L’ERRORE

Gennaio 1995

 

 

Alle tre va bene?

‑Va benissimo.

Erano le tre e diciotto quando Amelia gli venne incontro senza sorri­dere. L’impressione che il pomeriggio non promettesse nulla di buono era confermata. Tuttavia, come sempre, non poté impedirsi di notare le sue cavi­glie snelle e il suo seno provocante. Amelia era troppo magra, non aveva fianchi, non aveva neanche sedere (“Si siede direttamente sulle ossa” aveva detto una volta Igor, con la sua solita delicatezza) ma in totale aveva un potenziale sessuale straordinario. “Finché mi permetterà di scopare con lei è sicuro che non riuscirò a staccarmene”, si disse. Il cinismo e la volgarità gli servivano per vendicarsi dell’eterno fastidio di discussioni contemporaneamente drammatiche e prive di senso, come quella che si annun­ciava. Una volta gli aveva fatto una scenata perché lui non aveva insistito per portarla ad un concerto. Come, si era contentato del primo no? “Il fatto è che per te io non sono un’intellet­tuale, come potrei apprezzare la musica classica?”

‑Che fai, stai in posa per una fotografia? chiese lei.

‑Ti aspettavo.

‑Mi fai notare che sono in ritar­do, vero? “La puntualità è la cortesia dei re”, hai detto. Che vuoi, non sono una regina. 

‑Ho solo detto che ti aspettavo, ripeté lui, col tono più neutrale che riuscì a trovare.

‑Infatti. Hai detto questo. Invece di dire “Ciao, Amelia, come sono contento di vederti!” Perché tu non guardi me: guardi l’orologio.

‑Io non ho guardato l’orologio. Sei venuta esclusivamente per litigare?

‑Sei tu che hai cominciato: perché invece di salutarmi mi hai criticata. 

‑Se è per questo, sei tu che non mi hai neanche salutato. Mi hai solo chiesto se stessi in posa per una fotografia. E io ti ho detto quello che stavo facendo. Comunque, ripeto, sei venuta solo per litigare?

‑Innanzi tutto io scherzavo. Se ora non capisci più nemmeno uno scherzo per bambini…

‑Uno scherzo? Con quella faccia?

‑…e comunque, se ho voglia di litigare è un mio diritto, no? Andiamo ad Acicastello. Dove hai la macchina?

‑Ho la Centoventisei di mia sorella. È lì.

‑Quel catorcio.

‑Sì, quel catorcio. Quando potrò comprare una Ferrari ti porterò in giro in Ferrari, va bene? Per il momento devo dire grazie a mia sorella se non siamo a piedi.

‑Te Dominum laudamus, disse Amelia. Ma lui non rispose e, una volta in macchina, stettero zitti tutti e due.

Stefano pensava che la loro relazio­ne era assurda. Amelia non era una stupida, frequentava la facoltà di lettere, aveva voti migliori dei suoi, ma non per questo erano fatti per intendersi. Fra l’altro, lui, che studiava farmacia, adorava letteratura e filosofia, mentre lei, che studiava letteratura, era soprattutto una donna pratica. Il loro rapporto era nato da un’attrazione fisica che li aveva portati dal bacio al letto fin troppo in fretta. Erano esistiti momenti d’estasi e abbando­no, dopo l’amore, in cui si erano sentito un naufrago in un suo personale paradiso. Momenti in cui aveva avuto la sensazione di adorarla non solo come fonte di piacere ma come una sorta di rivelazione d’altri mondi, di superamento mistico dell’io. “Sei un miracolo sorriden­te e scarmigliato in cui vorrei anne­gare come in un oceano” le aveva detto una volta. Ma le voleva bene? 

Certo che sì, si rispondeva. Anche se chiederselo significava che non ne era innamo­rato. E poi, il suo affetto per lei doveva convivere col fastidio per certi lati del suo carattere – l’imprevedibilità, la passionalità – che sicuramente mettevano sale e pepe nel loro rapporto, ma erano difficili da sopportare. Insomma, che cosa sentiva veramente, per lei? 

‑Beati i tempi in cui le ragazze volevano arrivare vergini al matrimo­nio, aveva detto una volta Nunzio. Almeno uno sapeva se voleva stare con la loro anima o col loro corpo. 

Ma Igor l’aveva rimbeccato dicendo: 

‑Bravo, sicché quelli che le sposa­vano per il loro corpo magari ci restavano fregati. Finché non vai a letto con una donna puoi sognare che sia meravigliosa, poi spesso scopri che il paradiso sta da tutt’altra parte. 

‑E tu staresti con una donna solo per fottere? aveva chiesto Nunzio, arrossendo per la parola. Ma Igor l’aveva steso con una risposta defini­tiva: 

‑Meglio stare con una donna solo per fottere che solo perché uno l’ha sposa­ta.

Ora intanto sedeva accanto ad una ragazza imbronciata e pronta ad esplo­dere. Ma non avrebbe potuto rifiutare di vederla. Anche se, già per telefono, il tono della voce annunciava tempesta, poteva darsi che non ce l’avesse con lui. Forse voleva essere confortata. Amelia, infatti, sarebbe stata capace di chiedergli, fra poco, “Sei in collera con me? No? E allora che aspetti a chiedermi che cosa mi succede, che aspetti a darmi una mano? Suvvia, intanto fammi un sorriso”. Oppure era possibile che, dopo quel silenzio, gli chiedesse acida: “Non mi degni di una parola? Non mi chiedi perché sono arrabbiata con te? Certo che no, il signore non si abbassa. Sa in anti­cipo che se mi arrabbio è per scioc­chezze, perché sono passionale, perché sono un’immatura…”

Non c’era una frase che lui potesse dire con la ragionevole sicurezza di non provocare una lite. E tuttavia azzardò:

‑Ci vuoi andare dal mare o dalla statale? 

‑Dal mare. Che vuoi che guardi, dalla statale, le pietre miliari? Ma si fermò lì e Stefano trasse un sospi­ro di sollievo. Forse non era poi così grave. Pur continuando a guidare riuscì a trovare il sacchetto delle mentine e gliene offrì una. Calumet della pace. Ma lei continuava a stare in silenzio. 

Non era normale, quello stile.

‑Avanti, Amelia, dimmi cosa c’è che non va. Io credo di non averti fatto niente ma, se ho sbagliato in qualcosa, dimmelo pure.

‑Che concessione! Prima mi rendi ridicola in pubblico e poi fai il gentiluomo scozzese in privato.

“Perché poi scozzese!”, pensò lui. Ma aspettò il seguito.

‑Cosa credi, che in discoteca, con tutto il baccano che c’è, oltre a non sentire, uno neanche vede? E poi come farebbe, uno, a non vedere Maria!

‑Maria? Si tratta di Maria? Ma se ho solo ballato con lei, che dico, di fronte a lei, e niente di più, un paio di volte!

‑Solo questo? Quella puttanella arriva tutta scollata, lei che ha così poco da mostrare! si contorce come un verme in calore dinanzi a te, e tu te la mangi con gli occhi. Così lei ha dimostrato a tutti che se volesse ti avrebbe ai suoi piedi. Avresti dovuto vedere la tua faccia! E questo dinanzi a tutti, dico, dinanzi a me!

Lui la guardò fugacemente, un po’ incredulo. Era vero che quella Maria era tutta una suggestione sessuale; era vero che un uomo dimenticava, assolutamente, com’era realmente fatta per avere solo la voglia di acchiap­parla, penetrarla e cancellare quel suo sorriso fra l’ebete e il provoca­torio: ma da questo a fargli una scenata! E meno male che Amelia non sapeva che Maria, sporgendosi per prendere il suo bicchiere, gli aveva fatto lungamente sentire il suo seno su un braccio. Ma lui non l’aveva presa sul serio. Era il tipo che ama provocare per poi dire: “Chi, io?”

‑Stai parlando sul serio? le chiese intanto. Mi fai una scenata di gelo­sia, mi telefoni che mi devi assoluta­mente parlare, solo perché ho ballato in una discoteca con una ragazza di cui non m’importa nulla? Stai dando i numeri?

‑Innanzi tutto non ti permetto di esprimerti così. Io non do i numeri e ho perfino dei testimoni: lo sai che Agata ha detto, ridendo, che tu prima l’avevi spogliata con gli occhi e durante il secondo ballo le stavi facendo la TAC?

‑E che m’importa di quello che dice Agata? Che magari vuole solo fare la spiritosa.

‑Ah, che t’importa, dici tu! Prima sono io che do i numeri, ora che ho una testimonianza, una testimonianza spontanea, bada bene, ora sono pazza io ed è pazza anche Agata! Vuole solo fare la spiritosa, nevvero?

Stefano, benché obbligato dal ritmo della discussione a rispondere imme­diatamente, pensò in un lampo che gli sarebbe piaciuto portarsi a letto Maria: ma che c’era di strano? Forse che la maggior parte degli uomini non sarebbe lieta di portarsi a letto tutte le donne che trova carine?

‑Amelia, cerchiamo d’essere seri. In primo luogo, io nego tutta questa scena di passione taciuta, in stile Primo Novecento. In secondo luogo, non vedo dove sia la tragedia. Allora, se un uomo ti guarda con desiderio ‑ e tu ne puoi suscitare più di Maria, credimi ‑ io dovrei farti una scenata di gelosia? Dovrei sfidare l’incauto Turiddu ad un duello rusticano?

Amelia alzò le spalle, stizzita:

‑Innanzi tutto, se anche fossi geloso, tu non lo ammetteresti mai. Perché sei un padreterno cui nessuno può fare concorrenza. E poi non fare il sofi­sta. Anche ammesso che tu voglia guardare le tette di un’altra donna, cerca di farlo quando non sono presen­te. La gente può pensare che sono una soluzione di ripiego per te. “Si tiene Amelia finché non avrà Maria”. Ci faccio la figura della scema.

‑Ma se ti lamenti che appena ti vedo, prima ancora di dirti buongior­no, comincio a spogliarti!

‑E che, devo dire, alla gente, “No, guardate, Stefano scopa già con me, oggi pomeriggio l’abbiamo già fatto due volte”? La tua è stata una scortesia, ecco tutto.

‑Onestamente mi pare una definizione eccessiva. Comunque se questa è la tua impressione, ti chiedo scusa. Credo che in realtà si sia avuta la coniuga­zione del tuo acume di donna gelosa con l’occhio vigile di quell’invidiosa di Agata.

‑C’è stata la coniugazione ‑ per usare il tuo parlare forbito ‑ fra il fatto che voi uomini siete dei maiali e che Agata ed io non siamo cieche.

Lui cercò di buttarla a ridere:

‑Ma se non fossi un maiale, poi che possibilità avresti di gridare sui tetti: “Oggi l’abbiamo fatto due volte, oggi l’ab­biamo fatto tre volte!”? C’è qualche vantaggio, con i maiali, non credi?

‑Sì, il cotechino.

‑Comunque tu voglia chiamarlo.

‑Sei volgare, concluse asciutta lei, scendendo dalla macchina. 

Ma la collera era passata. Infatti aggiunse:

‑Non starò a lungo, dirò a mia zia che ho un impegno. Se puoi aspettarmi mezz’ora poi andiamo a Mascalucia.

‑Perché no? rispose lui. Mi sono portato il libro per studiare.

Tombola!

 

 

Di ritorno dal deposito, nella retrobottega della farmacia, invece della dottoressa, trovò suo padre. Tanto meglio. In fondo meglio parlare senza intermediari, anche se suo padre un po’ lo intimidiva. Era un uomo riservato, serio e capace di lunghi silenzi da cui usciva a volte con osservazioni o soluzioni di stupefa­cente acutezza. Non raramente si aveva la sensazione di essere stati sciocchi a non pensarci prima.

‑Che c’è?

‑Niente, cominciò scioccamente Stefano. Io non ho mai fatto storie, quando si è trattato di andare a prendere medicinali: ma ora stiamo esagerando.

‑Esagerando? 

‑Ettore non può essere malato un giorno su tre o su due. Non che mi dispiaccia andare in giro a fare il garzone, ma devo studiare, sì o no? Stamattina, per una volta, non avevo lezione e contavo di uscire tardi, solo per presentare il verbalino, e invece arriva la telefonata…

‑Prima che lo dimentichi: ti ha cercato l’artista, lo interruppe suo padre.

‑Qui?

‑Aveva già telefonato a casa. Pare che sia urgente.

Aveva promesso a Igor che avrebbe riferito la sua chiamata al più presto, e al più presto la riferiva, anche se non gli era per nulla simpatico. “Questo giovane – aveva detto – crede che essere artisti conduca ad essere irregolari e bizzarri e che essere irregolari e bizzarri conduca ad essere artisti”.

‑Chiamalo e poi parliamo.

Igor al telefono si limitò pressoché esclusivamente a fissargli un appunta­mento, senza neanche chiedergli se avesse altri impegni, ma Stefano gli voleva bene e fece finta di niente.

‑Mi dicevi che non puoi fare questa vita, riprese suo padre, appoggiandosi comodamente alla spalliera.

‑Papà, non voglio essere melodramma­tico, ma se la mattina devo andare all’università e il pomeriggio, prati­camente tutti i giorni, sono costretto ad uscire per andare al deposito, quando studio?

‑Stasera alle otto e mezzo.

‑All’ora in cui viene Igor?

‑Appunto, concluse asciutto suo padre. Rinunci a vedere Igor, ad andare con quell’Amelia, a tutto, ma non a dare una mano in farmacia. Quello che mangiamo, i vestiti che abbiamo addosso, l’automobile, tutto viene da qui. Il tuo contributo fino ad ora è stato solo quello di fare un salto al deposi­to con la Vespa. È così terribile?

Stefano trovò che questo discorso, magari giusto, era stato fatto con malgarbo e protestò:

‑Ho forse fatto il difficile, io? Ti ho mai detto che a volte gli amici mi guardano con ironia, quando passo col sacco dei medicinali? Parlo solo di Ettore. Lui è pagato, per fare questo lavoro. Come mai è così spesso assen­te, che gli è preso?

‑Innanzi tutto, potresti chiederlo a lui. Ma vedo che hai dei dubbi sul fatto che stia veramente male. E per questo chiedo io a te: hai mai sentito parla­re di diritti sindacali, di conquiste dei lavoratori? Bene, lui sta conqui­stando il diritto a vacanze extra. E io non posso farci nulla.

‑Non che io lo stia proponendo, ma non teme di essere licenziato? 

‑No. È abbastanza. cretino da credere alle sciocchezze che gli raccontano. Però è un bravo ragazzo e spero che questa ubriacatura gli passi. Diversamente… Diversa­mente non avrò bisogno dei tuoi suggerimenti. Quello che non gli hanno spiegato è che, nelle piccole imprese, è il padrone ha il coltello dalla parte del manico. 

‑Francamente non mi piace come ne parli.

‑Ma guarda, rise il dottor Condelli. E aggiunse: ‑Mangi carne e preferisci dimenticare il mattatoio?

‑Come?

‑Finché ha dato fastidio a te hai chiesto provvedimenti, anche se pudi­camente hai parlato di licenziamento solo per escluderlo. Nel momento in cui ti dico che l’unica soluzione, una volta o l’altra, sarà proprio quella, ti scandalizzi: povero Ettore, povero Ettore. Però, se te ti disturba, me mi deruba. Perché anche nei giorni in cui non viene io lo pago. Vuoto per pieno. Ecco perché, finché non ho un’altra soluzione, tu devi fare la tua parte. A costo di non vedere Igor stasera. Poi, se Ettore non mette la testa a partito, si ritroverà disoccu­pato. Chiaro? Non venirmi ad insegnare né il mio mestiere di farmacista né il mio mestiere di padre.

Stefano rimase a guardarlo senza saper cosa rispondere, temendo di sbagliare misura in una direzione o nell’altra, ma fu suo padre che lo trasse d’imbarazzo:

‑Scusami, sono nervoso anche per i fatti miei. Vai a casa?

‑No. Te l’ho detto: devo andare all’università.

‑Ci vediamo a pranzo.

Si girò e si rituffò nelle sue carte. Poi, senza sollevare la testa, aggiunse: 

‑È comunque ovvio che cercherò di non disturbarti.

 

La fila per presentare il verbalino era talmente lunga che Stefano da prima la guardò distrattamente. Era con­vinto che se ne sarebbe anda­to. Poi pensò che il giorno dopo, probabilmente, avrebbe trovato ancora più folla e si dispose ad essere molto paziente.

I ragazzi, nonostante la noia dell’at­tesa, chiacchieravano e scherzavano. Nessuno parlava della fatica di stu­diare o del costo dei libri: tutti sembravano studenti per finta. Primi attori di commedia impegnati ad essere brillanti e adorabili. Forse dipendeva dal fatto che la gioventù, per gli uomini come per gli animali, è l’età della riproduzione: chi si presenta come vincente ha maggiori possibilità rispetto a chi si mostra sofferente. E, infatti, più di tutti scherzavano quelli che avevano accanto delle ragazze. In farmacia, invece, se c’era folla, la gente parlava mestamente della propria salute o del costo dei medici­nali. Raccontare i propri guai era una vicendevole e confortante conferma che la sconfitta era comune. 

‑Mi tieni il verbalino? gli chiese improvvisamente il suo compagno di fila.

‑Che hai detto?

‑Tienimi il posto, vado a comprare le sigarette, spiegò quello, un tizio occhialuto e magro.

‑Ragazzi, fra poco si fuma! gridò dietro di loro un ragazzone alto un metro e novanta, con i capelli biondo paglia.

‑Col cavolo, che fumi le mie siga­rette, gli rispose il suo vicino. Chi ti conosce? Il piccoletto era piutto­sto aggressivo.

‑Guardate questo stronzo, rideva il gigante, si rifiuta di offrire una sigaretta ai colleghi! Va bene, non ti preoccupare, ti faremo un esproprio proletario.

‑Se proprio avete voglia di godere, vi faccio un culo così. 

‑Ah ah! rideva ancor di più l’altro, dando una pacca al suo compagno di fila: Lo vedi perché è uno stronzo? Perché è una checca! 

‑E se anche fosse, una checca? intervenne piccata una ragazza che stava due posti in avanti. Se poi fosse negro oppure ebreo? Sarebbe ancora peggio?

‑Ehi calma, disse Stefano. Qui stanno solo scherzando, non ne faccia­mo un problema.

‑Fra l’altro, rise ancora il giova­nottone, io sono negro per parte di madre! Battuta che, visto il suo aspetto, fece ridere parecchia gente.

‑Much ado about nothing! disse uno che fino ad allora era stato zitto.

‑Che significa? chiese un altro.

‑Shakespeare: Molto rumore per nulla.

 ‑Ragazzi, siamo colti, da queste parti! gridò qualcuno e Stefano disse a voce bassa al suo vicino “Va’, va’, ma sbrigati”. E riprese il filo dei suoi pensieri.

Se lì ci fosse stato un vecchio avrebbe pensato che tutti quei giovani erano felici e spensierati. Ma era la verità? Lui personalmente non sapeva che senso avesse l’esistenza, se stesse spenden­do bene o male la sua vita, se studia­re farmacia fosse stata una buona idea. Forse avrebbe dovuto avere il coraggio di rinunciare al posto sicuro per seguire la sua vocazione e studia­re quello che veramente gli piaceva. O anche imbarcarsi come mozzo su una nave da carico. 

E poi dov’era l’amore, che pare sia un diritto, a quell’età? Dov’erano le passioni, gli entusiasmi, gli ideali? Anche a vent’anni la vita si arenava in una spenta quotidianità.

Una volta, almeno, ai tempi di suo nonno, c’era la scusa della miseria generalizzata. Ma ora? Molti uscivano con la macchina di papà e il sabato sera si formavano capannelli che ciondolavano chiedendosi stancamente: Si va in pizzeria? Si fa una gita? Si va a prendere un gelato? Che bagordi.

Ecco la giovinezza. “Si apprende faticosamente a vivere e, quanto ai divertimenti, si passa troppo tempo nelle sale d’aspet­to”.

L’unica cosa che somigliava alla gioventù, come la concepiva lui, erano le conversazioni con Igor. O quelle di un tempo con Nunzio e pochi altri. Solo che Nunzio era un disadattato e Igor finiva col fargli pagare caro i momenti di passione intellettuale che vivevano insieme. Lui stesso, in quel momento, si sentiva un disa­stro. Un disadattato, un narcisista e un fallito. 

Tornò il ragazzo delle sigarette e si ebbe l’inevitabile discussione con quelli, venuti nel frattempo, che credevano volesse rubare il suo posto nella fila. Stefano li mise facilmente a tacere anche perché parecchi altri, memori del battibecco, testimoniarono la verità. 

‑Grazie, disse infine il ragazzo. Vuoi una sigaretta?

‑Non fumo, grazie. Il giovane ebbe un momento d’esita­zione, poi si voltò e chiese al colle­ga alto e biondo: 

‑Ne vuoi una?

‑Neanch’io fumo. Ma grazie lo stes­so!

Aveva un sorriso così simpatico e aperto che Stefano lo invidiò.

 

3

 

Erano da poco passate le otto e mezzo quando Igor venne a prenderlo. La Mercedes di suo padre, bianca e nuova, spiccava fra le altre automobi­li come una prima ballerina. Sali, gli ordinò Igor: e mise in moto prima ancora che avesse richiuso lo sportel­lo.

‑Dove andiamo? 

‑A Valverde.

Col lungo silenzio che seguì Igor probabilmente voleva fargli impressio­ne. Voleva prepararlo ad una scena drammatica che doveva aver luogo nelle migliori condizioni. Ma aveva scelto il momento sbagliato: Stefano, stanchissimo, badava solo a lasciarsi cullare dalla strada che scorreva placida. 

Oltre tutto la settimana prima, mentre andava dal barbiere, aveva formulato il principio per cui “non ha senso preoccuparsi per qualcosa su cui non si ha influenza”. Era un giorno in cui aveva poco tempo e mentre cammina­va si diceva: che situazione sciocca! Se dal barbiere non c’è nessuno, mi farò tagliare i capelli; se invece c’è gente, avrò corso per niente. Ed ancora, può darsi che se mi affretto batterò d’un soffio l’unico cliente che potrebbe precedermi come può anche darsi che corra stupidamente solo per andare a vedere che avrò ancora più tempo da aspettare.

