortale è pure una delle ferite inferte posteriormente, esattamente quella indicata con la lettera C nella foto, mentre quella indicata con la lettera B corrisponde ad un colpo che si è limitato ad attraversare il polmone e non ha fatto grandi danni.

– Torniamo all’inizio. Il colpo penetrato anteriormente è mortale, lei ha detto. Che cosa intende, con queste parole?

– Mortale significa “capace di provocare la morte”.

– Capace di provocarla o che l’ha provocata?

– In genere, capace significa capace, nel nostro caso, però, oltre ad essere astrattamente capace di provocarla, l’ha in effetti provocata.

– Ne è sicuro?

– Come potrei non esserne sicuro? Un colpo che spacca il cuore uccide immediatamente. Dick è stato letteralmente fulminato.

– È un campione di tiro, il fratello buono! esclama il procuratore, beccandosi un rimprovero del giudice.

– Dick è stato fulminato, riprende l’avvocato della difesa. È morto sul colpo.

– Sul colpo. L’ho già detto.

– Sì, ma che cosa s’intende per “sul colpo”?

– Vostro Onore, interviene a questo punto l’accusa. La difesa tormenta il teste con domande insulse. Che cosa è successo, non conosciamo più il significato delle parole? Che cosa vuole ottenere, lo vuole innervosire?

– Stia zitto, per favore. E la difesa cerchi di concludere.

– È presto fatto. La domanda precisa è: quanto tempo dopo aver ricevuto il primo colpo è morto Dick?

– Nessun tempo dopo. Subito.

– Ora il procuratore dirà che non conosco più il significato delle parole. Ma io le chiedo: è vissuto ancora cinque secondi? Quattro?

– Dal punto di vista medico, è morto immediatamente. Nel senso che il cuore ha smesso di battere, essendo letteralmente scoppiato. Da quel momento i processi tanatologici non potevano che andare avanti e niente avrebbe più potuto arrestarli. Non si può escludere, teoricamente, ma non è affatto un dato scientifico, che sia rimasto un barlume di coscienza per un paio di secondi, non più di uno o due, comunque.

– Allora, quando ha ricevuto il secondo colpo mortale, quello sulla schiena, Dick era tecnicamente morto di già.

– Indubbiamente.

– Traduco: quel secondo colpo l’avrebbe ucciso se non l’avesse già ucciso il primo, colpo.

– Esattamente.

– La ringrazio, non ho altre domande.

Segue l’arringa dell’accusa, ben articolata nel mettere in cattiva luce Ben e la sorella, due infami maniaci, e nel mettere in luce l’atteggiamento di giustiziere dell’uccisore. Che non si è limitato a difendersi ma ha poi “punito” il fratello per la sua aggressione.

Il difensore l’ascolta distrattamente, disegnando curve e quadratini sul foglio che ha davanti. E quando arriva il suo turno pronuncia una breve arringa.

La sua tesi è molto semplice. Sulle modalità del delitto non esistono dubbi. Bernard Towerstone non è simpatico ed ha anche mentito, su quelle modalità. Ma noi le conosciamo senza ombra di dubbi attraverso la perizia medica, la fotografie del cadavere, il racconto dell’imputato, il racconto della sorella e la precisa convinzione del procuratore distrettuale. Ebbene, da tutto questo si deduce che Bernard Towerstone non può essere condannato per omicidio. Egli infatti è innocente quando spara il primo colpo visto che, a parere di tutti, ha agito in stato di legittima difesa. E non è colpevole d’omicidio neanche per i due colpi successivi perché sparati ad un cadavere. Nessuno può essere condannato per omicidio perché ha sparato ad un cadavere. Questa figura giuridica in diritto si chiama “reato impossibile”. Nel reato impossibile si ha il dolo – in questo caso la volontà d’uccidere – si ha il mezzo – in questo caso la pistola – ma manca il soggetto passivo del reato. Un cadavere non può morire.

Non è neanche l’unico caso del genere. Immaginate che qualcuno mi odii e voglia uccidermi. Poi, nella penombra, vede una mia fotografia in grandezza naturale, spara e la danneggia. Ha creduto di vedermi, aveva un’arma idonea ad uccidere, ha premuto il grilletto con l’intenzione di uccidermi e tuttavia: Tentato omicidio? No, reato impossibile.

Bernard Towerstone è innocente per avere agito in stato di legittima difesa e non ha neppure commesso il reato di vilipendio di cadavere perché non sapeva di sparare ad un cadavere. Quanto ai due colpi del giustiziere, come li ha chiamati l’accusa, costituiscono un reato impossibile, assolutamente non punibile. Su questo punto, che essendo tecnico esula dalle competenze della giuria, chiedo il parere del procuratore distrettuale e del giudice. Infatti, se essi saranno d’accordo con me, eviteremo di convocare eminenti giuristi che confermeranno inevitabilmente il mio punto di vista e forse già a questo punto potremmo evitare di disturbare ulteriormente i giurati.

Il giudice chiede ad accusa e difesa di avvicinarsi, poi li rimanda ai loro posti e dice ai giurati:

– La difesa ha chiesto il proscioglimento senza giudizio. Io preferisco che voi vi pronunciate ma ricordatevi che la giuria dovrà considerare l’accusato non colpevole se reputerà che ha sparato il primo colpo in stato di legittima difesa e colpevole se reputerà il contrario. Ma ricordatevi che non dovete in nessun caso tenere conto degli altri due colpi, perché la tesi secondo cui sparare ad un cadavere costituisce reato impossibile è condivisa sia da questa Corte che dallo stesso procuratore distrettuale.

I giornalisti si precipitano fuori per andare a telefonare il risultato ai loro giornali.

Gianni Pardo

 
I FRATELLI TOWERSTONEultima modifica: 2012-07-22T13:46:00+02:00da gianni.pardo
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