A pochi passi dalla barbieria, pensando che era tanto all’oscuro della situazione lì, a cinque metri dal locale, quanto lo era uscendo da casa, si convinse che aveva fatto troppe storie. Avrebbe dovuto dire, come tutti: esco, vado dal barbiere e se c’è poca gente mi faccio tagliare i capelli. “Non ha senso preoccuparsi per qualcosa su cui non si ha in­fluenza”. 

Anche in questo caso non c’era ragione di porsi domande. Tutto gli sarebbe stato raccontato per filo e per segno, magari un paio di volte e senza dargli il tempo di dire la sua.

Giunti nella villa, benché non facesse freddo, Igor accese il camino. Poi trovò in cucina una bottiglia di cognac con due bicchieri e sedette anche lui.

‑Non me lo fare pieno, chiese Stefa­no.

‑Tanto sono sicuro che lo berrai. Hai premura?

‑No. Quanto meno, ho un paio d’ore. La mattina devo alzarmi presto per studiare.

‑Quand’è che hai gli esami?

‑Il quattordici.

‑Io invece credo che sarò bocciato. E non me ne frega niente.

Qui, pensò Stefano, dovrei piazzare una fraterna ramanzina, ma le parole non gli uscivano di bocca. Igor cominciava a stancarlo. Da principio lo aveva sorpreso col suo sentire appassionato, con i suoi progetti, con la sua religione dell’arte. E nei loro contatti era stato come se ambedue non avessero avuto altro da fare al mondo che contemplare la bellezza, formulare sogni, analizzare e discu­tere ciò che di magnanimo offre la vita. Poi, sempre più spesso, si era accorto che la loro attenzione finiva col concentrarsi su un solo fenomeno: Igor, specchio di tutte le cose di cui valeva la pena di parlare. E col tempo si era insinuata una certa noia. Non che Igor gli fosse meno simpatico, riconosceva anzi che a volte era perfino gradevole nel modo di raccontare le cose: ma francamente si occupava troppo di se stesso.

Per il momento tuttavia si forzò a recitare la sua parte:

‑Fai male. Qualunque cosa ti succe­da, lo studio non dovrebbe risentirne. È il tuo futuro.

‑Ha parlato il parroco.

‑Sono stato promosso, rise Stefano. L’ultima volta mi avevi definito il grillo parlante. 

‑Secondo te uno che vede crollare il proprio modello di vita non ha altro da fare che buttarsi sui libri?

‑Il tuo modello di vita sarebbe crollato? chiese Stefano, riuscendo a non dare alla propria voce un tono ironico.

‑Il rischio c’è.

‑Hai litigato con i tuoi?

‑Che c’entrano i miei?

‑Hai litigato con Betta? 

‑Magari!

E cominciò a raccontargli che i genitori della ragazza, sapendo che loro due facevano da anni coppia fissa dappertutto, avevano cominciato a parlare di fidanzamento. Igor aveva ventitré anni, dicevano; anche se era in ritardo con qualche materia, presto si sarebbe laureato in architettura; era di buona famiglia e, a quanto pareva, voleva bene a Betta: perché diamine non dovevano ufficializzare la cosa? Perché mai Betta doveva essere solo la “ragazza” di Igor e non la “fidanzata”? La stessa Betta aveva protestato, con loro, dicendo che il termine fidanzati avrebbe fatto ridere Igor, ma padre e madre erano stati irremovi­bili: o era un rapporto serio, e tanto valeva che lui si dichiarasse ufficialmente, o non era un rapporto serio, e loro sarebbe­ro stati dispiaciutissimi se lei avesse continuato a frequentarlo.

‑Ti rendi conto? chiedeva furente Igor. Io, andare dai Russo a chiedere la mano di Betta! Magari con un bell’inchino e un mazzo di fiori per la signora!

‑Tolto il folklore, non ci vedo niente di terribile, obiettò asciutto Stefano.

‑Ma allora sei uno stronzo! gridò Igor. Uno stronzo totale! Lo sai o non lo sai che gente sono, i Russo? Dei salumieri! Anche se il loro è un grande negozio pieno di luci e di gente, sempre salumieri, sono! Di che vado a parlare, con suo padre, di zamponi e prosciutti? “Mi dica, signor Russo, come va la vendita delle olive condite? E nel frattempo, mi permette di far l’amore con sua figlia?” Poi hanno una casa di pessimo gusto. Anche se gli è costata un mare di soldi, ogni volta che ci sono andato ho chiesto a Betta di uscire al più presto. Il loro salone mi dà il mal di mare. E dovrei presentarmi, tutto compunto, a chiedere di essere ammesso in quella famiglia?

Scuoteva la testa nervosamente come se avesse voluto far cadere dai capelli la stupidità della frase di Stefano.

‑Betta non è orfana.

‑Peccato! È proprio un peccato. E comunque, significa che devo sor­birmi anche la sua famiglia?

‑Perché non provi a vedere la cosa anche dal loro punto di vista?

‑Mai! Vedere la cosa dal loro punto di vista? Mai! Stai cercando di farmi arrabbiare? Se scendessi al loro livello non è neanche detto che riu­scirei a risalire a galla. Toh, ti riempio di nuovo il bicchiere.

‑No, solo un dito. Igor, cerca di ragionare: Betta non è orfana e voi non siete i Capuleti e i Montecchi. Dunque non le puoi chiedere di rinnegare i suoi. Questi Russo sono onesti commercianti, non ti hanno fatto nessun male e soprattutto non hanno fatto nessun male neanche a lei. Se Betta si veste bene, se ha un’automobile personale e se ha potuto permettersi di stare a Londra un intero anno, lo deve ai suoi.

E qui si aprirono le cateratte. Igor, non che prendere in considera­zione quelle argomentazioni, si lanciò in una lunga perorazione. I Russo, coscienti della loro abiezione intellettuale, avevano voluto che la figlia fosse migliore di loro, giusto? Il guaio era che c’erano riusciti. Tanto bene che s’erano persi i contatti. Per essere più precisi, avevano reso Betta tanto differente da loro che lui aveva potuto farne la sua ragazza. E tuttavia – ora era chiaro – lei era rimasta abbastanza una Russo per non comprendere le sue esigenze di libertà e di eleganza. Forse li prendeva sul serio per affetto, i suoi genitori: ma avrebbe dovuto gridargli sul muso che nessuno aveva il diritto di interferi­re nella loro vita sentimentale e sessuale! Diversamente non aveva capito nulla, di lui. Chiunque ha un minimo di buon gusto non può essere invischiato nelle convenzioni dei piccoli borghesi. Di gente come i Russo! Se Betta avesse insistito l’avrebbe mandata al diavo­lo. Che diamine, non era l’unica donna della terra!

‑A questo punto, se ti sentissero, i suoi genitori concluderebbero che hanno ragio­ne. La vostra non è una relazione seria.

Igor lo guardò con attenzione:

‑Lo fai apposta per farmi andare in bestia?

‑Ma i Russo avrebbero torto. Perché per te la relazione è seria così.

‑E mi pareva!

‑No, un momento, mi spiego. Avrebbe­ro torto perché a te Betta interessa. Altrimenti non staresti qui a discute­re e le avresti già detto che fra voi è finito tutto. Tuttavia…

‑E che cosa ti fa pensare che non gliel’abbia già detto? O che non glielo dirò?

‑Avete rotto?

‑No, ma ci sto pensando. O di che altro stiamo parlando?

‑Fammi dire come la penso. Ti voglio mostrare il punto di vista dei Russo. Dunque, il toro entra nell’arena vigoroso ed eccitato. Non solo non sa nulla di corride ‑ e infatti i tori sopravvissuti non vengono mai riuti­lizzati per lo spettacolo ‑ ma si sente così forte, così sicuro di sé, che cerca gli avversari. È lui che vuole strapazzare gli altri, è lui che cerca la battaglia. Poi sappiamo come finisce. Credo che nella vita avvenga la stessa cosa. Noi giovani ci sentia­mo immuni da ogni convenzione, indoma­bili e invulnerabili. E invece il tempo ci vince, in macchina ci rompia­mo l’osso del collo più spesso degli altri e alla fine ci ritroviamo padri di famiglia come i nostri genitori. Perché anche i nostri genitori hanno cominciato, come noi, col sentirsi invulnerabili, invincibili, ecc.

‑Se ho capito bene devo chiedere a mio padre di comprarmi una salumeria, lo schernì Igor.

‑Sto dicendo che normalmente avere per anni la stessa ragazza conduce al matrimonio esattamente come la tua laurea in architettura ti condurrà all’iscrizione all’albo degli archi­tetti. Che c’è di strano?

‑Di strano? Di strano c’è che tu dici cazzate grandi quanto una casa. Allora secondo te tutti gli uomini che stanno con una donna la sposano? Ma dove vivi?

‑Io non ho detto una donna, ho detto esattamente una ragazza. Se Betta avesse trent’anni e vivesse per i fatti suoi, probabilmente il problema non si porrebbe. Ma lei vive ancora con i suoi genitori. E a spese dei suoi genitori.  I quali potrebbero anche sentirsi chiedere dagli amici, con atteggiamento falsamente casuale: come mai Betta e Igor non si fidanzano ufficialmente? Volendo dire: che fa, va a letto con vostra figlia in attesa di meglio? Non dimenticare che loro, per usare la tua definizione, sono salumieri, anche se ricchi, mentre tuo padre è professore d’università. È tanto strano?

Questo diede la stura ad ulteriori proteste e proclami, da parte di Igor, ma Stefano non rispose più se non con frasi di circostanza del tipo “Certo, se la metti così”, oppure “Se fosse questo che vogliono avresti ragione, certo”. A che scopo discutere con qualcuno assolutamente ostinato nel vedere esclusivamente il proprio convincimento? Qualcuno che non aveva parlato neanche una volta della situazione imbarazzante in cui si trovava Betta. 

Il problema erano i signori Russo che s’intrudevano nella sua vita. E Betta, a sentir lui, era più sua che loro. Anche se loro l’avevano messa al mondo, l’aveva nutrita, l’avevano mandata a Londra, era lui che l’amava; lui che le aveva insegnato cosa fosse la poesia e la bellezza; lui che l’aveva tirata fuori da quell’ambiente!

 E Stefano pensava: “Forse sono un salumiere anch’io”.

 

4

 

‑Ventisei. Contento?

‑Certamente, la ringrazio. 

Ma alzandosi si accorse di essere più deluso che sollevato: si sarebbe aspettato di più. 

‑Quanto hai preso?

‑Ventisei.

‑Bravo. Ti ha fatto domande diffici­li?

‑No. Normali.

‑Che ti ha chiesto?

Svincolandosi dal gruppetto dei colleghi ancora in ansia, rifletteva che gli esami hanno qualcosa di assurdo. Fino a qualche minuto prima tutti quei concetti, tutte quelle formule occu­pavano interamente il suo cervello: ma poiché non aveva ancora superato gli esami, per il mondo intero non li conosceva. Ora aveva superato gli esami e poteva serenamente dimenticar­li, visto che sul libretto c’era un voto e una firma. In fondo è proprio quello che pensano i raccomandati. Possibile che bisogni faticare tanto, per un numero e una firma? Lui non avrebbe mai accetta­to una raccomandazione, tuttavia. Da ragazzo aveva adottato come un vangelo le parole di Cyrano: “Salire, anche non molto in alto, ma da solo”. Purtroppo, Cyrano era un personaggio immortale, mentre lui non era nessuno. 

Forse non si ha scelta. Ognuno segue il proprio temperamento e gli anni vissuti da adolescente, in parrocchia, lo avevano marchiato per sempre. Aveva assaggiato il metro ultraterreno ‑ un metro che rendeva ridicole le ambizio­ni correnti ‑ e, anche perdendo la fede, aveva mantenuto l’orgoglio metafisico. Aveva cumulato gli svantaggi.

Forse pensava a tutto questo per non occuparsi di ciò che lo umiliava intimamente: la delusione del voto. Non aveva senso ‑ proprio in base a quell’orgoglio metafisico ‑ interessarsi tanto di qualcosa che era ormai immodificabile, che si sarebbe allontanato nel tempo fino a divenire un piccolo dato polveroso nell’archi­vio dei suoi ricordi. Avrebbe dovuto trattare con indiffe­renza, immediatamente, ciò che avrebbe trattato con indifferenza sei mesi dopo. “Ma non sono passati sei mesi e ho il diritto alle mie emozioni d’oggi!”, protestò infine.

Doveva confessarselo: ventisei andava certo bene, soprattutto visto che aveva studiato poco. Ma per come era andato l’esame avrebbe dovuto avere almeno ventotto. Del resto il professore gli aveva detto “Vedo che lei ha capito il nocciolo della materia”. Non era una grande complimento? A meno che non avesse inteso dire “Vedo che lei ha capito il nocciolo della materia, se non altro”. Tuttavia, anche in questo caso…

Camminava ad occhi bassi verso casa, come un sonnambulo, e per fare chia­rezza formulava mentalmente delle frasi: “Per il tempo che ho passato a studiare, avrei dovuto essere boccia­to e per quello che sapevo meritavo all’incirca venti: questo dal lato negativo. Ma per come ho risposto forse meritavo trenta e infine, considerando che ho risposto così pur avendo stu­diato poco, meritavo trenta e lode”. Qual era il voto giusto?

La verità era che il voto giusto non esiste. “Io pretendo trenta e lode perché ho una capacità di apprendere superiore alla media, mentre lo sgobbone potrebbe fare il discorso inverso: ‘Merito ventisei, ma dovreste darmi trenta e lode in rico­noscimento dell’enorme sforzo fatto’. Dunque la giustizia si adatta agli interessi di chi ne formula i criteri”.

‑Ci sono ancora esami? gli chiese un collega che andava nella direzione opposta, facendolo sobbalzare.

‑Sì. Il professore è ancora lì.

‑Tu hai fatto esami? Quanto hai preso?

‑Ventisei.

‑Accidenti, bravo! E che t’ha chie­sto? 

Stefano rifece la sua succinta rela­zione, che l’altro a mano a mano com­mentava: “Questo non l’aveva mai chiesto!”, oppure “Anche questo chiede, quel figlio di puttana?” e spesso “Questo lo chiede a tutti!”.

‑Ma come fai a sapere cosa chiede di solito?

‑Io assisto a tutti gli esami, prima di presentarmi. I professori hanno tendenza a fare più o meno sempre le stesse domande e io ne tengo conto. E anzi scusami, ma scappo via.

Sarà utile ma è miserabile, pensò Stefano. 

Innanzi tutto era miserabile voler superare un esame con questi sistemi. Che importava quello che il professore chiedeva più spesso? Non si trattava di conoscere un professore, si tratta­va di conoscere una materia. Ovviamen­te le domande che erano poste più spesso riguardavano ciò che era più importante, ma non credeva affatto che costui andasse ad assistere agli esami solo per sapere quale fosse l’essen­ziale della materia. Una persona intelligente l’avrebbe capito da sé e avrebbe speso più utilmente quel tempo a casa propria, a studiare. In realtà a costui interessava soltanto il metodo più semplice per superare gli esami. “Ognuno ha i suoi sistemi, tuttavia”.

Ma il suo proprio sistema, forse, era il più cretino. Lui era troppo in alto per copiare, a scuola. Troppo orgoglioso per spiare gli esami degli altri, per cercare scorciatoie. “Tu sei un nobile francese ad Azincourt, gli aveva detto una volta Igor: il nemico usa l’arco, arma sleale, e tu ti lasci infilzare da un contadino. Ma non per questo cambi sistema di com­battimento”.

Forse era la verità. Ma, dopo tutto, pensò con ironia, questo atteggiamento non l’avrebbe certo costretto a subire la fame come Cyrano: lui era stato tanto furbo da essere figlio di farmacista!

Arrivato a casa trovò per l’appunto suo padre, tornato prima del soli­to, che leggeva sprofondato nella solita poltrona.

‑Ciao papà.

‑Ciao. Fu dopo qualche tempo che, riscuo­tendosi e alzando gli occhi dalla pagina, gli chiese:

‑Ma tu non avevi esami, oggi?

‑Sì. Ho avuto ventisei.

‑Buon voto. Bravo.

Accidenti, era quasi provocatorio! Non si aspettava certo che facesse salti di gioia, ma che gli chiedesse almeno se era il voto giusto, se era contento, com’era andata… Invece, una volta che aveva cercato di raccon­targli maggiori particolari, e in particolare che il professore era stato scorretto, suo padre aveva tagliato corto dicendo semplicemente “succede”. E s’era rituffato nella sua lettura. 

La teoria del dottor Condelli era che il suo dovere di padre si esauriva nel volergli bene, mantenerlo e pagargli l’università. Il resto era affar suo. La cosa più terribile era che lui stesso, Stefano, gli dava ragione. A volte era ferito dal suo cinismo ma spesso si sorprendeva ad imitarlo. Purtroppo, la religione della realtà che li accomunava era tutt’altro che consolan­te.

Non gliela volle dare vinta, tutta­via:

‑Ventisei è più di quanto meritavo per come ho studiato ma meno di quanto meritassi per come ho risposto.

‑Di fatto, quanto meritavi?

‑Ventiquattro? E poi, aggiunse cercando di essere sottile, che vuol dire “di fatto”? Esiste l’oggettività?

‑Se non esistesse, come faresti a porti la domanda di quanto meritavi? Comunque ascolta: non è importante il voto, importante è che hai imparato qualcosa e hai una materia di meno da studiare. Il giudizio sul voto è l’incontro di due soggettività, quella del professore e quella dell’esaminando: in totale, quanto di più opinabile. Fregatene. E comunque un ventisei non ti rovina neppure la media.

‑Hai ragione, ovviamente. Ma a poco tempo di distanza non è facile. Ti confesso che sono un po’ deluso.

‑Il tempo guarisce tutte le ferite.

‑E mors omnia solvit.

‑Sei macabro, sorrise suo padre. Andiamo a vedere se il pranzo è pron­to.

“Ecco perché sono già vecchio: perché ho Matusalemme, come padre”. 

 

 5 

 

Fu mentre aspettava che gli aprisse­ro la porta della retrobottega che Stefano riconobbe Nunzio Scardilli in quel giovane appoggiato al bancone della farmacia in attesa del suo turno. E improvvisamente ebbe la sensazione di fare un salto nel passa­to, come se fossero trascorsi solo pochi giorni da quando era andato in seminario. 

Oppresso da una famiglia plumbea e personalmente nient’affatto brillante, Nunzio pareva nato per arrancare dietro gli altri, per accontentarsi delle briciole. Non protestava mai se era scelto per ultimo, per la squadra di calcio: e del resto giocava vera­mente male. Non si offendeva mai per le ironie sui suoi immaginari e inverosimili trionfi con le ragazze. Non si ribellava neppure contro le piccole angherie che subiva e contro le quali Stefano l’aveva difeso in più occasioni. Si sarebbe detto che avesse accettato l’idea che Dio l’aveva messo al mondo per colma­re un vuoto, quello dell’ultimo in classifica. 

Se qualcuno si fosse preso la briga di dialogare con lui, a quattr’occhi, avrebbe invece scoperto che Nunzio, nonostante il suo aspetto insignificante, aveva una vita intima ricca e complessa. Stefano queste qualità le aveva intraviste e gliene aveva dato atto: e tuttavia, lo scoraggiante senso di sconfitta che aleggiava intorno a lui aveva finito col rendere rare le conversazioni.

Poco prima che il gruppo si disgre­gasse, Nunzio aveva detto che voleva farsi prete ed era stato come se per tutti, ed anche per Stefano, quella scelta fosse stata la più naturale del mondo. Non solo il giovane era mite e gentile con tutti ma in Cielo gli ultimi saranno i primi. Qualcuno, più pessimista, pensò che per la realtà corrente era poco dotato ed era naturale che volesse vivere inseguendo un sogno o una missione.

 Il sorriso radioso con cui si riconobbero e si buttarono l’uno nelle braccia dell’altro fu perfettamente sincero.

‑E che ci fai qui in città? Non eri in seminario?

‑Sono in città per mia madre che non sta bene. Ma tu, piuttosto, che ci fai, da queste parti? Non abitavi nel quartiere San Benedetto?

‑Io abito ancora a San Benedetto, ma tu non l’hai vista l’insegna, qui? Farma­cia dott. Condelli, mio padre. Aspetta che do questi medicinali e poi stiamo un po’ insieme. Tu che ricetta hai? Dalla a me.

 

Poco dopo, seduti su una panchina pubblica, con i piedi comodamente appoggiati sulla Vespa di Stefano, cercarono di mettersi al corrente di tutto ciò che era successo dall’ultima volta che si erano visti. Stefano gli parlò dei suoi studi, d’Amelia, del fidanzato di sua sorella e Nunzio gli parlò della sua vita quotidiana e dei problemi che anche in quell’ambiente si possono avere.

‑Il seminario è un posto meraviglio­so, diceva, un posto in cui la divina follia della croce è norma per tutti. In cui puoi dire di amare Gesù senza che la gente ti rida in faccia: e in questo senso sono contento. Ma è un posto umano come gli altri, purtroppo. Una famiglia allargata, che come tutte le famiglie non è perfetta. Personal­mente credevo che la fede rivoluzio­nasse l’individuo ma mi devo arrendere all’esperienza: anche in seminario gli uomini rimangono uomini e non diven­gono angeli. Forse sono un disadattato io…

‑In realtà, cercava di rincuorarlo Stefa­no, il vero credente dev’essere un disadattato. “Segno di contraddizione”. Forse gli altri, se si dicono credenti, e nel frattempo rimangono normali, sbagliano più di te, in seminario..

‑Il solito filosofo, sorrise Nunzio. Io ho parlato di follia della croce e tu mi dici che, se sono pazzo, sono perfettamente adatto a quella follia.

‑E non è vero?

‑No, non nella vita quotidiana. Purtroppo. Anche in seminario ho la sensazione che quasi tutti ragionino in un modo e vivano in un altro. Il rettore, per esempio, è un bifolco ambizioso. È felice del comando e della sua posizione, altro che valori metafisici, altro che Discorso della Montagna! E se ti ordina una stupidaggine devi farla. Se ti maltratta non devi reagire. Perché in quel caso diviene ultraortodosso, a spese tue. La fede, che forse lui non ha più, da te la pretende eroica. La sua posizione gerarchica gli permette di dire agli altri che cosa è bene e che cosa è male.

‑Ma tu puoi consolarti perché il tuo metro è al di sopra di lui. Il rettore ha solo la misura del mondo e se fallisce è un fallito. Tu invece hai un criterio diverso. Se le tue vittorie e le tue sconfitte sono registrate su un’altra lavagna, che t’importa del rettore? Cristo è forse un fallito, solo perché è stato condan­nato e crocifisso come un malfattore?

Nunzio lo guardava smarrito. Poi trovò il coraggio di fare la domanda che gli saliva alle labbra:

‑Hai dunque ritrovato la fede? 

Stefano rise di cuore e gli dette una pacca sulla spalla:

‑Pezzo di scemo, ma che hai capito? È vero, ho risolto tutti i miei dubbi: ma nel senso che non credo nemmeno all’esistenza di Dio. Dal mio punto di vista il tuo è tutto un mondo di favole e sogni. Parlavo per te, coerentemente con le tue idee. Partivo dalle tue con­vinzioni, non dalle mie! Se dovessi essere sincero dovrei dirti di piantare tutto e di tornare a vivere qui in città, come viviamo tutti.

‑Accidenti, si complimentò ridendo il semi­narista. Non t’offendi se t’invito per un quaresimale nella mia chiesa, appena me ne daranno una? Ti presenterò dicendo: abbiamo fra noi il nuovo Iacopone da Todi, il nuovo san Domenico… C’è solo un piccolo incon­veniente: non crede una sola parola di quello che dice.

Parlarono ancora e scherzarono finché non si fece un silen­zio. E Nunzio riprese con serietà:

‑Ma veramente sei sicuro di non credere più in niente? Come la vivi, questa cosa?

‑Come vuoi che la viva? Male.

Nunzio non si aspettava una risposta tanto rapida e risoluta:

‑E allora perché non credi?

‑Certo, se riuscissi a credere che Parigi è a cento chilometri da qui, avrei un motivo di gioia. Passerei una bella settimana sognando la gita del prossimo week end. Ma non riesco a convincermene. Perché dovrei anche convincere gli atlanti, la storia e la geografia. Francamente troppa roba.

Stefano gli parlò della serenità che può dare l’avere accettato la realtà com’è. Soprattutto la serenità che si ottiene avendo la sensazione che l’esperienza quotidiana ci conforta nelle nostre convinzioni, anche se queste convinzioni non sono molto consolanti. Nunzio invece gli raccontò che a volte, pregando, si era sentito così intimamente legato a Gesù, così divinamente in compagnia, che quei momenti l’avevano ripagato di molte amarez­ze. Avevano punti di vista opposti e tuttavia si capivano. Ciascuno addirittura invidiava sottilmente i vantaggi della posizione dell’altro. Poi, benché Stefano gli avesse fatto guadagnare tempo accompagnandolo con la Vespa, si fece tardi e fu necessario separarsi. 

Tornando a casa Stefano si sentiva contemporaneamente euforico e intristito. Era contento di avere potuto, dopo tanto tempo, parlare seriamente di quei problemi. Era depresso perché Nunzio, benché avesse anche riso e scherzato, non aveva perso l’alone di tristezza di quando era ragazzino. 

Neanche in seminario aveva trovato la pace. 

 

 6

 

‑Nessun dubbio, non è un semplice ritardo, disse Amelia. 

-Va bene, fra poco ne parlia­mo. Sarò da te fra una ventina di minuti.

Chiudendo il telefono pensò che probabilmente in seguito avrebbe chiamato quella sera “la più lunga serata della mia vita”. Aveva ricevuto una tale mazzata che non sapeva più a cosa paragonarla. Al momento in cui ci si sente dire che sì, è cancro? Al momento in cui si riprendono i sensi in un’auto con la quale abbiamo ammazzato qualcuno e siamo mezzo morti noi stessi?

Qualcuno avrebbe potuto obbiettare che Amelia incinta non equivaleva al cancro: ma era lo stesso il crollo di tutta la sua vita. E poi, com’era successo? Lui non aveva mai commesso un’imprudenza. Ne era assolutamente sicuro. E allora, com’era successo, com’era successo, com’era possibile che fosse successo?

Sentiva in gola un tale disgusto che non si sarebbe stupito se avesse vomitato. Ma, almeno, Amelia avrebbe capito che doveva abortire? Perché aveva strane idee, su certi argomenti. Era dei tanti che non sono cattolici praticanti ma ogni tanto ti tirano fuori dei principi religiosi che, per l’occasione, diven­tano indefettibili.

Si accorse di odiarla. No, un momen­to, che c’entrava lei? Non era giusto detestarla solo perché ora costituiva un problema. Eppure si scopriva a desiderare ardentemente di non averla mai incontrata; si accorse di odiare il proprio pene, la propria sessuali­tà, tutto ciò che per il piacere di qualche secondo lo metteva in tali guai…

Sulla porta di casa incontrò sua sorella Elsa che rientrava:

‑Oh, sei qui. La macchina ti serve, questo pomeriggio? le chiese

‑Sì.

Stefano alzò le spalle e stava per uscire quando sua sorella gli cinguet­tò ironica:

‑Il nostro genio ha i calzini scom­pagnati.

‑I calzini si possono cambiare, certe teste no.

‑Eh, ma siamo nervosi!

‑Vai al diavolo. 

Forse notando in ritardo che lui era piuttosto turbato lei aggiunse:

‑Se proprio ne hai bisogno…

‑Non fa niente, vado con la Vespa. Ciao.

Elsa, da quando s’era innamorata di uno scervellato di bell’aspetto, era diventata fatua, irridente e aveva deciso di ironizzare sulla sua vita d’intellettuale. Prima aveva cercato di essere pensosa e colta. Riflet­teva perfino sulla religione e sull’etica. Ora invece si comportava in maniera tale da far pensare a quel volgare detto per cui una donna ha le idee dell’uomo che se la porta a letto. Comunque, in quel momento, non avrebbe sopportato neanche un normale buongiorno, da lei. E forse da nessun altro.

Quando finalmente arrivò in via Cavour trovò Amelia che l’aspettava.

‑Sei venuto con la Vespa?

‑Perché, non lo vedi?

‑Senti, non mi rispondere così! È ovvio che ti chiedo perché non sei venuto in macchina.

‑Ed è ovvio che sono venuto in Vespa perché le automobili non erano disponibili. Senti, abbiamo cose più serie di cui parlare. Sali. 

‑Guida con calma.

“Invece le altre volte ho cercato di ammazzarti”, pensò lui. Ma stette zitto.

Quando finalmente furono seduti ad uno dei tavolini sotto gli alberi di piazza S. Maria ed ebbero ordinato un gelato, Stefano si propose di essere dolce e comprensivo. Non che sentisse di esserlo ma una discussione aspra avrebbe solo potuto peggiorare le cose.

‑Innanzi tutto, come ti senti? 

‑Benissimo.

‑Ho sentito dire che i malori comin­ciano dopo qualche settimana.

‑Il problema non è questo. E lo sai. 

‑Ovvio.

‑Il problema è che a casa mia è successo il finimondo.

‑A casa tua…

‑Certo! Chi credi che me lo paghi il ginecologo, chi le paga le analisi?

‑Ma scusa, perché non lo hai detto a me? Ti avrei dato io, i soldi! È pazzesco! Ma perché diavolo l’hai voluto dire ai tuoi?

‑E perché non avrei dovuto? Innanzi tutto mia madre sapeva del ritardo.

‑Ma lo sapeva perché gliel’avevi detto tu!

‑E perché non avrei dovuto dirglie­lo?

Stefano era assolutamente furente. Sconvolto. Ripensò a quando si era detto “è come se ti dicessero che hai il cancro” e aggiunse: “un cancro galoppante”. Ma fece uno sforzo ercu­leo:

‑Amelia, fammi capire. Tu hai voluto dirlo ai tuoi genitori? Perché, se posso saperlo?

‑Perché loro non acconsentirebbero mai ad un aborto. Sono contrari. E lo sono anch’io. Sicché, prima o poi…

E alzò le spalle. 

Stefano rimase a guardarla. Era la solita Amelia, anzi forse più tranquilla del solito. Aveva l’aria di dire: sono incinta, e con questo?

‑Ma noi non ce lo possiamo permette­re, di avere un figlio. Io mi laureerò fra anni, tu chissà quando lavorerai, siamo ragazzi, dopo tutto…

Lei lo guardò con un sorriso di scherno:

‑Ma già capaci di mettere incinta una donna.

‑A proposito, com’è andata? Io non ricordo di avere sgarrato una volta. Quella volta che il preservativo era sceso verso la punta, forse? O forse… Anzi, cominciamo dal princi­pio: ti hanno potuto dire quand’è che sei stata fecondata, risulta dai calcoli?

‑Sì. All’incirca il diciotto dello scorso mese.

‑Il diciotto? Il diciotto! Ma è dopo che tu avevi avuto le mestruazioni, insomma nel periodo in cui tu mi avevi detto che potevo andare tranquillo, che non c’era nessun pericolo.

‑Mi sono sbagliata.

‑Come, ti sei sbagliata? È per caso in quei giorni quando io esitavo e tu mi hai rassicurato, dicendomi che di queste cose ne capisci più di me?

Stefano la guardava come Otello avrebbe guardato Jago se avesse saputo che era un calunniatore.

‑Mi sono sbagliata, te l’ho già detto. Devo aver calcolato male un paio di giorni.

‑Ma io ti ho sempre detto di non fare i calcoli stretti al giorno, di essere prudente!

‑Senti, mi vuoi dare legnate perché mi sono sbagliata? Fra l’altro, con la fecondità di una donna non si sa mai. Chiedilo a chi vuoi.

La discussione andò avanti ancora per qualche tempo e Stefano aveva sempre più la sensazione che la diffe­renza fra la propria disperazione e l’atteggiamento d’Amelia era che, mentre per lui l’idea di sposarsi subito, e di sposare Amelia, era assurda, per lei si trattava di prose­guire in altro modo e con altro titolo la loro relazione. Accennava già al fatto che i suoi li avrebbero aiutati economicamente. Che dopo tutto non dovevano per forza sposarsi immediata­mente. Che non era cascato il mondo. Ma per Stefano era cascato eccome. 

Non solo si trovava invischiato in una situazione orribile ma ci si trovava col sospetto che Amelia lo avesse fatto apposta o quanto meno con l’atteggiamento di chi si dice ipocri­tamente: “io non cerco di ottenere questo risultato, ma se l’ottengo tanto meglio”. 

Per giunta si dichiarava contro l’aborto! Uno si può permettere un errore se accetta l’interruzione di gravidanza. È una seccatura, è uno stress per il corpo della donna, tutto quello che si vuole, ma è un rimedio. Se al contrario si gioca senza rete… 

Se solo gliel’avesse detto! Se solo lui avesse avuto il minimo dubbio! Avrebbe indossato un preservativo per ogni rapporto, anche nei momenti arcisicuri. E forse era stato un cretino già così. Non avrebbe dovuto aspettare che fosse lei a dirgli vai tranquillo o stai attento, mettiamo il preserva­tivo o non lo mettiamo. Avrebbe dovuto lui stesso adottare costantemente misure di prudenza. Ma come avrebbe potuto immagi­nare che lei fosse superficiale col proprio corpo? O era superficia­le con la vita di lui? 

Nel frattempo la conversazione andava avanti, addirittura con sempre meno calore. Stefano era ridivenuto cortese come si è in una discussio­ne fra estranei, anche se dentro aveva una tempesta. I fatti sono fatti e non serve a niente strapparsi i capelli. Inoltre, un’elementare prudenza gli consigliava di mantenere un atteg­giamento che non precludesse nessun futuro sviluppo. Almeno finché non avesse deciso se Amelia l’aveva fatto apposta o no.

Quando la riaccompagnò a casa, baciandola sotto il portone, si accor­se di sentire un sottile schifo per il suo profumo.

 

7

 

Vide arrivare Angela da lontano e, nonostante le preoccupazioni del momen­to, si sorprese a ridere. Era vestita in maniera provocante, con una mini­gonna elastica che la svestiva più di quanto non la coprisse e una camicetta di raso che sottolineava i suoi seni alti e sodi. Le scarpe coi tacchi alti la facevano ancheggiare pericolosamen­te e i capelli lunghi, di cui accen­tuava il naturale colore castano fino a renderli biondi, la facevano somi­gliare alla pubblicità di uno shampoo. Molti uomini si giravano a guardarla.

Non che Angela non fosse attraente, anche per Stefano, ma quella femminilità teatrale a lui risultava incongrua e un po’ comica. Per lui era soprattutto un’amica intelligente e colta. Inoltre era incomprensibile che, dopo essersi vestita come un’eroina da fumetti, dimenticasse tutto questo e ridivenisse se stessa: una che camminava in maniera sgra­ziata, praticamente sempre correndo e che, per la vanità di non portare gli occhiali, non salutava nessuno, per la strada. Per l’ottima ragione che non vedeva nessuno oltre il metro. E infatti, parlando con qualcuno, a volte scattava aggressivamente in avanti: l’altro sobbalzava ma lei voleva, semplicemente, vedere in faccia l’interlocutore.

Per fortuna c’era spesso bel tempo e questo, almeno all’esterno, le consentiva di portare gli occhiali da sole. Rigorosamente graduati.

Ma Angela era una persona intellettualmente preziosa. Se non si trattava di un uomo dal quale sentiva il bisogno di farsi corteggiare, era capace di mettere in imbarazzo chiun­que con la sua logica e il suo buon senso.

‑Ella arrivò, Venere in minigonna! la salutò Stefano.

‑Ma quanto sei stronzo! Non c’è una volta che non mi sfotti, protestò. E sbatté la borsa su una sedia. Poi lo guardò in faccia e gli chiese seria­mente: Sono vestita male? 

‑Ma no, Angela, al contrario. Rischi lo stupro su tutti i marciapiedi, se è per questo.

‑Suvvia, smettila. Lo so che te ti faccio ridere e non me ne importa nulla. Dimmi la verità.

‑Non sei vestita male. Sei troppo provocante, ecco tutto.

‑Se è solo questo sono contenta. Tiè. 

‑Con quella testa, non puoi privarti dell’ammirazione del portalettere e del macellaio?

‑È un vecchio discorso, lasciami in pace. Piuttosto tu, dimmi, che è questa storia con Amelia?

C’era tutta Angela, in quest’ap­proccio. Da prima, benché sapesse che lui era nei guai, non si era privata di controllare il proprio aspetto in uno specchio disinteressato. Poi, al momento di passare all’ordine del giorno, lo faceva senza preamboli e senza delicatezze. Ma Stefano le voleva un gran bene anche per questo. Angela era coraggiosa, onesta, senza ombre. Se qualcosa si poteva rimproverar­le era una mancanza di dramma intimo, ma nient’altro. Sei come una corda di violino senza violino, le aveva detto una volta. Emetti un suono puro e perfetto ma manca la cassa di risonan­za. Forse, aveva concluso, è solo che sei straordinariamente sana di mente. Non hai nessuno di tutti i problemi che uno come me s’inventa.

‑Non è che sono una scema? aveva chiesto lei, preoccupata: e avevano riso insieme. 

Stefano le raccontò tutto mentre lei se ne stava lì ferma ad ascol­tarlo, con aria intenta e senza dire una parola. Immagazzinava mentalmente tutti i dati. Alla fine, contrariamente a quanto lui si aspettava, non sbottò in un consiglio risoluto ma prese a far domande:

‑Francamente, non vedo dove sia il problema. Se Amelia ti piace, se è la tua donna, perché non dovreste avere un figlio? E non dovevate sposarvi, voi, una volta o l’altra?

‑Angela, hai sbattuto la testa? Io non intendo sposarmi. Soprattutto a quest’età e soprattutto con Amelia: chiaro?

‑Ah no? E allora perché è la tua ragazza?

Stefano le spiegò che non sempre ci si mette con una persona dell’altro sesso convinti che sarà il nostro partner fino alla morte. E soprattutto che l’idea di farne il nostro partner fino alla morte dipende da come va il rapporto. Se ci si accorge che i caratteri non vanno bene insieme, è inutile fare grandi progetti. Inoltre con Amelia, confessava, era cominciata senza impe­gno, perché era una bella ragazza. 

-Insomma, le voglio bene e mi piace fare l’amore con lei, nient’altro.

‑Che porco!

‑Quale porco? Io non le ho mai parlato di matrimonio e non le ho mai detto di essere innamorato di lei. Le ho solo detto che mi piace e le voglio bene. Ed è vero.

‑Ma lei ha presunto che tu l’amassi, che magari eri solo ostile a certe espressioni un po’ melodrammatiche, tipo “ti amo”.

‑È semplice, ha presunto male.

‑No, insisto, sei un maiale, confer­mò lei, cercando febbrilmente una sigaretta nella sua borsa stracol­ma.

‑Angela, non fare la moralista. Oggi tutti vanno a letto con la pro­pria ragazza o col proprio ragazzo. Non siamo più negli Anni Cinquanta. Oltre tutto lei non era neanche vergi­ne.

‑Stavolta sei volgare.

‑No, lo dico per dimostrare che oggi come oggi andare a letto con qualcuno non è, come per i re di Francia, farsi incoronare a Reims. Questa cosa andava avanti così, un po’ a caso, senza sapere dove andava a parare, e da questo dovrei passare ad un impegno che si presume per tutta la vita?

‑È chiaro che non l’ami. Perché, poi? Amelia è carina, da come si comporta dimostra di volerti bene, come mai non te ne sei innamorato?

Stefano, nonostante la serietà del momento, non riuscì a trattenere la propria ironia:

‑Visto che non è uno sgorbio, visto che vorrebbe sposarti, come mai non la sposi? Ti chiede una sigaretta, tu nei hai venti nel pacchetto, perché non gliene dài una? Sei unica.

‑Non la vuoi sposare. E va bene. Ma neanche in futuro?

‑Senti, perché ci tieni tanto che la sposi? Ti ho già detto che a mio parere non siamo fatti per stare insieme. Lei è emotiva e io no, lei vorrebbe dei figli e io no, lei è pratica ed io ho tendenza ad altre cose…

‑Perché l’hai messa incinta, ecco perché dovresti sposarla. E poi è certo una brava ragaz­za. Se sei potuto stare con lei per quasi due anni!

‑ È una brava ragazza. E anche intelligente. Ma per lei in realtà ho avuto una sorta di passione. Dopo innume­revoli liti, che mi fanno sempre desiderare di non vederla mai più, ci siamo sempre ritrovati. A quanto credo, perché lei tiene a me mentre io finisco con l’avere un’invincibile nostalgia del sesso con lei. Diviene quasi un’ossessione. Forse non è elegante ma è la verità. Anche se in questo momento non credo che riuscirei a toccarla con un dito. Perché c’è un elemento nuovo di cui tenere conto: io la sospetto di avere creato questa situazione volontariamente. E questo sarebbe terribile. Se ne fossi sicuro la manderei al diavolo per sempre.

‑Sei ingiusto. Forse l’ha fatto, ma solo inconsciamente, proprio perché ti ama e ti vuole forzare la mano.

‑Che bel sistema!

‑Una donna innamorata fa questo ed altro.

‑E con me non ottiene niente. Per me la lealtà viene innanzi tutto. Se fossi sicuro della sua malafede il problema sarebbe risolto.

‑Ma non ne sei sicuro.

‑Non ancora.

Angela rimase un attimo a fumare, con gli occhi perduti nel nulla. Il cameriere arrivò con le ordinazioni e anche questo le dette tempo per ri­flettere.

‑Insomma, fino a questo momento siamo sicuri di una cosa: tu non intendi impegnarti. Ovviamente l’idea­le sarebbe avere tempo per decidere. Per vedere se qualcosa cambia. Sei sicuro che lei non vuole abortire?

‑Ma se l’ha detto ai suoi, sapendo che sono contro l’aborto!

‑Un momento, i suoi sono contro l’aborto, d’accordo: ma quando si tratta di un caso concreto? Quando si tratta della loro figlia, che non è neanche sposata? La gente si riempie la bocca di bei principi, ma poi, quando la cosa li riguarda personal­mente…

‑A questo non avevo pensato, disse lui, attaccando il gelato. 

‑Perché prendi sempre tutti sul serio. Sei sicuro che non vuole abor­tire?

‑Lei ha considerato la cosa fuor di discussione. E in ogni caso dovrà obbedire ai suoi genitori. 

‑Stupidaggini. È maggiorenne, tu le potresti pagare le spese e la cosa finisce lì. Tutto dipende da lei: e basta.

‑Per Giove, hai perfettamente ragio­ne, esclamò lui. Chissà perché non ci ho pensato io stesso. Un momento, secondo me il fatto che ne ha parlato con i suoi dimostra che lei ha voluto creare le condizioni che l’aiutassero a non abortire. O a dirmi che non poteva abortire.

‑Potrebbe essere. O potrebbe non averci pensato, sul momento, quando è andata dal ginecologo con sua madre.

‑Però, se è andata dal ginecologo con sua madre per sapere se era incinta è chiaro che non intendeva nasconderle il risultato delle analisi. È come se uno andasse alla Rinascente con una pattuglia di Carabinieri, rubasse un cappotto e pretendesse che quelli non ci facciano caso. 

‑Sei un disgraziato, concluse Ange­la. Quando hai finito di raccontarmi la cosa ero convinta che ti avrei dato torto e ora più parliamo più sono dalla tua parte. Forse mi stai imbro­gliando.

‑No, sorrise Stefano. Io non t’imbroglio e tu mi sei stata di grande aiuto.

‑Io? E che ho detto? 

‑Mi hai chiarito un paio di cose: se Amelia l’ha detto ai suoi, è perché ha voluto dirlo ai suoi. Diversamente la visita dal ginecologo se la poteva pagare lei o gliela potevo pagare io, a costo di parlarne con mio padre. E, soprattutto, se non vuole abortire è lei che risponde di questo, non i suoi. È un punto essenziale. 

‑Sì. E dunque potresti provare a convincerla. Tieni presente che non le verrebbe facile, tuttavia. Non verrebbe facile a nessuno, nelle sue condizio­ni.

‑Lo terrò presente. Dove ti accompa­gno?

In macchina la conversazione prose­guì quasi allegra. Angela gli raccontò le sue traversie col professore che la voleva come assistente e anche come qualcosa di più intimo e risero di questo vecchio che da un lato sbavava e dall’altro la corteggiava come un gentiluomo umbertino. Se avesse insi­stito, Angela era risoluta a dirgli che si ficcasse bene nella zucca che lei non intendeva affatto fottere con lui. E non intendeva neanche lasciarsi palpeggiare.

‑Sottili allusioni! commentò Stefa­no, fermando l’automobile.

‑È un vecchio porco!

‑Siamo in parecchi, disse lui con aria seria. Angela da prima lo guardò perplessa, poi ricordò, sorrise e concluse: 

‑Ma tu sei il porco più porco di tutti. Ciao!

 

8

 

 Le discussioni con Amelia non conducevano a nulla. Lei aveva presto capito che lui non desiderava sposarla ma questo, se l’aveva addolo­rata, non l’aveva scoraggiata: si era limitata a spostare la cosa dal piano affettivo a quello dei doveri. “Magari abbiamo sbagliato noi, diceva; magari ho sbagliato solo io, ma non è un motivo per far crescere un bambino senza i genitori, visto che nessuno dei due è morto. Fino a qualche giorno fa nessuno ci costringeva a vederci e a stare insieme, e tuttavia lo facevamo. Ora perché ti preoc­cupi? Se andavamo bene prima, potremmo andare bene anche dopo”.

Erano argomenti abbastanza ragione­voli e tuttavia c’era una bella differen­za fra l’essere amanti e l’essere sposa­ti. Parecchie volte era stato contento del fatto che alla fine di un incontro si separassero e che ognuno tornasse a casa sua.  Purtroppo non poteva dirle: “Se stavamo insieme era soprattutto perché mi piaceva fare l’amore con te”. 

In quei giorni, di fatto, presero ad allontanarsi sempre di più. I loro incontri erano diventati amari ed erano ormai un costante, acido negoziato sul modo di risolvere il problema. Un mercato in cui si pesavano sentimenti, impegni, denaro, ri­spettabilità. Finché una mattina lei gli aveva detto che, dato che la sua gravidanza andava avanti, lui doveva in ogni caso venire a parlare con i suoi. Altrimenti essi avrebbero preso “autonomi provvedimenti”. 

Stefano, chissà perché, reputava la cosa del tutto inutile ed assurda, nel suo intimo, ma Angela, consultata per telefono, sosteneva che in questo Amelia aveva ragione. Quale che fosse la sua posizione, doveva prenderla chiaramente, parlar­ne con i genitori di lei e anche con suo padre.

La sera stessa dunque, con l’atteg­giamento d’Abramo che porta Isacco sul luogo del sacrificio, andò in farmacia prima della chiusura. Suo padre era indaffarato e Stefano non sapeva come chiedergli un colloquio a quattr’occhi. Alla fine, in un momento di relativa calma, scelse le parole più semplici:

‑Ti potrei parlare, prima d’andare a casa?

‑Certamente.

Da principio Stefano si meravigliò di quella mancanza di curiosità, poi si rese conto che per giorni era stato tanto preoccupato che perfino quell’uomo, di solito ben poco appren­sivo, gli aveva chiesto se stesse bene. Sapeva benissimo che qualcosa bolliva in pentola. 

Quando furono in auto si accorse che suo padre non prendeva la direzione di casa. 

‑Dove stiamo andando?

‑Mangiamo fuori. Se ti va, natural­mente.

‑Certo che sì.

Per strada il suo vecchio ‑ come a volte lo chiamava per civetteria ‑ non fece domande. Si comportò come se conoscesse già il problema e attendes­se di essere in trattoria per comin­ciare il dialogo.

‑Allora, sentiamo di che si tratta, disse infine, quando ebbero finito il primo. Un po’ di vino?

‑No, grazie. Prima di tutto: qualcuno te ne ha parlato?

Suo padre, per una volta, ebbe la faccia veramente stupita: 

‑E chi avrebbe dovuto parlarmene? E di cosa?

‑Non so, mi porti a mangiare fuori, senza neanche fare domande…

Il farmacista sorrise e scosse la testa:

‑Ma quanto sei scemo. Sicché io non avrei visto che vai in giro per casa come un fantasma, con tanto di muso? A tavola a momenti non tocchi cibo, hai smesso di studiare, che altro dovresti fare, strapparti i capel­li, perché capisca che c’è qualcosa che non va?

‑E come mai non hai fatto domande?

‑Forse avrei dovuto, hai ragione. Invece mi sono detto che sei maggiorenne. Che me ne avresti parlato tu, se fosse stato il caso… La semplice verità è che sono stato timido. 

Stefano fu invaso da un moto di tenerezza e le lacrime gli salirono agli occhi: aveva dinanzi a sé un uomo che, invece d’essere, come sempre, sicuro di sé, confessava incertezze, scrupoli, addirittura timidezze. Un papà affettuoso che non ricordava da quanto era bambino. Una sorpresa. E forse lui avrebbe rovinato questo momento magico dicendogli quanto era stato sciocco, in quali guai si era messo. 

Le lacrime cominciarono a scorrergli lungo le gote.

‑Suvvia, Stefano, smettila…

Ma l’invito fu peggiore del male e Stefano cominciò a piangere copiosa­mente con la faccia nel fazzoletto. Per fortuna a quell’ora in trattoria non c’era quasi nessuno.

‑Papà ‑ tentò poi di dire ‑ non immagini neppure quanto mi costi darti un dispiacere.

Suo padre gli mise una mano sulla spalla e gli disse con fermezza: 

‑Se non mi dici di che si tratta mi farai preoccupare sempre di più. Che è successo?

Stefano lo guardò in faccia, riuscì a dire “Amelia è incinta” e riprese a singhiozzare. 

Era strano che avesse una simile crisi di pianto. Si erano rotti gli argini e quel pianto era come lo scoppio di un ascesso.

‑Ti spiegherò. Non credo che sia stata colpa mia…

‑Son cose che capitano.

‑Sì, ma non devono capitare alle persone ragionevoli.

‑Capitano anche alle persone ragio­nevoli. Raccontami tutto con calma.

Non solo gli disse tutto, ma gli riferì anche il parere di Angela, quello di Igor (“Mandala al diavolo, se non vuole abortire!”) e soprattutto i suoi dubbi mentre suo padre continuava seraficamente a mangiare senza fare domande. Del resto il racconto, soprattutto da principio, era stato come un fiume in piena e solo verso la fine Stefano cominciò a fare delle pause. 

‑Credo che sia tutto. Sono stato chiaro?

‑Chiarissimo. Non dico che ci sia da ridere: ma perché ne fai una tragedia?

‑Come, perché? Già l’idea di parlar­ne a te, l’idea di provocare anche a te dei fastidi, mi ha sconvolto. E poi mi sento preso in trappola, non esiste una soluzione che non presenti gravi controindicazioni.

‑Appunto come certi medicinali: ma, quando la malattia è abbastanza grave da giustificarli, questi medicinali sono preziosi. Una soluzione biso­gna trovarla. Mangia, intanto.

Gli chiese ancora qualche particola­re, con l’aria tranquilla di chi sistema un fascicolo, e infine conclu­se:

‑I punti fermi sono questi. Primo, non si sposa una donna se non si ha voglia di sposarla. Secondo‑

‑Posso obbiettare? Non che sia il mio parere, ma Amelia dice che molte coppie si sposano per necessità e poi, se il matrimonio non va, si separano.

‑Non sono d’accordo. Quelli che si sposano per evitare un “disonore” considerano un disonore anche separar­si. Se la coppia è male assortita è solo un modo di rinviare il problema, complicandolo enormemente. Insomma, la coabitazione rischia di essere un inferno quando ci si adora, figurarsi quando si sta insieme per costrizione. Perché credi che non si mi sia rispo­sato, dopo la morte della mamma?

Stefano si accorse con sorpresa che non si era mai posto il problema. Giusto, suo padre avrebbe potuto avere una vita sentimentale e sessua­le, era stato uno sciocco, a non pensarci. Ora aveva cinquantacinque anni e non sembrava certo un vecchio, e poi era vedovo da sei anni. Dunque era solo da quando ne aveva meno di cinquanta. Anche se lui e la mamma erano stati una coppia molto unita, e perfino molto ammirata, un motivo ci doveva pur essere stato, per non cercare un’altra donna. O è che aveva avuto delle relazioni? Magari ne aveva una in quel momento. Comunque non rispose alla domanda e tornò al tema:

‑Allora, per te questo è un punto fermo: niente matrimonio. 

‑Naturalmente se tu sei sicuro del fatto che la ragazza non è la donna che fa per te. Attualmente sei quasi accecato dal sospetto che lei abbia voluto arrivare a tutto questo e sei indignato. Ma devi essere molto onesto, con te stesso. Devi vedere se malgrado tutto quest’Amelia non sia la donna che fa per te. Personalmente la conosco appena e per ogni padre suo figlio merita l’assoluto meglio: dunque non ti aspettare un consiglio da me. Invece mi sembra chiaro che, se lei rifiuta di aborti­re, riconoscerai il bambino.

‑Certo, l’ho già detto anch’io. Quel poveraccio non ha nessuna colpa.

‑Infine dirai che contribuiremo nella misura del possibile al suo mantenimento.

Stefano rimase per un po’ in silen­zio, con gli occhi nel piatto, e infine concluse:

‑Insomma, tutto, salvo il matrimonio e la coabitazione.

‑Esattamente.

 

9

 

Ci sono pensieri capaci di occupare il nostro animo fino a non lasciare spazio. Perfino nei momenti in cui siamo costretti a far qualcosa che richiede attenzione rimane una sensa­zione di struggimento e d’amarezza. Un continuo richiamo verso il nostro assillo. 

Stefano viveva quella giornata senza smettere mai di paventare il momento in cui sarebbe andato a casa d’Ame­lia. Si accorgeva anche della diversa natura della sua preoccupazione ri­spetto agli esami: gli esami mettono in gioco il tempo della preparazione e il nostro orgoglio, ma in caso di bocciatura ci si può riprovare. Qui invece si trattava di mettere in gioco il suo futuro. E c’era di più. Le grandi decisioni che riguardano il nostro denaro, la nostra carriera, il nostro tempo sono certo importantissi­me e tuttavia riguardano qualcosa di cui ognuno, dopo tutto, ha il diritto di disporre. Nel suo caso invece era in gioco anche la vita d’Amelia, quella di un bambino che doveva nasce­re, e quella di due genitori che, anche se avessero avuto pre­giudizi stupidi, avevano il diritto di averli. Come aveva detto ad Igor per i genitori di Betta. Indubbiamente, poteva mostrarsi duro e risoluto: ma sarebbe stata legittima difesa o semplice egoismo? E tuttavia qualunque cedimento poteva rovinarlo per sempre.

Questi pensieri gli giravano in mente con la fastidiosa insolubilità di certi problemi di bridge quando sembra che, da qualunque lato li si affronti, si vada sempre a sbattere il muso contro la sconfitta. Per giunta, nei problemi di bridge, anche a non riuscire, si sa che perseverare può essere utile perché una soluzione esiste. Nella realtà invece non si ha neanche questa incoraggiante certezza. Ci si può incaponire nella quadratura del cerchio per poi scoprire che qualcuno ne ha dimostrato l’impossibi­lità.

Sicché accolse come una liberazione il momento in cui la dottoressa lo pregò di fare un salto al deposito.

‑E di Ettore che se ne sa? le chiese.

‑Tuo padre l’ha licenziato.

‑Veramente?

‑Quanto meno gli ha detto così. Ma credo voglia solo spaventarlo. Comunque poco fa il giovanotto a momenti piangeva e gli ho promesso che intercederò per lui. Qui c’è la lista dei medicinali. 

Alle sei, praticamente stremato, Stefano bussò al portone d’Amelia e invece di aspettare che lei scendesse salì al primo piano. Lei l’aspettava sorridendo e quando lui le giunse accanto da prima fece uno strano movimento, poi l’invitò ad entrare. Solo in ritardo capì che lei aveva esitato se dargli un bacino o no. 

I genitori di lei li aspettavano in una stanza piuttosto piccola che era a metà strada tra uno studio e un salot­to. Una grande scrivania in stile Rinascimento, ingombra di carte e oggetti, troneggiava contro il balco­ne. A qualche distanza, con i piedi anteriori su un tappeto piuttosto liso, le stavano di fronte tre poltrone enormi e di stile moderno. Intorno librerie, oggetti appesi alle pareti (in particolare il guscio vuoto di una tartaruga di mare), una cassettiera e altro davano un senso di oppressione, accentuato dalla scarsa luce. Oltre la tenda, infatti, un rampicante copriva l’intero balcone e saliva al piano superiore. Benché fosse un pomerig­gio di sole, la luce elettrica era accesa.

I signori Prestigiacomo erano vesti­ti come per uscire. Particolarmente la signora, minuta e timida, era innaturale nel suo tailleur. Ma fece subito di tutto per essere cordiale, lo chiamò “il nostro Stefano” e dandogli del tu gli offrì un caffè, un liquore, un aperitivo, un dolcino.

Il signor Prestigiacomo, un uomo imponente, si alzò per dargli la mano ma il suo sorriso era meno largo di quello della moglie. Stefano lo preferì già per questo. L’esperien­za gli aveva insegnato che coloro che si precipitano a dimostrarsi arrendevoli sono i più pervica­ci, nella sostanza, quando si tratta di proteggere i propri interessi.

Quando si ritrovarono tutti seduti in poltrona, con Amelia sulla sedia dietro la scrivania, parlò per prima la signora:

‑Allora, come sai, Amelia aspetta un bambino. Non è certo quello che avrem­mo voluto, ma ormai dobbiamo affrontare la situazione. Amelia mi dice che sei molto preoccupato ma non è morto nessuno, voi due vi volete bene e si tratta soltanto di trovare una soluzione al problema.

-Ché poi – aggiunse con tenerezza – povero bambino, mi pare anche male chiamarlo problema. Comun­que sia, noi siamo gente moderna e com­prensiva. Sappiamo che certe cose possono succedere e… che vogliamo farci? Basta metterci rimedio. Alla fine si può essere tutti felici. Non siamo d’accordo? concluse con uno sguardo circolare, quasi a indicargli che era in minoranza. Tre contro uno.

Stefano si guardò le mani e avrebbe voluto sprofondare. La signora la metteva così, semplicemente. Non solo lo trattava già come fosse suo genero a tutti gli effetti, ma sembrava dirgli che sarebbe stato assurdo che lui facesse delle obiezioni.

‑Signora, non so come dire, ma… non è così semplice.

‑Che difficoltà ci sono? chiese serio il padre. 

Stefano lo guardò con minore disagio. Il sorriso fatuo della signora lo infastidiva a morte.

‑Signor Prestigiacomo, io ho solo ventidue anni. Non ho un lavoro, non ho una casa…

‑Per questo ci siamo noi e tuo padre.

Anche lui gli dava del tu! Sembravano imporgli una confiden­za che non aveva il diritto di mettere in dubbio.

‑Ma che vita sarebbe, senza indipen­denza economica, senza una casa?

‑Potreste vivere con noi. La stanza di Amelia è molto grande, ci potreste stare in due.

Stefano, alzando gli occhi al cielo per cercare cosa rispondere si ritrovò a guardare di nuovo il guscio di tartaruga.

‑Non credo che sarebbe una buona soluzione. Mi scusi se glielo dico francamente. Ma sa, stare tutti insieme…

‑Noi abbiamo cominciato così, inter­loquì la signora. Non è vero Amelia? 

Come se sua figlia potesse testimoniare su qualcosa che aveva preceduto la sua nascita. Il signor Prestigiacomo si era andato via via rabbuiando e invece di condividere il sorriso della moglie la interruppe con tono violento:

‑Insomma, lei cosa intende fare? E soprattutto, vuol bene a mia figlia o no?

Stefano era giunto ad un tale punto d’imbarazzo che, pur di uscire da quell’incubo, ebbe la tentazione di mentire. In fondo come sarebbe stato semplice dire sì, amo Amelia, sì, la sposo, sì, vengo a vivere con la tartaruga: ma non poteva dirlo. Vedeva la cosa come una sorta di suicidio e nessuno gli poteva chiedere di suici­darsi. Prese dunque tempo:

‑La cosa necessaria in ogni caso è riconoscere il bambino, in modo che sia legittimo.

‑E poi? chiese asciutto l’omone, divenuto truce.

‑Poi…

‑Insomma, questo matrimonio si fa o no? O lei è bravo solo a fare figli?

A questo punto nella stanza non sorrideva più nessuno. La madre d’Amelia aveva anzi cominciato a piangere e Stefano invece era stranamente solle­vato. Intanto già sapevano come la pensava. Ora si trattava soltanto di spiegarsi chiaramente, come si era preparato a fare lungo tutta la gior­nata:

‑Signor Prestigiacomo, ho cominciato col dire che ho ventidue anni e che la mia situazione non mi permette di sposarmi. Poi c’è un secondo problema: Amelia ed io siamo stati bene insieme, ma per un tempo limitato, intendo per poche ore alla volta e neanche tutti i giorni. C’è differenza fra stare bene insieme e legarsi per la vita. Penso perciò…

‑Lei non sa se Amelia è la ragazza che vuole sposare ma intanto se la porta a letto! E intanto la mette incinta! sbottò l’uomo. Per questo non ha avuto perplessità!

‑Signor Prestigiacomo, non vorrei… Come dire… Insomma, si è trattato di un incidente, la stessa Amelia può con­fermarglielo. E poi, quanto a fare l’amore, è capitato. Nell’epoca in cui viviamo, è più corrente che ai suoi tempi, se posso dirglielo senza che si offenda. 

E si trattenne a stento dall’aggiungere che l’incidente lo aveva provocato piutto­sto Amelia che lui stesso.

‑Ma perché non dovete sposarvi? intervenne intanto, piccata, la madre. Si rende conto della figura che fa fare a mia figlia, a noi, con tutti i nostri amici, con tutti quelli che conosciamo? Suo padre non ha una casa da darle?

Ci siamo, pensò Stefano. La fama di ricchi dei farmacisti.

‑Mio padre ha contratto un mutuo per pagare la casa a mia sorella, che si dovrebbe sposare fra qualche mese. In questo momento abbiamo solo debiti.

Già, pensò inoltre: come mai i Prestigiacomo, che ora venivano a parlargli di onore come in un drammone dell’ottocento, avevano permesso che Amelia lo frequentasse? E che avessero un’evidente relazione sessuale? Come mai avevano fatto finta di nien­te? Una volta, col pretesto di una gita con un gruppo di amici, Amelia e lui erano persino andati a Napoli per tre giorni. E i Prestigiacomo non avevano fatto una piega. Non l’avevano proprio immagina­to che ne avrebbero approfittato per passare la notte insieme, in albergo? O era piuttosto che pensavano lui fosse in ogni caso un buon partito? Si accorse di uno scudo zulu, in un angolo, e sentì di odiare quella stanza e tutti quelli che c’erano dentro.

‑Ma perché non dovete sposarvi, ripeteva la signora. Tu non sei sicuro dei tuoi sentimenti, del fatto che siete fatti l’uno per l’altra? Bene, se non va bene vi separate. Non è la prima volta, no?

‑Signora, io capisco il suo punto di vista, ma lei capisca il mio: non è meglio avere le idee chiare, prima di fare certi passi?

‑Io lo prenderei a calci, costui, disse quieto il padre.

‑Non dire cose del genere, squittì la signora.

‑Sentite, intervenne Amelia, con calma e dignità. Mi sembra tutto chiaro. Stefano, in questo momento, non vuole impegnarsi. Per quanto mi riguarda non insisterei. Lui rico­nosce il bambino e al resto pensiamo noi. Poi, se gli va, ma soprattutto se andrà ancora a me, si parlerà di matrimonio. Del resto, lo sapete, questa era la mia posizione anche prima che lui venisse.

‑Mio padre, aggiunse Stefano, mi ha detto che, naturalmente, contribuiremmo alle spese per il bambino. Vi prego di scusarmi, mi rendo conto di darvi un dispiacere, ma in coscienza non mi sento di compor­tarmi diversamente. Vi sentireste di impormi un legame del quale non sono convinto, una decisione di cui non so se è giusta o sbagliata…

‑Se dipendesse da me lo porterei in chiesa prendendolo per la collottola, come un cane. È meglio che me ne vada, veramente, disse alzandosi. E comunque tu, puttanella, non devi vederlo più. Me ne frego che riconosca il bambino o no, l’unica cosa che gli chiedo e vi chiedo è di non farlo mai più comparire dinanzi a me. O faccio uno sproposito.

Il signor Prestigiacomo uscì dalla stanza sbattendo forte la porta e la signora riprese a piangere. Anche Amelia si alzò:

‑Vieni, ti accompagno alla porta.

Sull’uscio Stefano si voltò per dirle qualcosa ma lei lo spinse fuori con un mano e gli disse soltanto: 

‑Va via, va via, non dire niente ch’è meglio.

 

10

 

Igor si lasciò cadere nella poltro­na, mise i piedi sulla sedia e lo guardò inclinando la testa:

‑Allora, arriva questo cavatappi?

Stefano andò a prenderlo insieme a due bicchieri, poi sedette anche lui:

‑Sono contento per te, confermò, passandogli il cavatappi. Ti sei tolto un pensiero.

Igor gli raccontò altri particolari del suo esame e insistette perché brindassero più volte. Era anche contento perché su un argomento minore, mentre discuteva con l’assistente, il professore aveva dato ragione a lui. O almeno, aveva detto che anche la sua idea aveva dei sostenitori. In parti­colare un certo Weissenberg. Bisognava brindare alla salute di questo Weis­senberg.

Fu molti minuti dopo che Igor gli chiese:

‑E a te come va?

‑Male.

‑Sempre il problema con Amelia?

‑Sì.

‑Mandala al diavolo. Manda al diavo­lo lei e tutta la sua famiglia. Te l’ho detto che mio padre mi ha fatto un regalo, per congratularsi?

A questo punto Stefano sentì una sorta di gelo intimo. Che Igor fosse contento perché una cosa gli era andata bene era comprensibile. Che altre volte si fossero lungamente occupati di lui perché aveva dei problemi, era comprensibile: ma che si dovesse parla­re soltanto dei suoi esami, anche se quello che viveva Stefano era molto più serio, cominciava a seccarlo. Sembrava che il principio che reggeva la loro amicizia fosse una disparità di valore: qualunque cosa riguardasse Igor era più importante di qualunque cosa riguardasse lui. Perché, poi? E come mai aveva accettato tutto questo?

Forse tutto era dipeso dal fatto che Igor si prendeva molto sul serio. E la sua tensione emotiva aveva spesso finito col coinvolgerlo. Ma la cosa era diventata troppo frequente per essere credibile. Stavolta, per esempio, invece di aver superato un esame difficile pareva avesse espugnato Troia. Al suo posto Stefano si sarebbe detto che, andando all’università, a meno d’essere più scemo degli altri, era normale che superasse gli esami. Come tutti i colleghi. Come tutti coloro che sono laureati in farmacia. La conclusione era che, permet­tendogli di occupare sempre il prosce­nio, forse aveva commesso un errore.

‑Parliamo del problema d’Amelia, ora, disse risoluto.

‑Questo richiede un altro bicchiere.

‑Rischi di ubriacarti.

‑Ne vale la pena. Ne vale la pena per tutti e due: per me perché sono con­tento e per te perché sei seccato. Allora, che succede?

Stefano cominciò a riferirgli gli ultimi sviluppi ma fu interrotto prima della fine:

‑Senti, per me hai fatto male a dare loro tutta questa confidenza. La ragazza non vuole abortire? Bene, che si tenga il bambino. Che si tengano il bambino, lei e la sua famiglia. Io non ci sarei andato.

‑Vuoi scherzare? Mi sembri un perso­naggio dell’Ottocento. Hai la disin­voltura di Julien Sorel o di Bel Ami.

‑Chi è Julien Sorel?

‑Il protagonista de “Il Rosso e il nero”. Insomma a te non importa nulla degli altri? dei loro sentimenti?

‑Ah, perché, gente così ha dei sentimenti? Hanno solo un mazzo di pregiudizi in una scatola cranica troppo piccola. Fanno quello che fanno tutti solamente perché lo fanno tutti. E vogliono imporlo anche a te. Sono loro che ti fanno una violenza, chiedendoti di riconoscere il bambino.

‑Gliel’ho offerto io, spontaneamen­te.

‑Ma non è spontaneamente che tu avrai un figlio! Dovrai riconoscere un bambino che non vuoi, che ti viene imposto. Amelia ha voluto restare incinta per incastrarti!

‑Non ne sono sicuro, rispose onestamente Stefano.

‑Ne sono sicuro io. Con me non ci avrebbe neppure provato. Io non mi sarei considerato incastrato da una cosa simile. Il bambino è tanto tuo quanto mio? le avrei detto. Bene, per la mia metà abortisco. Se tu non vuoi abortire, tieniti il bambino, ma sarà tutto tuo. Tuo e della tua famiglia. Sei stato uno scemo, scusami se te lo dico. Io li avrei mandati al diavolo.

‑Bada che agli occhi di tutti ti saresti comportato come un mascalzone, l’avvertì Stefano, ma Igor fece spal­lucce:

‑Sai quanto m’importa del giudizio di tutta la gente!

Ma Stefano aveva dei dubbi, su questa indifferenza di Igor, che curava meticolosamente l’eleganza del suo vestiario e che, se appena era possibile, usava la Mercedes di suo padre piuttosto che l’automobilina di sua madre. 

Scoraggiato, tornò all’argomento dell’esame superato e gli si strinse il cuore vedendo con quanta gioia il suo amico riprendeva a celebrarlo.

 

 11

 

Erano passati alcuni giorni dall’in­contro coi Prestigiacomo e Stefano pensava di aver raggiunto una sorta di normalità emotiva quando, rientrando dall’università, trovò un biglietto di sua sorella; “Ti ha cercato Amelia. Richiamerà”. Sorprendentemente, il cuore gli balzò in gola: quella donna, con la sua passionalità, la sua impre­vedibilità, e perfino la sua suscet­tibilità, gli aveva colorato la vita. Certo, era stato infastidito dalle mille liti nate da sciocchezze: ma quante di esse non si erano gloriosa­mente concluse a letto? Solo a pensar­ci si sentiva eccitato. 

Fu con una certa ansia gioiosa che rispose al trillo del telefono ma il tono della voce di lei lo riportò imme­diatamente sulla terra. Era una sua caratteristica: sin dal momento in cui diceva “pronto”, uno sapeva cosa aspettarsi. E quel pomeriggio il servizio meteorologico annunciava tempesta.

Rivedendola, ebbe dei sentimenti con­traddittori. Era la stessa ragazza bella e desiderabile con cui aveva raggiunto delle dolci, indimenticabili intimità e nello stesso tempo sentiva per lei una sorta di rancore. Da un lato desiderava toccarla, baciare i suoi seni e dimen­ticare tutto nel piacere, dall’altro la vedeva come una Prestigiacomo, una ragazza che doveva riconquistare il proprio onore, come si diceva una volta. Avrebbe preferito non averla mai incontrata.

Per prudenza le chiese dove volesse andare e si aspettava che lei proponesse una delle tante gite verso il mare. Al contrario lei suggerì Mascalucia, il luogo dei loro incontri intimi, anche se aggiunse: “Ma non ho l’intenzione di far l’amore”.

Stefano, infastidito, avrebbe voluto risponderle che si poteva risparmiare la precisazione: lui si era limitato a chiederle dove volesse andare. E se lei avesse detto Acitrezza certo non le avrebbe proposto di far l’amore sul molo del porticciolo. Ma gli era passata anche la voglia delle scherma­glie.

Per strada, come due commercianti levantini che, prima di azzuffarsi sul prezzo della merce, parlino d’altro, Amelia gli raccontò distesamente i problemi della sua amica Ilda: era innamorata di un uomo sposato, che avrebbe potuto essere suo padre, e nuotava in un mare di guai. Stefano non trovava affatto naturale il suo tono normalmente cortese ma dopo tutto era meglio parlare di questo, e con questa calma, che litigare. 

E poi gli venne un orribile sospetto: quel dirgli “non ho l’intenzione di fare l’amore” voleva essere una punizione? Una forma di pressione? Significava: “Tu non mi vuoi sposare e io ti lascio a digiuno”? Perché se fosse stato così, lei gli sarebbe apparsa spregevole. La sua bella sessualità si sarebbe dimostrata postic­cia, strumentale. No, non era possibi­le. 

Cercò di distrarsi facendo attenzio­ne alla vicenda paradossale di codesta Ilda ma questo discutere di problemi femminili faceva salire in lui una sorta di misoginia. La ragazza inseguiva l’uomo, gli chiedeva di farle un figlio e minac­ciava scandali d’ogni sorta. Mentre lui ‑ a quanto pareva – la prima volta aveva fatto l’amore con lei solo per non perdere una facile occasione. 

-Tu che ne pensi?

‑Penso che lei non si rende conto dei guai in cui mette se stessa e lui. Invece l’atteggiamento dell’uomo è comprensibi­le. Fa pensare ad uno cui sia stato proposto di provare un’automobile nuova e che poi si veda imporre d’acquistar­la. 

‑Ilda non è un’automobile, però. E trovo anche offensivo questo modo di considerare una persona umana, stabilì Amelia, con aria di disgusto. Ma chiaramente fece uno sforzo per continuare a discutere senza riscaldarsi troppo: 

-Questo Michele è un uomo maturo. Dovrebbe avere esperienza della vita. Non ha pensato che la ragazza poteva innamorarsi di lui? Che poteva metterla incinta, che ne poteva conseguire qualcosa? D’ac­cordo, lei è un’impulsiva. È convinta che questa sia la storia d’amore della sua vita, non pensa che potrà mai guardare un altro uomo e per questo vorrebbe un figlio da lui. Questo però non toglie che lui sia probabilmente un mascalzone.

Stefano cominciava a vedere che quella discussione era peri­colosa, anche se, almeno formalmente, non li riguardava. Ma cercando di evitarla si sarebbe forse trovato a parlare di argomenti ancora più personali e imbarazzanti.

‑Un momento, obbiettò dunque. Secondo quello che mi hai raccontato i due sono subito andati a letto insieme, senza che lui le abbia promesso nulla o le abbia manifestato chissà quale innamoramento. Vedila come una scena di film: lei si dimostra disposta a fare l’amo­re, a lui la cosa piace, lo fanno e basta. Tutto potrebbe concludersi lì. O no?

‑Ilda non è affatto una ragazza leggera, cosa credi? Non l’avrebbe fatto con nessun altro. Si è semplicemen­te innamorata di lui, a prima vista. Mi ha detto che vederlo e sentirsi sua per sempre è stato tutt’uno. Sono cose che capitano. Magari a te no, ma ad altri sì. Ma ripeto, da uomo fatto, non lo sapeva che una ragazza poteva anche innamorarsi?

‑Forse. Però sapeva anche che ci sono ragazze che vanno a letto col primo venuto. E dunque la cosa poteva non avere nessun significato speciale. Anzi: il fatto che lei sia stata disposta immediatamente a fare l’amore gli avrà proprio fatto pensare che era quel genere di ragazza. Come avrebbe potuto prevedere tutto quello che è seguito? Mi chiedo se la tua amica non sia un po’ squilibrata.

‑Squilibrato sarai tu, disse Amelia, acida. E Stefano si sentì stranamente consolato. Ricominciava ad essere autentica.

‑Ecco che considerazione avete, voi uomini, dei sentimenti! proseguì lei. Visto che lei si è innamorata, visto che ha rinun­ciato a tutte le schermaglie in nome di un sentimento autentico, ecco che è una sorta di prostituta. Una bestia usa e getta. Che diritti può avere?

‑Ma che può fare, quel poveraccio? Anche se fosse interessato a lei, cosa che nulla prova, ha moglie e figli.

La discussione andò avanti appassionatamente, ma divenendo ripetitiva, fino al momento in cui arrivarono alla casetta di Mascalucia. Qui, dopo che lei ebbe dato un colpo di scopa al soggiorno e dopo che lui ebbe fatto un tè, si ritrovarono seduti con una tazza in mano.

‑Come stai? chiese Stefano.

‑Benissimo. E tu? Parevano le norma­li formalità: ma mentre lui aveva alluso alla sua gravidanza, lei aveva trasformato la sua domanda in una semplice cortesia.  Non voleva parlare della cosa? Tanto meglio. Lui non aveva né voglia di discus­sioni né voglia di sesso. In quel momento sarebbe anzi stato felice di alzarsi e tornarsene da solo a casa. Le raccontò comunque la sua vita di quei giorni, grigia e normale; il licenziamento rientrato di Ettore e gli esami di Igor.

‑Lo sai perché è stato tanto conten­to di aver superato quell’esame? chiese lei.

‑Pare che sia uno dei più difficili.

‑Sempre pronto a sostenerlo, eh? La verità è un’altra. Come tutti i fanfa­roni, come tutti coloro che hanno un’opinione troppo buona di sé, Igor sa di non essere all’altezza delle sue vanterie. Per questo è così contento di essere riuscito. La sua coscienza gli dice che anche in questo caso non meritava di essere promosso e il voto lo contraddice e lo conforta. È disposto persino ad ubriacarsi pur di riuscire a credere al libretto!

Stefano sorrise, ammirando la sua sottigliezza: 

‑Una cosa è sicura: non è l’inter­pretazione che darebbe lui. Ma non sei troppo malevola? Tutti siamo contenti quando superiamo una difficoltà.

‑Come mai io non parlo mai dei miei esami? Come mai tu non celebri i tuoi come fa lui? lo incalzò lei. Li regala­no, i voti, nella tua facoltà? Sono tutte materie facili?

‑No, certo. Il fatto è che lui vive tutto, non so come dire, un’ottava più in alto. 

‑Un’ottava più in alto di tutti noi plebei. La tua amica Angela potrebbe vantarsi della sua carriera, non lui! E tu stesso, come non ti accorgi che vali molto più di lui? Sei un rompiballe, ma sei ragionevole, efficace. Semplice, soprattutto: non stai lì a vantarti dicendo “ho fatto questo, ho fatto quello”. Non vivi la tua vita come un’epopea e se devi fare il garzone di farmacia lo fai senza problemi. Igor invece mi ricorda Tartarino di Tara­scona.

‑Nientemeno!

‑È un bluff al quale sei l’unico che si crede obbligato a sottostare. Temi troppo d’essere invidioso perché lui è tanto un bel ragazzo. Tu che sei il brutto anatroccolo. E poi ti levi il cappello perché Igor è passionale e si crede un artista mentre tu pensi di essere destinato a non essere nessuno. E forse proprio per questo finirai col non essere nessuno. 

‑Come è naturale, rispose calmo lui. Siamo tutti dei nessuno.

‑Naturale un corno, saltò su lei. 

E scoppiò una discussione sui meriti di lui che aveva questo d’innaturale: che lei rappresentava la difesa e lui l’accusa. Io, sosteneva Stefano, mi rendo conto di essere una persona normale e nient’altro. Se magari mi sentissi nell’anima la capacità di dipin­gere un’altra Cappella Sistina, o di fondare in Francia la Quinta Repubbli­ca, capirei. Ma se l’ambizione che uno può permettersi è quella di avere un’auto di buona marca e di sentirsi chiamare dottore dal portinaio, allora no, non posso considerarmi speciale. Fra qualche anno saremo tutti morti e le gloriuzze correnti sono un po’ ridicole. Mi sento già un nessuno a tal punto che, anche se divenissi sindaco della città, rimarrei lo stesso un nessuno. Il tempo macina tutti.

Amelia gli rispondeva con acutezza che questo era un punto di vista metafisico. Un punto di vista che lo rendeva ancor più valido, lui, visto ne era capace. Ma, lasciando da parte la metafisica, era sul piano concreto che lui aveva il dovere di giudicarsi. Sulla media del suo libretto, sui rapporti con suo padre, sullo stesso loro rapporto. E concludeva: 

‑Noi siamo molto diversi, lo so. Ci scontriamo, litighiamo. Ma proprio io che ti mando al diavolo dopo qualche tempo, e che dovrei mandarti al diavolo soprattutto ora, ti trovo speciale. Forse sono una scema, ma che posso farci? Una volta un’amica mi ha detto che manco totalmente di dignità, con te. 

‑Spero non fosse Ilda, rise lui. E lei venne a sederglisi sulle ginoc­chia:

‑Tu sei un furfante. Però un fur­fante unico. Per questo non riesco a mollarti. E neanche a te riuscirà facile mollarmi.

E gli dette un bacio lunghissimo, durante il quale egli sentì che comin­ciava ad avere una notevole erezione. 

Ciò malgrado non riusciva a dimentica­re quelle parole: “Non ti riuscirà facile mollarmi”. Forse Amelia le aveva dette distrattamente, tanto per simmetria col fatto che lei non riu­sciva a mollarlo: ma era stato come rivoltare il ferro nella piaga. Il risultato era che viveva quel momento su due piani diversi: fisicamente era sempre più pronto a far l’amore (ma non era lei che aveva detto che non dovevano farlo?), mentalmente era sempre più freddo e deluso. Sì, desiderava quel corpo di donna: ma come avrebbe desiderato un’altra ragazza. La magia era sparita. Aveva creduto che, avendola di nuovo accan­to, sentendo di nuovo il suo profumo, avrebbe ritrovato il sentimento del passato e invece continuava a sentirla come un’estranea perico­losa.

Andarono a letto e una volta nudi lei vide che non aveva più l’erezione:

‑Chiuso per restauri? scherzò.

‑Forse c’è il cartello “torno subi­to”.

‑Ma di solito è sempre in casa. Vado a vedere.

Cominciò dunque a stimolarlo volen­terosamente e presto ottenne il risul­tato voluto. Ma era la prima volta che tutto questo era necessario.

 

 12

 

Angela aveva solo un anno più di Stefano e fra gli amici era l’unica sposata. Tutti loro ponevano questa condizione da persone mature in un incerto futuro. Immaginavano che, col matrimonio, la loro vita sarebbe cambiata interamente, mentre, per quanto riguardava Angela, tutti finivano col dimenticare questa situazione anagrafica. Suo marito Michele, che da principio si era presentato come un amico fra gli altri, si era rivelato indige­ribile ed era per così dire scomparso nel nulla. Quando poteva, Angela aveva continuato a frequentare gli amici, ma sempre da sola. E, se qual­cuno le parlava di suo marito, tagliava corto: “Niente, lasciatelo in pace, sapete com’è, Michele”. E tutto finiva lì.

Angela e Michele si erano conosciuti ad una festicciola di ragazzi cui lui aveva accompagnato una nipote. Contava di salutare i padroni di casa e andar­sene, ma appena aveva visto Angela se n’era innamorato così irrefrenabilmente (“come una bestia”, diceva lei) che non solo era rimasto per tutta la serata ma da quel momento l’aveva asfissiata per mesi con una corte senza tregua. L’aveva ricoperta di fiori e regali costosissimi, aveva parlato con i suoi, s’era perfino fatto scrivere da un poeta abbastanza noto una poesia in suo onore, che aveva imparato a memoria…

Tutti, e Angela per prima, erano sbalorditi. Questo comportamento non sarebbe stato troppo stupefacente se Michele fosse stato un giovane scervellato e poco più che ventenne. Invece aveva trentatré anni, guidava una delle branche dell’impero industriale paterno e questa impresa, da quando se ne occu­pava lui, aveva triplicato il fattura­to. Non solo era ricco di famiglia, dunque, ma dimostrava che lo sarebbe divenuto anche partendo dal niente o quasi. Parlava due lingue straniere, era laureato in fisica e ‑ cosa che non guastava ‑ era anche un bel ragaz­zo. 

Tutti avrebbero dovuto invidiare Angela, dunque, e al contrario tutti si chiede­vano come mai avesse accettato di sposarlo. Infatti Miche­le era semplicemente insopportabile. Per dirne una, aveva ragione sempre e su tutto. Da come si mescola l’insa­lata all’importanza del buco nell’ozo­no, dalla storia della Santa Inquisi­zione all’opportunità di permettere il pugilato. Il termine opinione gli era assolutamente ignoto: aveva solo certezze. Era oggettivamente un uomo intelligente e non era dunque raro che fosse bene informato: ma commetteva l’errore di dichiararsi sicuro persino di cose oggettivamente opinabili come il valore di un film o una teoria politica. Tutti, dunque, non che essere felici di stare con lui, e magari d’avere l’occasione di appren­dere qualcosa, avevano solo due desi­deri: stare lontano da lui o, in subordine, provargli che aveva torto. Foss’anche su una stupidaggine. Ma non c’era nessuna possibilità. O aveva effettivamente ragione lui, o non ammetteva di avere torto, neanche se era evidente. 

Qualcuno lo prendeva persino in giro. Una volta per esempio, visto che alcuni amici non capivano di cosa si occupasse la sua impresa informatica, Michele aveva boriosamente sintetizzato la sua attività con le parole “Vendo intelli­genza”. Al che uno dei presenti aveva risposto: “Io la regalo”. E tutti si erano sbellicati dalle risa. Ma non Michele. Il quale anzi osservò che non è regalando la merce che ci si arricchisce.

Era comprensibile che Angela cercasse di tenere Michele lontano dagli altri suoi amici. Che continuavano a stupirsi di questo rapporto. Ma solo a Stefano, con la sua solita semplicità, lei aveva spiegato: “È facile: io non discuto mai con lui e lui mi adora. Eventualmente, non dimostro nulla: chiedo e ottengo”. 

In fondo, sarebbe dovuto andar bene a chiunque. Ma Stefano rimaneva convinto che, se una donna l’avesse mandato in bestia quanto lo mandava in bestia Michele, avrebbe finito col litigare. Angela era probabilmente la più saggia di tutti loro.

Fu dunque molto sorpreso quando un pomeriggio Angela gli telefonò con una strana proposta. Michele doveva andare a Messi­na, per incontrarsi con un industriale proveniente da Palermo col quale avrebbe poi proseguito per Napoli: e lei doveva riportare l’auto a Catania. Per non farla tornare da sola, poteva far parte della spedizione? 

‑Ma non ti mettere a discutere con Michele, intesi? aggiunse subito, prima ancora che lui dicesse di sì. 

‑Io? Discutere? E sono forse il tipo?

‑No, senti, Stefano, se la pensi così è meglio che te ne stia a casa, chiaro?

‑Accidenti, non si può più scherza­re?

Vennero a prenderlo fino a casa e Michele fu come sempre cortesissimo. Inoltre lo ringraziò ampiamente per aver accettato di tenere compagnia ad Angela. E concluse:

‑Del resto sono più contento se guidi tu, al ritorno.

‑Perché, io come guido? si piccò Angela.

‑Benissimo, s’inchinò Michele, alzando ambedue le mani dal volante.

‑Angela, intervenne Stefano, lo so che t’ho insegnato io, a guidare. Ma, credimi, non è una cosa di cui mi vanto.

‑Che verme! Ti ci metti anche tu?

‑Ma se sei un pericolo pubblico!

Risero tutti e per qualche tempo riuscirono a non parlare di nulla. Poi Stefano, nel momento in cui un auto­carro li inondava di fumo nero, disse casualmente:

‑Peccato che non si sia trovata una soluzione per il motore elettrico. Avremmo evitato questo fastidio.

‑Anche a trovare il modo di immagaz­zinare l’elettricità ‑ e non l’abbiamo ancora trovato, salvo le pesantissime batterie ‑avremmo avuto fastidi anche peggiori, disse asciutto Michele.

‑In ogni modo, fece Stefano conciliante, non avremmo avuto questo fumo, quanto meno.

‑Ma a quale prezzo? Come vanno, i motori elettrici? Intendo, cosa consu­mano? chiese Michele, professorale.

La domanda era così semplice che Stefano rimase imbarazzato: cosa dovevano consumare? E se poi non dava la risposta giusta?

‑Vanno ad elettricità, no? si spazientì Michele. E l’elettricità come si fa? Con le centrali elettri­che. Ma le centrali elettriche fanno fumo e visto che la produzione di elettricità arriva al consumatore con un trenta per cento di rendimento rispetto alle calorie di partenza, perché un’automobile vada ad elettri­cità bisogna moltiplicare per tre il fumo che viene immesso nell’atmosfera.

‑Sì, ma lontano da qui, sorrise Stefano, temendo di essersi imbarcato nella discussione che aveva promesso di evitare e cercando di buttarla a ridere.

‑Ah ah! ghignò Michele, serio. Qual è il principio? Sporcate, insozzate, inqui­nate, purché lontano da casa mia! Dovete eliminare scorie pericolose? Presto, in Calabria, presto in Maroc­co, che muoiano i sottouomini!

E si lanciò in una perorazione dalla quale Stefano, muto da quel momento, apprese che l’uomo bianco era razzista mentre Michele in particolare era ecologista. Che al momento le centrali a petrolio o a carbone erano inevitabili, visto che le centrali nucleari erano obsolete e presto sarebbero state smantellate. A questo Stefano aveva timidamente obbiettato che non aveva letto niente del genere, anzi se ne costruivano di nuove. Ma l’obbiezione era stata spazzata via dalla semplice affermazione che il momento in cui si era decisa la loro costruzione risaliva ai tempi in cui non si erano accorti dei guasti che esse comportavano. Le centrali nucleari non solo erano obsolete, ma erano anche pericolose. La via del futuro erano le energie alternative: il vento, il sole, il mare. Stefano immaginò di veder sostituire una centrale elettrica con una cartolina illustrata ma non lo disse e anzi, da quel momento, invece di fare obiezio­ni, si mise eroicamente a chiedere solo ulteriori particolari senza mai contestare l’oratore. Alla fine Miche­le, scendendo dalla macchina e ringra­ziandolo profusamente, aggiunse che la conversazione con lui era stata un vero piacere.

Appena furono soli Angela sbottò:

‑Però sei uno stronzo fuori misura!

‑Io? disse Stefano, sinceramente sorpreso.

‑Tu. Tu che invece di lasciar cadere il discorso lo spingi a continuare e ti diverti con la tua personale iro­nia. “Ah, benissimo, ah perfetto! E come mai questo? E come mai quell’altro?” Dico, lui esagera, ma tu perché dovevi sfotterlo?

‑Non credo di averlo sfottuto.

‑Non dire scemenze. Non solo l’hai sfottuto ma hai goduto della mia involontaria complicità. Sei un cane, concluse. 

Ma le venne da ridere.

‑Comunque lo sai, come stanno le cose, la rassicurò Stefano. Michele mi annoia ma non lo disprezzo. È un uomo di valore e il fatto che ti voglia bene lo rende assolutamente positivo.

‑Gli perdoni per amor mio, ho capito. Se mi vuol bene, comunque? Anche troppo. A volte mi opprime a forza di proteg­germi. Lo sa, per esempio, che non mi piace guidare. Era dunque naturale che guidassi tu, al ritorno. E invece, no: per andar via tranquillo doveva sentirselo dire anche da te, così ha siglato un contratto. È fatto così. Con Amelia come va? La sposi?

Stefano non seppe se ridere o dirle che c’era qualcosa di bestiale, nel suo modo di porre le questioni. Fece ambedue le cose:

‑Te l’immagini Romeo che danza per la prima volta con Giulietta e le dice: Allora, bella, fottiamo?

‑Non capisco.

‑Ti sto dicendo che agli argomenti delicati si arriva con una certa gradualità. O Giulietta, come son belli i tuoi occhi! Qualcosa del genere. Tu invece mi spari in fronte: “La sposi Amelia?” Non bastava la prima frase, “Con Amelia come va?”

‑Ma ormai te l’ho chiesto: la sposi?

‑Vuoi tu prendere la qui presente Amelia come tua legittima sposa? No, non lo voglio. 

‑Ma perché?

Già, perché? Cercò di rispondere a lei ma soprat­tutto a se stesso:

‑Innanzi tutto, la domanda non è “perché non la sposi?” ma, eventual­mente, “perché la sposi?” Col tuo procedimento, mi dovresti chiedere perché non sposo Luisa, Marcella, Lella ecc. Tutte le donne per arrivare all’ultima, alla duemiliardesima, di cui dovrei divenire il marito perché non sono riuscito a dire perché non la sposo. Si chiede perché qualcuno fa qualcosa, non perché non la fa.

‑Sempre paradossale! Si può benissimo chiedere a qualcuno perché non mangia, se è ora di pranzo!

‑Non sono paradossale: sono logico. Come giustamente dici tu, si può porre la domanda negativa – “perché non fai questo” – solo a chi quella cosa aveva il dovere di farla. Chiediamoci dunque che ragioni ho per sposare Amelia, ragioni per le quali avrei il dovere di sposarla. Cominciamo.

In primo luogo, mi piace stare con lei. È un’emotiva fottuta ma è anche intelligente e brillante. Tuttavia dopo qualche ora comincio ad innervosirla e lei comincia ad innervosire me. Che ne sarebbe, di noi, se convivessimo? 

Secondo, mi piace fare l’amore con lei e questa è certo una cosa seria. Ma tutti mi dicono che il sesso non riesce affatto a tenere unite le coppie sposate. Questa fiamma va progressivamente affievolendosi.

‑Non è detto che sia sempre vero. Non è detto che lo sia nel tuo caso, disse Angela, sistemandosi di lato sul sedile, con le gambe sotto di sé. Era totalmente dimentica della strada.

‑Non è detto ma è probabile. Perché mai dovremmo fare eccezione, noi? Poi – te l’ho detto – lei è emotiva, esplosiva, passionale. Io amo la razionalità, la calma, il silenzio, la pace. Per me l’ideale sono Filemone e Bauci, per lei Caterina e Petruccio.

‑Quelli della Bisbetica Domata? Ce l’hai con Shakespeare, oggi! 

‑Un paio di mesi fa ho letto parec­chie tragedie. Comunque, non siamo fatti per costituire una coppia stabile. L’unico motivo che potrei avere per sposare Amelia è che è incinta e che i suoi genitori lo desiderano.

‑E stai per dirmi che non basta.

‑Esattamente. Sposarsi per timidez­za è un errore. Uno può regalare qualcosa, può anche regalare tutti i propri averi, ma non se stesso. Per giunta, sarebbe un pessimo affare. La ricordi, la monaca di Monza?

‑Oggi sei tutto letterario. Sì, la ricordo. “La sciagurata rispose: non so che obbiettare”.

 

 13

 

 Benché fosse arrivato con qualche minuto d’anticipo, Ilda si fece trovare pronta, sul portone di casa. Era molto ben vestita, anche se Stefa­no l’avrebbe preferita meno appariscente: tuttavia, pensando alle stranezze di Angela, s’impose di non giudicarla male. A meno che la tenden­za ad essere severo con lei non dipen­desse da quella tale vicenda di cui gli aveva parlato Amelia? Ma anche questo non era un buon motivo. Quasi tutti abbiamo scheletri nell’armadio.

I convenevoli furono rapidissimi e Stefano si sentì affascinato da quella giovane. Era tutta nei suoi occhi, nella sua bocca, nel suo sorriso. Sembrava consegnarsi intera e sponta­nea al momento presente, a quella conversazione banale e serena, con una purezza d’acqua di fonte. Era certo una passionale, secondo quanto aveva saputo, ma non era né un’ipocrita né una calcolatrice. 

Volle esprimerle l’improvvisa tene­rezza che sentiva per lei:

‑Lo sai che sei simpatica? Fino ad ora ci siamo visti sempre in mezzo ad una folla d’amici e per me sei stata solo un’amica di Amelia. A quattr’occhi sei anche migliore.

‑Veramente? chiese lei. Migliore in che senso?

‑La maggior parte della gente è guardinga; da principio preferisce sempre usare una maschera impersonale. Per non correre rischi. Tu invece sei te stessa sin dal primo momento. Uno accanto a te si sente subito un vecchio amico.

‑Non è piuttosto che sembro un’inge­nua?

‑No. O almeno, non è questa la mia impressione.

‑Allora è un complimento, concluse lei con semplicità. 

Poi, dopo un breve silenzio, aggiunse:

‑Vuoi che ti dica che impressione mi fai tu? Anche se non credo che ti restituirò i complimenti?

‑Spara, come dicono nei film americani.

‑Sei sempre lo stesso. Corrispon­di a quello che Amelia dice di te. E mi fai esattamente la stessa impressione che fai a lei.

‑Cioè? Questo non significa molto. Uno può anche essere costantemente negativo. Mi devo preoccupare?

‑Certo che no, rise Ilda. Visto che lei è pazza di te. Tu dài l’impressio­ne di non essere dove sei, ma “dietro te stesso”, secondo le parole di Amelia. Chi ti parla sa di parlare con una parte di te, mentre dietro c’è un altro che pesa e valuta le stesse cose su un piano più intimo. E forse più severo. Uno si sente giudicato.

‑Te l’ha detto Amelia?

‑Sì. Io avevo la stessa impressione ma non avrei saputo esprimerla così bene. Sei fortunato, tu: Amelia è una ragaz­za intelligente.

Più tardi Stefano le chiese come mai l’avessero invitato a quel dibattito e apprese che il problema era il solito: si rischiava di avere poco pubblico. Cosa che sarebbe stata imbarazzante, soprattut­to visto che il prof. Donzelli era una celebrità e veniva da Palermo. Per questo, Ranzato, il sociologo, le aveva chiesto insisten­temente di portare qualcuno. “Spero che non ti annoi troppo”, aveva con­cluso Ilda.  Ma lui l’aveva rassicurata: di solito era difficile stanarlo ma, una volta in ballo, spesso si divertiva. Fra l’altro amava le discussioni.

Il traffico e la difficoltà di trovare un parcheggio li ritardarono più del previsto, tanto che quando entrarono nell’aula il dibattito stava proprio per cominciare e parecchi li guardarono con severità. I professori infatti entravano proprio in quel momento, scambiandosi sorrisi e strette di mano, mentre il sole basso tingeva di giallo la parete opposta alla finestra. Sul tavolo dei conferenzieri, coperto da un panno verde, troneggiava la sacramentale bottiglia d’acqua minerale. E dire che, secondo Alceo, “bevitor d’acqua non scrive mai cose belle”, pensò Stefano. 

Nell’aula, come pubblico, c’era una cinquantina di persone: non erano poche e tuttavia, data la vastità dell’ambiente, si aveva la sensazione d’una conversazione fra intimi. Amelia era annegata nel gruppo più folto di colleghe e colleghi d’università, sicché si limitarono a salutarla con la mano, da lontano. Poi andarono a sedersi in alto, dietro a tutti. 

Il tema della conferenza‑dibattito era “La Maldicenza”.

Parlò per primo il monsignore. Con tono mielato, cui ogni tanto sostitui­va la veemenza dell’indignazione contro il male, il religioso bollò la maldicenza come peccato. Bisognava voler bene al proprio fratello, mentre la maldicenza corrisponde a voler il male del proprio fratello. E come, nel decalogo, non solo sono stati vietati gli atti impuri, ma anche il semplice desiderio della donna d’altri, così dir male del prossimo è grave quasi quanto far male al prossimo. Desidera­re la donna d’altri sta al comanda­mento di non commettere atti impuri come la maldicenza sta al comandamento di non ammazzare. La maldicenza è un inizio d’omicidio.

Il moderatore, che già aveva presen­tato il monsignore con eccessive parole di lode, lo ringraziò con eccessive parole d’apprezzamento e passò la parola al giurista. Era, questi, un uomo corpulento e pacioso che esordì dicen­do che sarebbe stato brevissimo. E, infatti, stranamente, lo fu: cominciò col ricordare che, essendo penalista, oltre che professore universitario, si trovava a contatto con la sentina dell’umanità. Aveva a che fare con stupri, violenze, furti, omicidi. Per lui, parlare di maldicenza, era come per un oncologo parlare di raffreddore. Tuttavia sì, il codice la prevedeva come reato. Purché la diffamazione avesse luogo in presenza di più perso­ne e ci fosse uno abbastanza suscettibile e carogna da denunciare il fatto. 

Lo chiamava carogna, precisò, perché se bisognasse condannare per diffama­zione chiunque abbia detto cose terri­bili sul conto di un terzo, non ci sarebbero più innocenti, al mondo. La maldicenza, de facto, non è un reato, sosteneva: è un’azione normale della società, di cui il diritto deve occuparsi solo nei casi più gravi. Come ad esempio la diffamazione a mezzo stampa. E concluse con un invito che fece storcere la bocca al prete: “Datevi pure alla maldicenza, è uno dei piaceri della vita: purché non sia una calunnia e purché perdoniate in anticipo quelli che l’esercitano sul vostro conto”. 

Molti ragazzi sorridevano divertiti, quasi che l’avvocato avesse voluto fare dello spirito, ma Stefano in cuor suo l’applaudì seriamente. Ilda da parte sua osservò: “Avrà ragione, ma è terribile che abbia ragione”.

Poi parlò Ranzato, l’amico di Ilda, e Stefano cominciò ad annoiarsi. Mentre l’oratore precedente aveva parlato a braccio, e aveva dominato l’argomento con l’agio di chi conversa con gli amici, questo giovane s’incaponiva a fare un discorso scienti­fico. Citò, infatti, le legislazioni del passato; i moralisti francesi del Seicento e del Settecento; le usanze d’alcuni popoli primitivi e presentò perfino delle statistiche, scovate chissà dove. Aveva fatto un enorme lavoro di cui riferiva puntigliosamente i risultati, spesso leggendo e provocando qua e là degli sbadigli. L’impressione generale era che avrebbe fatto carrie­ra: una polverosa carriera di profes­sore universitario. 

L’unica cosa brillante che disse ‑ e che anzi ripeté più volte, citando parecchi autori ‑ fu che la maldicenza è una compensazione privata per le proprie frustrazioni. “Il maldicente si vendica delle proprie manchevolezze scoprendo quelle altrui”. Convinto com’è, nel subconscio, della propria inferiorità, crede che un pecca­tuccio altrui scusi i grandi peccati propri. Idea plausibile, indubbiamente, che andava sparata come un petardo, ma che lui affogò in circonlocuzioni e note bibliografiche.

Il pubblico cominciò a dare segni d’impazienza, tanto che l’applauso finale, quando il giovane si risedette, sembrò più di sollievo che d’ammirazione. Il moderatore in ogni modo ricoprì di lodi – che suonarono false – anche questo oratore e diede la parola a Donzelli. Il professore, se pure noioso come Ranzato, all’inizio, aveva almeno il merito di sapere insegnare. Si esprimeva con bella rotondità, parlava a braccio, sorrideva, dominava la materia. Cominciò citando Jago, ma un vicino di Stefano, studente di legge, osservò sottovoce che quella di Jago non era diffamazione, somigliava piuttosto alla calunnia, qualcosa che implica la coscienza dell’infondatezza dell’accusa. Poi, dopo aver citato altri casi celebri, Donzelli fece soprattutto un’in­dagine linguistica. Per lo Zingarelli, diceva, la maldicenza è il vizio di fare discorsi malevoli sugli altri. Bisognava badare a quel termine, “vizio”. Per il dizionario l’occasionale maldicenza è un diritto. Solo la maldicenza costante, il vizio della maldicenza, è biasimevole. Si vedeva bene, concludeva sorridendo, che gli italiani sono un popolo vecchio e disincantato. 

Per i francesi invece, continuava, médisan­ce viene da médire che significa, secondo il Petit Robert, dir di qual­cuno il male che si sa o si crede di sapere. Per i vicini d’oltralpe dunque il maldicente non è un calunniatore e anzi, vista la sua buona fede, ha quasi il diritto di dire quello che dice.  Se è la verità! E questo lo induceva a ricordare un detto inglese: “Conosco molte cose più crudeli della verità, ma in questo momento non riesco a ricordarmele”. Frase che Stefano si affrettò a trascrivere su una busta, che si trovava in tasca. Forse Donzelli non era poi così noioso.

Secondo il grande Hazon, continuava l’oratore, maldicenza in inglese si traduce backbiting. Il termine pone l’accento sul fatto che l’attacco viene sferrato dietro le spalle dell’interessato. Con bella mentalità da gentiluomini, aggiungeva sorridendo, gli Inglesi, prima di chiedersi se quello che viene detto sia vero o falso, notano che chi parla non ha il coraggio di dire le cose in faccia. Ma ci si potrebbe permettere di dire la verità in faccia a tutti? Certo che no. Un autore di cui aveva dimenticato il nome aveva scritto, giustamente: “Nessuno ha di sé la cattiva opinione che ha di lui la persona che lo stima di più”.

A conclusione delle “relazioni” l’applauso fu sincero ma s’era fatto tardi e molti cominciavano a desiderare di andar via: il moderatore tuttavia bloccò quelli che s’erano alzati, pregandoli di rimanere almeno per un po’. Per favore. Si trattava di una confe­renza dibattito, no? Qualcuno aveva dunque qualcosa da dire, da obbiettare? Suvvia, che qualcuno prendesse la parola. 

Dopo parecchie esitazioni, fisicamente spinta dalla sua vicina, si alzò infine una ragazza che fece un discor­so idealistico, ed evidentemente preparato in anticipo, in cui sostenne che l’umanità intera avrebbe dovuto impegnarsi per estirpare la mala pianta della maldicenza. Questo passatempo che molta gente reputa innocente (e lo disse guardando il giurista) fa troppo male, per prender­lo sottogamba. Certo, il singolo non può far molto, contro un’abitudine vecchia e diffusa. E tuttavia ognuno può portare la sua pietruzza all’edificazione della concordia fra gli uomini: che ciascuno s’impegni intanto ad evitarla perso­nalmente, la maldicenza, ed a frenarla in ogni gruppo in cui si trovi ad essere inserito. 

Una di quelle soluzioni che possono ipotizzare solo i ventenni, pensò Stefano. Poi, vedendo che il moderatore insisteva per un secondo intervento, almeno un secondo inter­vento, un po’ per concludere quella conferenza e un po’ perché la ragazza l’aveva indignato, prese la parola.

‑Dica pure, l’incoraggiò il modera­tore.

‑C’è una cosa che mi dà fastidio, nell’impianto del dibattito. Tutti parlano dei maldicenti come di altri, altri che stanno fuori da quest’aula. Ma questo è ipocrita: maldicenti siamo tutti. Inoltre la maldicenza non è un pecca­to perché, salvo eccezioni, è amore della verità. Il guaio è che quest’amore lo manifestiamo più per quanto riguarda gli altri che per noi stessi. Hanno ragione i Francesi: tutti, con la maldicenza, diciamo o crediamo di dire la verità. È uno scambio d’informazioni segrete: io ti dico la vera ragione per cui i signori Rossi hanno fatto vacanze separate ‑ e ti rivelo cioè che la signora Rossi ha un amante ‑ e tu mi dici che Bianchi si può permettere tanti lussi perché è corrotto. Dopo la maldicenza ne sappiamo di più tutti e due. O quanto meno sappiamo in che direzione cercare. Le lodi le facciamo agli interessati, con la maldicenza ne ricerchiamo il lato indecente. In totale la maldicenza esprime il lato negativo dell’opinione che ciascu­no di noi ha realmente degli altri. Esclusa la calunnia, che importa la malafede, la maldicenza propriamente detta non esiste.

Le sue parole scatenarono un putife­rio e a quel punto tutti volevano parlare. La maggior parte protestava temerariamente che non aveva mai detto male di nessuno. Altri gridarono che lui attribuiva intenzioni malevole a tutti. Che l’umanità era migliore di quanto lui non pensasse. Quando pervenne a riottenere un ragionevole silenzio, il moderatore ridiede la parola alla ragazza che aveva parlato prima e che lo accusò di cinismo. Forse lui era un maldi­cente che cercava giustificazioni: accusa cui Stefano rispose con una risata. Poi il moderatore diede la parola al prete. 

Questi affermò che dichiarando la maldicenza inesistente la si autoriz­zava. Come se avesse bisogno di esser­lo, pensava Stefano. E che essa era stata condannata anche da Gesù. La parola di Gesù, se glielo consentivano, valeva più di quella di “questo giovanotto”. Il moderatore difese Stefano sostenendo che comunque si trattava di un’idea, per quanto discutibile. Qualcun altro voleva prendere la parola? Ma nel silenzio solenne nessuno si sentì di alzarsi. Lo stesso Stefano, notando che il penalista sorrideva beato e lo guardava con atteggiamento complice, lasciò perdere. Aveva pensato di ribattere che, sulla base di molte delle affermazioni udite, la conferenza avrebbe dovuto essere intitolata: “Maldicenza e ipocrisia, dimostrazione pratica”. Chissà, forse l’avrebbero picchiato. 

La conferenza si con­cluse con un altro giro di ringraziamenti e congratulazioni e alla fine tutti cominciarono a sfollare.

‑Sei una pistola senza sicura, fu il commento di Ilda.

‑Collega, io la penso come te, gli dichiarò un giovane barbuto e con gli occhiali rotondi. Il mondo è pieno di maldicenti.

‑Grazie, gli disse Stefano, aggiun­gendo in cuor suo: “Purché tu metta anche noi due nel mazzo”.

‑Ti sei scoperto rivoluzionario? gli chiese ironica Amelia, giunta nel frattempo fino a loro.

‑No, anarchico con la bomba sotto­braccio.

‑Mi hai molto stupito, comunque, prendendo la parola. Sai, Ilda, temo che Stefano avrebbe evitato di fare la Rivoluzione France­se, se questo l’avesse obbligato ad attivarsi. Il suo ideale è che tutti lo lascino tranquillo. Magari a grattarsi la pancia. Allora, come mai ti sei alzato?

‑Forse per il nervosismo che mi dà la fame. Andiamo a prendere una pizza? 

L’ultima cosa che avrebbe desiderato era una discussione piena di sottinte­si con Ilda presente.

 

14

 

‑Ti ha cercato un certo Scardilli.

‑Chi?

‑L’ho scritto qui: Nunzio Scardilli. 

‑Ah, Nunzio! Richiama?

‑Penso di sì, concluse sua sorella.

Che diamine poteva volere Nunzio? E non era in seminario? Comunque, visto che non aveva lasciato un numero cui richiamarlo, era inutile stare a fare ipotesi. Si sedette al tavolo per studiare ma era come se sulla pagina del libro ci fosse scritto, in lettere enormi e per traverso, “Amelia è incinta”. 

Amelia era incinta e nessuno aveva trovato una solu­zione. A lui continuava a parere incredibile che, per un attimo di piacere sessuale, lui si dovesse trovare legato per sempre alla famiglia Prestigiacomo. Uno fa una cosa normale, come accendere la luce, e ne consegue un disastro: la casa era piena di gas e salta in aria. Ma come si può immaginare che qualcuno ha dimenticato il gas aperto?

Avrebbe potuto mettere sempre un preservativo, questo è vero. E la casa non sarebbe saltata. Ma in certi giorni non è necessario e chi mai, tornando a casa, prima di accendere la luce, annusa l’aria? Inoltre questo avrebbe dato luogo a discussioni con Amelia: e che, non ti fidi di me? Che cosa credi, che sia pazza? Fra l’altro chi resterebbe incinta sono io, mica tu.

Intanto, per tutti gli anni avvenire ci sarebbe stato un legame fra lui e un piccolo estraneo che l’avrebbe chiama­to papà. Qualcuno che avrebbe preteso da lui tutto quello che si pretende da un padre. E non è poco. Anzi, è moltissimo già quando si è voluto un figlio, figurarsi quando non si è voluto.

Si trovava nella condizione delle giovani di una volta che le famiglie decidevano di maritare a qualcuno. Magari le povere ragazze avevano schifo, di quell’uomo, ma potevano piangere, implorare, vomitare, chi decideva alla fine era sempre la famiglia. Se papà lo voleva, loro finivano a letto con l’uomo panciuto e puzzolente che gli era imposto. Legioni d’anime sensibili hanno pianto sulla vergine venduta e non si è pianto abbastanza sulla ragazza maritata controvoglia, che faceva più o meno la stessa fine. 

Si sentiva in una situazione analoga: c’era da qualche parte, in quella città, una donna che, decidendo di non abortire, gli imponeva d’essere padre ed avere rapporti con la famiglia Prestigiacomo. A ripensarci, la sua situazione era la peggiore. Le giovani di un tempo, se avessero voluto, se avessero avuto la tempra di Giovanna d’Arco o di Lou Salomé, avrebbero potuto fuggire, andare a lavorare come serve, cercare rifugio da parenti comprensivi. Lui invece che difesa aveva, contro un bambino innocente, che non aveva chiesto di nascere, che aveva diritto ad avere un padre?

Stefano sbatteva contro la parola “padre” come una mosca contro le pareti di un bicchiere. Per lui padre era suo padre: un uomo affermato, sereno, sicuro di sé. Un’altra categoria, rispetto a se stesso. Ai padri lui aveva sempre pensato più o meno come si pensa ai minatori o agli astronauti: quando mai abbiamo pensato di andare perso­nalmente sulla Luna?

Era come se avesse contratto una malattia inguaribi­le. Uno va dal medico con un fastidio e ne torna con una diagnosi orribile e sei mesi di vita. Nunzio ‑ a proposi­to, proprio lui ‑ gli aveva detto una volta che l’esser prete è un carattere che l’anima dell’interessato conserva anche dopo la morte. La formula era: “eres sacerdos in aeternum”. Bene: lui si sentiva pater in aeter­num, senza poterci far nulla e senza riuscire ad accettare l’idea. Quel bambino era solo un problema. Esclusi­vamente un problema. Non aveva deciso una volta per tutte che avrebbe avuto il coraggio della verità? Bene, sta­volta la verità era che il bambino per lui era solo un’immensa seccatura. Che è l’atteggiamento degli infanticidi, pensò con orrore. No, riusciva a concepire l’aborto, ma mai avrebbe fatto male a un bambino. 

Et voilà, sentendo questo qualcuno avrebbe persino potuto dire che sarebbe stato un buon padre. Era tutto assurdo. Non solo già da prima mai aveva pensato seriamente che Amelia sarebbe stata la donna della sua vita, ma da quando gli stava “facendo un figlio” forse ciò che sentiva per lei era in primo luogo il rancore.

‑Pronto?

‑Sono Scardilli.

‑Nunzio! E come mai sei tornato in città?

Nonostante l’allegria dell’accoglienza, la voce di Nunzio rimase seria: aveva un po’ di tempo per incontrar­lo? Stefano si precipitò a mettersi a sua disposizione, lo andò a prendere in auto e, una volta in casa, pregò Tica di far loro un buon tè. La donna giustamente protestò, dandogli dello scortese e dicendogli che doveva prima chiedere al suo amico se lo gradiva, il tè, ma Nunzio si affrettò a dire che sì, andava benissimo.

Un tempo assunta come donna di servizio, da quando era morta la padrona di casa Tica era diventata, fra le mura domestiche ed escludendo il sesso, la signora Condelli. Non solo trattava lui stesso e sua sorella come figli, ma faceva la spesa, teneva la cassa, si occupava del condominio, entrava e usciva a suo piacimento, rimprovera­va il padrone di casa se dimenticava di cambiare camicia e in totale, pure se bisognava perdonarle un certo tono di comando e qualche pregiudizio, per i Condelli era una benedizione. Per sé teneva la vecchia paga, immutabile nel tempo, e se ne serviva anche per fare regali a lui e a sua sorella.

‑Ma Tica che nome è? chiese Nunzio.

‑Si chiama Scolastica ma quand’era piccola aveva difficoltà a dire il nome intero. Dire che c’è una santa Scolastica!

‑Certo che c’è. In ogni modo, meglio Tica che Scolastica.

La conversazione per qualche tempo andò avanti imbarazzata, su argomenti privi d’interesse, ma Stefano non osava né parlargli dei propri problemi né chiedergli brutalmente che cosa lo angustiasse. Nunzio infatti, checché dicesse, non perdeva una sorta di aria afflitta. Come di chi ha un pensiero che non riesce a dimenticare.

Infine, in un momento in cui, stanchi di tergiversare, erano rimasti in silenzio, il seminarista ad occhi bassi confessò semplicemente:

‑Sono in crisi.

Stefano non rispose e l’altro, alzando gli occhi, ripeté: 

‑Sono in crisi e vengo a romperti le scatole perché non so con chi parlar­ne. Tu sei sempre stato gentile, con me. Non la pensi come me, ma almeno ti sei posto il problema di Dio e dell’esistenza.

‑Non mi rompi affatto le scatole. Anzi ti sono grato per la fiducia: ma non credo che riuscirò ad esserti utile. Temo perfino di aprire bocca, perché non sono poi molto ottimista, nella vita.

‑Lo so, lo so, disse Nunzio. E riprese a guardarsi le ginocchia. Il fatto è che tu hai ragione, nell’avere questi sentimenti, visto che sei un miscredente. Non credi in niente, né nella Divina Provvidenza, né nella Giustizia Divina e neppure nell’eterna felicità dopo la morte. Quello che non capisco è come mai sia così triste e così scoraggiato io.

Stefano pensò “Forse la verità è che col cuore non ci credi più”, ma non lo disse.

‑Credimi, continuò Nunzio, sempre senza guardarlo. Come avesse voluto evitarsi l’involontario commento costituito dall’espressione del suo interlocutore. Cerco di interpretare quello che vivo con gli occhi della fede. Cerco di vedere la superiorità di coloro che si dedicano a Dio. Ricordo a me stesso il vantaggio della felicità eterna rispetto ai vantag­gi materiali ed immediati cui si dedicano gli altri. Ma alla lunga, mentre continuo a vedere i vantaggi materiali ed immediati degli altri, non intravedo nessuna eterna felicità, per me. Comincio a sentirla come una favola. Hai presenti i film di cappa e spada che vedevamo da bambini? Bene, uno li vede senza angoscia, pensando che Robin Hood, benché povero e senza tetto, alla fine prevarrà sull’usurpatore. Oggi mi trovo nella situazione di chi comincia a capire che l’usurpatore si chiama più semplicemente Re Giovanni e che Robin Hood presto penderà dalla forca. Sono chiaro?

‑Anche troppo.

‑E c’è di peggio, riprese guardandolo francamente negli occhi: Se questa distin­zione fra adoratori di Dio e adoratori di Mammona…

‑Chi è Mammona?

‑In sintesi, i beni materiali. Scusami, è un’espressione da semina­rio. Se la considerazione per i beni materiali fosse diversa nel mondo dei religiosi e nel mondo secolare, mi sentirei confortato. Mi direi: nel mondo comune questi valori superiori non hanno corso, ma in questo altro piccolo mondo, il mondo del seminario, del convento, della comunità dei veri credenti, le cose stanno diversa­mente. E invece no! È questo che mi strazia. All’interno del semina­rio e fra preti ci si dilania per interesse, ecco la verità. Si fa il voto di povertà ma ci si batte per la parrocchia nel quartiere elegante. Si parla sempre d’umiltà ma si sgomita per apparire in televisione o almeno per avere una gran folla alla predica domenicale. Per non parlare di beni materiali come la bella canonica, la bella automobile o lavorare in vesco­vado. Fra tappeti e divani. 

Il piccolo parroco di campagna, che vive povero e ignorato, dovrebbe essere il primo nel regno dei cieli, dicono. Certo. Ma come facciamo a saperlo? Come facciamo a crederci, alla lunga? Di fatto vediamo soltanto la superbia dei monsignori, il potere del vescovo e il fasto del Vaticano. Il parroco di campagna non ha l’aria d’essere primo in nulla. È uno che non conta niente. Nessuno lo prende in considerazione neppure per un problema precisamente religioso, un problema per il quale dovrebbe essere un’autorità, visto che si predispone ad essere il primo in cielo.

Nunzio tacque e Stefano, imbarazzato, non sapeva come interrompere il silenzio. Infine si sistemò meglio in poltrona e decise d’essere franco:

‑Onestamente, credo che il problema sia tuo. Nel senso che la realtà invia costantemente i messaggi che hai detto tu. Dunque non mi hai detto niente di stupefacente. I fatti sono questi. Si tratta di avere una fede tanto forte da non vederli, o da non tenerne conto. 

‑Ma come si fa a non vedere quello che uno ha sotto gli occhi? protestò Nunzio. La fede mi dice che quella è una mucca, io vedo che è una sedia, poi, per amor di fede, cerco di mungerla, e tutti ridono. Anche quelli che dovrebbero credere, come me, che quella è una mucca. E alla fine io stesso mi sento ridicolo. Ecco la mia situazio­ne. 

‑Ma, prima di andare in seminario, questo contrasto fra fede e realtà corrente, non l’avevi notato?

‑Certo che sì. Infatti quello che mi stupisce è che proprio i credenti si comportino come i non credenti. È il seminario che mi distrugge, perché me lo aspettavo diverso.  Mentre al mondo mi sono quasi abituato. Credi che non mi sia reso conto di essere il brutto anatroccolo? E va bene, non sono bello. Non sono brillante, non sono ricco. Da ragazzo, non essendo forte, le ho prese da tutti. Forse non sono neppure intelligente…

‑Ora stai proprio esagerando! Qualcuno ti ha mai consi­derato uno scemo?

‑Ma Stefano, anche se fossi normal­mente intelligente, persino più intel­ligente della media, chi se ne accor­gerebbe? Io non so farmi valere. Se una cosa la dico io sembra banale, se la dici tu sembra bellissima. Sono un disastro.

‑Suvvia…

‑Lascia perdere, non è questo che ti volevo dire. Sono venuto per chiederti di aiutarmi.

‑Se posso!

‑Vedi, tu sei ateo. E tuttavia stai in piedi, senza nessuna speranza metafisica. Ti vedo sereno, forte, normale. Perfino buono col prossimo. Ed ecco la domanda: come diavolo fai? Io mi ripeto che Gesù mi ama e mi aspetta e, lo stesso, sono disperato. Tu, invece, non hai nessuna prospettiva e… Come diavolo fai? Ho spesso pensato a te, in questi mesi. Tutti dicono che la religione è consolante, ma a me sta risultando difficile, essere credente. E invece ecco lì uno che non crede a niente, non spera in niente e non ha bisogno di essere consolato. Sono venuto a chiederti la ricetta, tentò di sorridere.

Stefano lo guardò perplesso, sbat­tendo gli occhi. Lui, sereno e buono? Non era quello che pensava il signor Prestigiacomo. Eppure, rispetto a Nunzio, era effettivamente meno angosciato dalla vita. Forse perché non si aspettava nulla. Ma questo poteva aiutare Nunzio? E tuttavia non poteva che dire la verità:

‑Innanzi tutto, la mia vita non è tutta rose e fiori. Proprio in questo momento sono nei guai per una faccen­da molto seria. Ma il punto non è questo. Il punto è che ho cominciato molto prima di te, a rassegnarmi alla realtà.

‑Cioè?

‑Ho perso la fede sei anni fa ed ho avuto sei anni per accettare che il mondo è com’è. È come quando è morta mia madre. Da principio il vuoto è sembrato assolutamente incolmabile, poi, con gli anni, ci si accorge che passano giornate intere senza che si pensi una sola volta a lei. E poi… 

‑Ma quanto tempo ci hai messo, ad accettare la realtà? 

‑Anni, te l’ho detto. E non è sicuro che ce l’abbia fatta. In fondo, chi ha assaggiato l’eternità non guarisce mai di questa nostalgia. Poi c’è una seconda cosa, per quanto ti riguarda. Sin da piccolo, tu non hai accettato la vita normale: l’hai anzi reputa­ta tanto sbagliata da non cercare di adattarti ad essa. Eri nato diverso ed hai creduto che la tua diversità potesse diventare conformità nella religione. Solo che anche nell’ambito della religione hai ritrovato la normale umani­tà. La soluzione…

‑Ah dunque c’è una soluzione? iro­nizzò Nunzio.

‑La soluzione è l’umiltà. Non l’umiltà pelosa di chi si dichiara l’ultimo degli ultimi, o servus servorum dei, come dice il Papa; piuttosto l’umiltà metafisica di chi si vede semplicemente come un mammifero superiore. Si tratta di accettare che non c’è nulla di più da sperare di quello che abbiamo sotto gli occhi. È la realtà che comanda, non tu. La realtà non si adatterà mai a te o a me. Siamo noi che dobbiamo adattarci ad essa. Ci hai mai seriamente provato?

‑Non credo che ne sarei capace.

‑Io invece credo fermamente che potresti farcela. Prendi le ragazze: vuoi avere succes­so? Dici alla prima che ti piace che sei innamorato di lei. Anche se in realtà senti solo una certa simpatia. Facciamo che lei ti manda al diavolo e ride di te? E tu ridille che aspetti continuamente l’occasione di vederla, che ti piace follemente, che sei innamorato di lei… E magari cominci a dire le stesse cose a un’altra, nel frattempo.

‑Ma è scorretto! E anche umiliante.

‑Lo vedi che ti credi chissà chi? Quelli che tutti invidiano, i Casanova, i cosiddetti conqui­statori, non hanno questi problemi. Raccolgono moltissimi no ma anche molti sì. Col tempo capiscono in anticipo se sarà un no o un sì e dunque evitano le umiliazioni: però hanno imparato per pratica, con un’umiltà che tu non sei disposto ad avere. E torniamo a te, per l’appunto. 

Vo­gliamo dire che sei una persona del tutto normale? Bene, comportati come tutti gli altri. Solo così avrai una vita come tutti gli altri. Finché rimarrai arroccato su principi inattuabili, finché convive­rai con un sentimento di falsa infe­riorità, un sentimento che vorresti trasformare in un sentimento di altrettanto falsa supe­riorità, ti troverai malissimo.

Nunzio si guardò ancora una volta, a lungo, le ginocchia. Poi concluse:

‑Dovrei dunque lasciare la religio­ne, per cominciare.

‑Scusami se sono brutale: sei sicuro che la religione non abbia già lasciato te?

‑Non lo so ancora.

‑Proprio in questo non posso aiutar­ti. Comunque, dovresti aspettare di avere le idee più chiare. Finché non avrai le idee più chiare come potrai riconoscere la tua strada? In ogni modo, non ti arrendere, quale che sia la tua conclusione.

Nunzio rifiutò risolutamente di essere riaccompagnato e affermò che una lunga passeggiata era proprio quello di cui aveva bisogno. 

Sulla porta, inaspettatamente, prese fra le braccia Stefano e lo abbracciò.

 

15

 

Benché a letto con la febbre, suo padre aveva avuto cura di mettergli per iscritto tutto quanto doveva dire e non poteva decentemente rifiutarsi. Tuttavia alla fine tentò una carta:

‑Scusami se te lo chiedo: fino ad ora ci sei sempre andato tu e dunque io non ho scuse per non andar­ci. Ma c’è gente, come quel rag. Motta, amico tuo, che non va mai alle riu­nioni di condominio e sopravvive lo stesso. Come mai tu ci vai sempre?

‑Motta paga tutto senza fiatare, anche quello che non dovrebbe. Mentre una persona di buon senso cura i propri affari. Avere una casa signifi­ca anche pagare le tasse, il condomi­nio, l’acqua, la luce, il telefono. Stavolta a noi importa solo che l’am­ministratore tolga dalle spese quello che va pagato al pittore per le scale, soprattutto visto che forse ci vorrà un’impalcatura. Polizzi è un galantuo­mo ma di legge non capisce niente. Vediamo se ricordi perché non dobbiamo pagare.

‑Perché il danno è stato provocato dall’inquilina dell’ing. Belli e dunque la riparazione va pagata o dall’inqui­lina o dall’ing. Belli stesso. Non certo dal condominio.

‑Bene. Anche il resto ti è chiaro?

‑Sufficientemente. 

Poco dopo il rag. Polizzi, un po’ sorpreso di non vedere il farmacista, lo accolse in casa con paterna cordia­lità: “Abbiamo già il giovane Belli, ora abbiamo anche il giovane Condelli. Il condominio ringiovanisce”. Lo accompagnò verso lo studio‑salotto e Stefano, che già era stato oppresso dall’insufficiente illuminazione dell’ingresso e del corridoio, si sentì stringere il cuore ancora di più. L’arredamento era di quelli che sembrano rispondere ad un unico crite­rio: “in ogni caso, quello che costa di meno”. Le poltrone erano in simil­pelle e un paio erano scompagnate. Il divano aveva un’aria preoccupante di divano‑letto. La libreria, in trucio­lato coperto di formica, conteneva qualche libro scolastico, un’intera enciclopedia della caccia comprata a fascicoli e una bottiglia di cognac vuota. Il tavolo, essendo di legno, avrebbe anche potuto essere accettabile, ma era sfregiato da un centrino ricamato dall’aria stanca, con sopra un grande posacenere già pieno di cicche. Polizzi era vedovo e solo, ma una tale somma di bruttezza non poteva corri­spondere né alla miseria né alla solitudine.

Entrato, dovette fare il giro per dare la mano a tutti. Alla signora Ricevuti, mal truccata e legnosa come sempre; al giovane Alessandro, figlio dell’ing. Belli, qui ovviamente inviato perché studente di legge; alla signora Gennari con la sua eterna aria di bidella maltrattata e al sig. Sardi, il commerciante di scarpe del piano terra. Questi aveva un sorriso disar­mante, una stretta di mano micidiale e in tutta la serata aprì la bocca solo per votare. 

Proprio mentre cominciavano le formalità di apertura arrivarono anche Salerno, l’altro commerciante del piano terra e il prof. Leone.

Aperta la discussione, mentre tutti pensavano che almeno per il bilancio consuntivo non ci dovessero essere problemi, il sig. Salerno, inopinata­mente, cominciò a far la guerra all’amministratore. Lei ha presentato un bilancio illeggibile! diceva. Lei doveva distinguere le spese generali, quelle per le scale, quelle per l’ascensore, quelle personali e via dicendo! Alcune delle cose che diceva erano perfino ragionevoli ma era il tono, quello che era inaccettabile. Soprattutto visto che Polizzi non era un professionista del ramo e faceva l’amministratore gratis. Ma Salerno non parlava: urlava. Non esprimeva perplessità: accusava. Caricava a testa bassa e non intendeva ragioni. Stefano pensava che al posto di Poliz­zi si sarebbe dimesso immediatamente e avrebbe mandato tutti al diavolo, ma l’interessato non sembrava affatto impressionato. Aveva l’aria di consi­derare quella sfuriata un incidente meteorologico e si limitava ad osser­vare: “La divisione delle spese è esatta e tutte le pezze d’appoggio sono qui. Non avete che da controllarle. Eventualmente si possono rifare i conti”. Il prof. Leone, un uomo anzia­no, calmo e con una bella barba bian­ca, notificò a Salerno che se avesse continuato a gridare se ne sarebbe andato via. E glielo disse con tale serafica semplicità che l’altro si scusò dicendo che era quello il suo modo di parlare. 

Finalmente, corretto qualche errore evidente, si stava per passare all’ap­provazione, quando Stefano si rese conto che nessuno obbiettava contro la spesa per il pittore. Dunque non poteva evitare di parlarne lui stesso. Prese la parola e fece notare, se pure con evidente imbarazzo, che il condominio stava per accollarsi una spesa che non gli competeva. Tutti furono immediatamente d’accordo con lui e il giovane Alessandro, benché sgradevolmente sorpreso dall’interven­to di Stefano, non negò il punto di diritto. Aveva evidentemente sperato che nessuno ne parlasse, per non dover discutere, ma a questo punto obiettò soltanto, e anche piuttosto seccamente, che obbligata a pagare era l’inquilina. Lei aveva provocato il danno, lei doveva pagare. 

‑Io, ho provocato il danno? rise la signora Gennari, caso mai il mio idraulico!

‑ L’idraulico l’ha scelto lei, ritorse Alessandro, e lei ne risponde. Culpa in eligendo. Per non dire che la riparazione da cui è derivato tutto il guaio – a quanto ho sentito – l’ha effettuata suo cognato, non un idraulico.

‑Mio cognato infatti fa il tappezziere, non l’idraulico! s’indignò la Gennari. E comunque il danno è dovuto al ritardo col quale suo padre ha fatto effettuare le riparazioni!

‑Nient’affatto! Il danno è stato provocato da un idraulico incom­petente, che sia suo cognato o un altro non ha importanza. Incompetente e brutale per giunta. Mio padre è stanco di pagare al suo posto!

La Gennari era furente. Ci teneva anzi a far sapere che per questa storia si era talmente arrabbiata, che aveva anche smesso di pagare il condominio. Forse solo per questo alla fine qualcuno si era mosso! Polizzi cercò di interrompere il battibecco e sostenne che sapere se dovesse pagare l’ing. Belli o la sua inquilina non era cosa che riguardasse il condominio. Per il condominio ‑ disse ‑ in caso d’inadempienza rispondeva in ogni caso il proprietario. Quest’affermazione, indiscutibile dal punto di vista giuridico, toglieva un problema e una spesa all’assemblea e per questo ottenne subito l’unani­mità. 

Il giovane Alessandro, scuro in viso, affermò però che se, in attesa della decisione del giudice, doveva pagare Belli, suo padre non accettava il preven­tivo dell’amministratore e avrebbe provveduto autonomamente. Cosa sulla quale nessuno ebbe da fare obiezioni. Salerno gli gridò anzi che provvedesse come voleva, ma presto. Lui era stanco di vedere le macchie d’umidità nelle scale e di sentir parlare di quest’argomento. 

Prima di chiudere il bilan­cio l’amministratore informò la Gennari che per la sua morosità era già stato costretto a passare la pratica all’avvo­cato. Purtroppo questo avrebbe aumentato la somma che lei doveva pagare. Ma la signora aveva tutta l’audacia degli ignoranti. Che si rivolgesse all’ing. Belli! Lei non avrebbe pagato finché non fossero state comple­tate tutte le riparazioni. 

‑Per le quali, all’esterno come all’interno, deve pagare lei, le ripeté Alessandro, rosso in faccia. 

‑Io non pago niente!

‑Lei pagherà fino all’ultima lira, confermò il giovane. Calmandosi e con l’aria di pregustare la giustizia finale. Riceverà la nostra citazione prima della fine del mese e pagherà il danno e le spese! Fino all’ultima lira.

‑Spero che suo padre non aspetti i miei soldi, per mangiare!

Polizzi mise una mano sul braccio di Alessandro per farlo tacere e tentò inutilmente di spiegare alla donna che avrebbe fatto bene ad informarsi con un avvocato, prima di essere tanto sicura della sue ragioni. Infine le ripeté che rispetto alla morosità il suo comportamento era assurdo: ostinandosi avrebbe pagato anche le spese del decreto ingiuntivo. 

‑Queste sono spese che si paga lei! rise la Gennari, ancora una volta impavida. E alla fine, senza aver cambiato opinione, si chiuse nel mutismo dicendo soltanto “La vedremo, la vedremo”. Come dire: siete tutti coalizzati contro di me ma ride bene chi ride l’ultimo.

Stefano la guardava e pensava che il concetto platonico di donna è una trentenne, bella e sorridente, che ti saluta da una barca in un giorno di sole. In realtà anche codesta Gennari – grigia, amara ed aggressiva ‑ era una donna. Sembrava incon­cepibile che qualcuno potesse deside­rare frequentarla, parlarle, toccarla: e tuttavia era vedova. Un giorno qualcuno l’aveva sposata. Mah. 

Il discorso sulla ripartizione delle spese fu sbrigato abbastanza veloce­mente, tanto che Stefano cominciò a pensare che le riunioni di condominio, Salerno a parte, non erano poi le tragedie di cui parlano tutti. Si fu presto d’accordo sul fatto che le tabelle mille­simali erano costose e che, per il momento, si poteva continuare ad accet­tare la ripartizione per numero di vani. Sicché si passò all’umidità che veniva dalla terrazza della signora Ricevuti.

Il sig. Salerno cominciò col dire ‑ nel suo caso urlare ‑ che era un’inde­cenza. Non solo quest’inconveniente era già cominciato da qualche mese e nessuno aveva fatto niente, ma la sua stanza da letto era divenuta umida; sua moglie aveva dolori reumatici al collo; la carta da parati doveva essere sostituita, ovviamente per intero; e intanto, se qualcuno si fosse sentito male, lui doveva vergognarsi a far entrare il medico in quella stanza. L’amministratore riuscì con molta pena, più che a fermarlo, a moderare il livello delle sue prote­ste: si era tutti d’accordo sulla necessità della ripa­razione. Non c’era nessun bisogno di gridare.

Quando finalmente si votò per sce­gliere l’impresa cui affidare il lavoro e sborsare la somma relativa, Salerno, pur continuando a borbottare che i lavori avrebbero potuto essere effettuati mesi prima, e anche a prezzo minore, cominciò a calmarsi. Sembrava che il temporale stesse allontanando­si e invece, proprio allora, scoppiò il vero problema della serata. Chi doveva pagare per le riparazioni? La signora Ricevuti, con l’aria schifata di una che era costretta ad occuparsi di cose che non la riguardavano, affermò che lei non doveva pagare, visto che la cosa non le arrecava nessun disturbo. Fra l’altro, in quel punto della terrazza, lei non ci andava mai. Se l’acqua arrivava da Salerno la colpa era del costruttore. Che si rivolgessero a lui. 

Leone tentò di far osservare che, visto erano passati più di dieci anni dall’ultimazione del palaz­zo, il costruttore non garantiva più nulla. Fu tuttavia sopraffatto dal vocione di Salerno che, passando spesso al dia­letto, aggredì la Ricevuti: era comodo, nevvero, da un lato impedire a tutti l’accesso a quella terrazza, perché di sua proprietà esclusiva, e dall’altro cercare di non pagare nulla per le riparazioni! La terrazza era sua, l’acqua veniva da lì, che pagasse tutto lei! Il prof. Leone chiese a Polizzi se per caso ci fosse­ro delle disposizioni di legge, al riguardo, ma prima ancora che l’ammi­nistratore potesse rispondere il giovane Alessandro spiegò con sussiego che la legge prevedeva il caso, molto esattamente. La spesa andava suddivisa così: un terzo la pro­prietaria della terrazza e due terzi gli appartamenti coperti dalla terraz­za. Inclusi quelli del piano terra.

La Ricevuti, con la sua voce stridu­la e il suo accento settentrionale, gli rise in faccia: sicuramente diceva una sciocchezza! Del resto non era ancora laureato. Non era possibile che la legge fosse tanto stupida. Tanto stupida da far pagare più di tutti chi ha la terrazza, soprattutto se neanche la usa. Leone osservò che, per tutti, la terrazza è effettivamente un altro tipo di tetto. Ed è ovvio che si paghino le riparazioni del tetto. Alla signora Ricevuti cercò di fare notare che chi ha la terrazza fruisce di uno spazio abitabile. E non bisogna pagare, se dal proprio appartamento deriva umidità all’appar­tamento sottostante? 

‑Ah perché, obbiettava la Ricevuti, sarcastica, lei mette sullo stesso piano un appar­tamento e una terrazza? Ha provato a dormire sulla terrazza, in inverno? 

Nel frattempo Polizzi si era allon­tanato per andare a farsi prestare un codice civile e al ritorno, aiutato da Alessandro, trovò l’articolo sulle terrazze. Lo lesse a voce alta, con­fermando così quanto il giovane Belli aveva detto prima, ma sia la Ricevuti che il Salerno presero a sostenere che, sì, pareva che questa fosse la norma. Comunque, avrebbero chiesto al loro avvocato! Nel codice bisogna saperci leggere.

Ancora una volta sembrò che si fosse finalmente in dirittura d’arrivo e invece sorse il problema delle matto­nelle della terrazza. Per procedere alle riparazioni se ne dovevano di­struggere un metro quadrato o due: come sostituirle, visto che la pro­prietaria non ne possedeva di riserva e visto che si rifiutava di avere una terrazza arlecchino? La sua terrazza era coper­ta da piastrelle di maiolica e una terrazza coperta da piastrelle di maiolica lei voleva. Tutte uguali e della stessa qualità. Ma tutti si rifiutarono energica­mente di sostituirle l’intera pavimen­tazione. La riparazione sarebbe costata infinitamente di più, dicevano, ed era colpa sua, se non aveva qualche metro di mattonelle di riserva. La Ricevuti, irremovibile, osservava che caso mai avrebbe dovuto essere il costruttore, a mettere da parte le mattonelle: lei aveva comprato la casa così com’era, senza mattonelle di riserva. 

Dopo circa mezz’ora di discussione si fu d’accordo sull’idea di richiede­re il parere di un avvocato, dal momento che, come sosteneva Leone, era più un problema di giurisprudenza che di legge. Non tutti capirono la diffe­renza fra giurisprudenza e legge ma tutti furono contenti del rinvio. Intanto, non si pagava nulla.

L’ultimo casus belli ‑ Stefano si era ormai rassegnato ‑ fu il fatto che l’appartamento del primo piano, pur avendo lo stesso numero di stanze degli altri, era meno esteso sotto la terrazza in quanto in quel punto, essendoci dei portici sulla strada, la facciata era rientrata. Bisognava che quell’appartamento pagasse come gli altri, per il numero di stanze, o meno degli altri, visto che la superficie coperta era minore? Alla fine, benché il giovane Belli si fosse opposto a questa procedura, si votò e risultò che la maggioranza era per una ripartizione uguale. L’interessato tuttavia concluse semplicemente che nessuno poteva votare su un suo dirit­to soggettivo. Avrebbe pagato solo secondo la superficie coperta, dal momento che così diceva la legge. Se no, perché non votavano per accollargli l’intera spesa della riparazione?

A questo punto, vedendo che fra non molto sarebbe stata mezzanotte, si decise di investire anche di questo problema l’avvocato che l’amministratore avrebbe con­sultato e finalmente, ridivenendo quasi civile, l’assemblea si sciolse con sorrisi e strette di mano. In totale, in tre ore e venti, si erano approvati i bilanci, si era raccomandato a Belli di fare ridipingere le scale e si era deciso di chiedere il parere di un avvocato. 

Stefano andò a letto senza neppure parlare con suo padre, che ormai dormiva, e si accorse ben presto di avere un’insonnia invincibile. Non era capace di uscire dalla riunione di condominio. Un paio di volte era stato sul punto di appiso­larsi e il vocione di Salerno l’aveva risvegliato di soprassalto. Per giunta si sentiva come obbligato a sistemare mentalmente quello che aveva vissuto. Questa era l’umanità: persone capaci di appassionarsi al denaro come non si sarebbero mai appassionate a nient’altro al mondo. Gente che avreb­be preso Nunzio Scardilli per un pazzo e basta. Non solo, infatti, tutti avevano l’aria di pensare che i problemi del condominio fossero importantissimi: avevano l’aria di pensare che fossero gli unici, ad essere importanti. Ed erano disposti a fare la guerra al vicino, all’amministratore e perfi­no allo stato italiano se la legge non li avesse soddisfatti. 

Lui stesso, Stefano, da che parte stava? Certo non poteva atteggiarsi a nobile e superiore perché, tanto, pagava suo padre. Ma d’altra parte non poteva assolutamente condividere l’impegno totale di sé di cui dava prova un Salerno. Quella mancanza di senso dell’umorismo e quel combattere con la celata abbassata gli fecero tornare in mente un’illustrazione della sua Bibbia per ragazzi: un uomo contava le sue monete d’oro e la Morte, apparendogli da dietro, gli diceva: “Disgraziato, proprio stanotte morirai!” Bambino, si era chiesto perché mai la Morte dovesse insultare e uccidere quel poveraccio che eviden­temente contava denaro proprio. Solo in seguito aveva capito che la Morte rimproverava all’uomo non di contare il denaro, ma di non occuparsi della propria anima. Di un bene che l’oro non avrebbe potuto salvare.

La soluzione – si diceva cercando di dormire – era la moderazione greca. Bisognava occuparsi dei proble­mi del condominio ma non farne la propria ragione di vita. Diversamente si diveniva ciechi e prosaici. Bisognava occuparsi dei problemi metafisici ma non farne la propria ragione di vita. Diversamente si diveniva dei disa­dattati, come Nunzio; oppure si diveniva elefanti. Elefanti? si chiese sorpreso. Che c’entravano gli elefanti? Così capì che stava per prendere sonno.

 

16

 

Vide Amelia nello specchio retrovi­sore e notò che era sorridente e molto carina.

‑Sei bellissima, la salutò spalan­candole la portiera. Lei sedette e guardò l’orologio:

‑Sì. In genere alle… dieci meno un quarto sono bellissima.

Era uno scherzo ma non era sicuro di capirne il significato.

‑Nel senso che lo sei solo a que­st’ora?

‑Può darsi. Che ne so? Visto che non sempre mi dici che sono bellissima, anzi non me lo dici mai, devo pensare che dipende dal fatto che di solito ci vediamo di pomeriggio. Chiedimi qualche altra spiegazione e sarà come cercare di spiegare perché una barzel­letta fa ridere. E poi: sei sincero, dicendomi che sono bellissima? 

‑Non ti ho sempre detto che sei carina? Che sei desiderabile? Che sembri la réclame di un profumo o qualcosa del genere?

‑Intanto muoviamoci. Dove mi porti?

‑A Fiumefreddo.

‑Che strano posto! Perché proprio a Fiumefreddo?

‑Perché il dottor Pappalardo ha la farmacia lì.

‑Ah, era questo che intendevi dicen­do “ho in programma un’uscita fuori città”? Io pensavo intendessi una gita con me.

‑No, ci vado per conto di mio padre; ma è quasi la stessa cosa. Fino a Giarre conto di andare per vie traver­se, forse lungo strade che nemmeno conosci.

‑Meno male, temevo prendessi l’auto­strada.

Il dialogo continuò a snodarsi in maniera del tutto normale, come se ambedue fossero stati attenti a non creare motivi di litigio. 

‑C’era un discorso che mi piaceva, disse lei qualche tempo dopo, rimet­tendosi a sorridere: Allora, oggi sono bellissima. Come diceva Rossana: questo è l’ordito, ora ricama.

‑Che devo dire? Sei carina, sei desiderabile…

‑Ma hai solo questi aggettivi, nel tuo vocabolario?

Stefano pensò alla signora Ricevuti e alla signora Gennari:

‑Sei giovane, sei sana, hai una bella pelle, non hai varici alle gambe e dài un’impressione di pulito.

Amelia rise con sincero divertimen­to:

‑Mi devi spiegare l’accenno alle varici. Mi avresti potuto dire “non hai un porro sul naso”, “non hai il labbro leporino”, “non hai le orec­chie a sventola”. E invece mi parli di varici. Come mai? Forse l'”altra” ha le varici?

L’altra era la donna immaginaria di cui Amelia era costantemente gelosa, con cui fingevano che lui andasse ogni volta che non potevano incontrarsi per un suo impegno e che possedeva tutte le buone qualità che lei non aveva. 

‑Ti posso dire chi è l’altra, sta­volta. E le parlò della riunione di condominio e delle gambe della signora Ricevuti. 

‑Le varici sulle gambe carnose sono orribili ma sono normali, le faceva notare. Uno pensa soltanto “questa donna ha le varici”. Se invece le gambe sono magrissime e le varici imponenti, si ha la schifosa impres­sione di vedere le vene abbarbicate direttamente su tibia e perone, qual­cosa come il serpente intorno al bastone che si vede nelle insegne delle farmacie.

‑Basta, fermati qui, se no vomito. Insomma, per quanto mi riguarda, non sono schifosa, è questo che vuoi dire?

Lui la guardò con attenzione: che volesse litigare sul nulla come ai bei tempi? Da un lato sarebbe stato un segno di vera normalità, dall’altra sinceramente non ne aveva alcuna voglia.

‑Sculicenzia! gridò quasi lei, alzando le mani. E spiegò che “Sculi­cenzia”, nell’antico dialetto siciliano, significava “fermiamo il gioco”. Okay, sono bellissima.

La conversazione continuava, a volte gradevole, a volte stanca, ma avvelenata dal sentimento che si parlava d’ “altro”. Come quando, facen­do compagnia a qualcuno che ha subito un lutto, si cerca di distrarlo. L’arrivo a Fiumefreddo fu accolto da ambedue come un gradito diversivo.

Sulla via del ritorno, dopo che Stefano ebbe consegnato il pacco, riprese­ro la conversazione parlando di un film che ambedue avevano visto in televisione. Ma si andavano producendo dei fastidiosi silenzi.

‑Che hai detto ai tuoi, per uscire stamattina? chiese lui, tanto per parlare.

‑Che andavo con Ilda. Poverina, mi è servita tante volte da paravento, che i miei devono aver capito che è spesso una scusa. Ma preferiscono così. Possono sempre dire che molte delle cose che ho fatte le ho fatte contro la loro volontà.

‑Che ne è di Ilda e del suo uomo?

‑Il suo uomo! esclamò Amelia con un’alzata di spalle. È arrivato a dirle che se non lo lascia in pace la denuncia, anzi dice tutto a sua moglie e si fa difen­dere da lei. Da sua moglie, capisci?

‑Fra i due mali sceglie il minore.

‑Siete degni della forca, voi uomi­ni. Perciò, il fatto che Ilda l’ami è un male. Anzi, un male così grande che uno può preferire una scenataccia con la moglie pur di non corrispondere a questo sentimento.

‑Amelia, questa discussione l’abbia­mo già fatta. Tutto quello che posso dirti è che nessuno può essere obbli­gato ad amare un altro. “Amor che a nullo amato amar perdona” è una stupidaggine. Di fatto perdona molto più spesso di quanto non si creda.

‑Dal lato degli uomini.

‑Solo dal lato degli uomini? Perché?

‑Perché gli uomini hanno tendenza a fottere le donne e piantarle dopo.

Finalmente, questa era la vera Amelia. Prudentemente, cercò di ripor­tare il discorso su un piano più generale e parlò di etologia, della lotta che la maggior parte dei mammiferi maschi fa per fecondare quante più femmine è possibile. Quello che fra gli uomini sarebbe dongiovannismo, o mancanza di scrupoli, in natura è soltanto la tendenza a far sì che si riproducano i migliori. Quelli che hanno vinto la competizione con gli altri maschi. È meglio che tutte le femmine siano fecondate dal cervo più forte del branco piutto­sto che ciascuna da un maschio diver­so, magari malaticcio o debole. La natura tende a migliorare la razza.

‑Negli uomini rimane una traccia di questa mentalità, concluse. Per questo molti considerano un’incredibi­le stupidaggine perdere un’occasione. Gli altri mammiferi si battono a morte per avere una femmina e io dovrei rifiutare quella che mi si offre gratis? Del resto, se ci fai caso, nonostante le ipocrite con­danne morali, l’uomo che ha molto successo viene visto come un vincito­re. Anche dalle donne. 

‑Se le donne sono d’accordo, se s’incapricciano del bestione più forte e in calore, perché no? ammise Amelia. Si può seguire la nostra natura di mammiferi. Ma se don Giovanni approfitta dei sentimenti delle donne, è una carogna.

‑Nel campo sessuale i sentimenti sono solo il riflesso soggettivo degli istinti. Valli a distinguere!

‑Nel caso di Ilda è facilissimo. E poi, come mai questo don Giovanni, che vola di fiore in fiore, non cerca affatto di fecondare le donne? Siete scimmioni quando si tratta di penetrare le femmine, ma ridiventate dottori in legge e inven­tate il preservativo quando si pone il problema della prole. C’è infine un’obbiezione ancora più seria: come mai questo don Giovanni, che prima pensa a fecondare – pardon, non a fecondare, solo a fottere – quante più donne può, una volta o l’altra si sposa? Come mai anche per lui c’è una donna diversa, una che non è di passaggio e non serve solo per il piacere sessuale?

Amelia era serissima e Stefano si rese conto che ora non parlavano più d’ “altro”. Sotto il microscopio c’era il vetrino del loro rapporto.

‑Che vuoi che ti dica? O ha deciso di accasarsi e di avere figli o si è innamorato in maniera speciale.

‑Le altre volte si è innamorato in maniera non speciale? E che maniera è?

‑Amelia, mi vuoi inchiodare su ogni parola che dico? D’accordo, usiamo un termine diverso. Diciamo che non si è innamorato. Ma è proprio necessario, questo sentimento, per avere un rap­porto con l’altro sesso? Fra l’altro, non è che due persone s’innamorino contemporaneamente l’una dell’altra, come Giulietta e Romeo. Quella è una favola. Nella realtà c’è una persona che ama per prima e un’altra che comincia coll’essere interessata. Magari alla fine si innamora quest’altra. Ma ha cominciato senza speciali sentimenti. Forse, tanto per vedere. Un sacco di coppie, soprattutto fra le persone di mezza età, prima vanno a letto insieme e solo in seguito divengono partner stabili. Non è più come un tempo. L’aver fatto l’amore con uno o con una non è che dia poi chissà quali diritti. Ilda dunque…

‑Lascia perdere Ilda, lo interruppe Amelia con collera. Tu non ti sei limitato a fare l’amore con me. Tu sei stato il mio ragazzo per mesi. Amelia e Stefano erano nomi che andavano in coppia come i tuoi Giulietta e Romeo. Dunque non hai nemmeno la scusa del marinaio di passaggio, di quello che dice una sveltina e via.

‑Una sveltina e via? Ma se ancora in questo momento siamo qui insieme, quale “via”?

‑Non fare lo stronzo, sibilò lei. “Siamo qui insieme”, dice. Solo che non è disposto a sposarmi o vivere con me neanche se partorisco sei gemelli. Sai qual è la verità? La verità è che io non sono per te quella donna spe­ciale che uno sposa. Andavo bene a letto e per non farla troppo sporca mi volevi anche un po’ di bene. Ma non c’era altro. 

Cosa rispondere ad un tale affondo? Era la verità e non poteva negarla. La schivata fu mediocre:

‑Te l’ho detto, in seguito non so. Attualmente non è il momento.

‑”Non è il momento!”, lo scimmiottò lei. Però era il momento di mettermi incinta e di crearmi l’inferno a casa.

‑Un momento, obbiettò Stefano che ora cominciava scaldarsi anche lui. Io non ti ho messa incinta. Sei tu che, mentre ancora esitavo, mi hai detto “vai tranquillo”. Ti sei messa incinta da te stessa.

‑Sostieni che l’ho fatto apposta? urlò Amelia. Osi sostenere che l’ho fatto apposta?

‑Sostengo che hai volontariamente corso il rischio e dunque hai accettato che il rischio si verificas­se. Io no.

‑Io non ho accettato niente! Io so solo che finalmente capisco come stanno le cose! Tu hai fatto finta di essere il mio ragazzo solo per fottere con me! gridò Amelia fuori dai gangheri, mentre una lacrima le scendeva giù da un occhio. Ma anche Stefano era fuori dai gangheri:

‑E forse che a te non piaceva, fottere con me? Che cosa dicevi, “non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio”, come nell’Ottocento? Smettiamola con questa storia che io ti avrei scippato il piacere sessuale come fosse un portamonete! Il sesso, nel nostro tempo, è un dare e avere che si conclude in pareggio.

‑Ma se il sesso è la conseguenza dell’amore?

‑E allora il problema è quello dell’amore! Dunque smettila di usare il verbo “fottere”. Con la volgarità della parola non impressioni nessuno.

Finalmente nell’auto si fece un silenzio più lungo degli altri e Amelia prese a piangere quietamente. Stefano per un po’ guardò ostinatamen­te la strada, poi lei gli fece troppa pena:

‑Amelia, noi siamo stati bene insie­me. Ti ho voluto bene e ti voglio ancora bene. Anche se non mi sento né di sposarmi né di convivere, dobbiamo per forza scontrarci, per questo? Un mese fa non eravamo sposati, non convivevamo e non progettavamo di farlo a breve scadenza. Perché do­vremmo litigare, ora? Perché non dovremmo star bene insieme, come prima? Personal­mente sono la stessa persona di un mese fa.

‑Io invece sono incinta.

‑È questo il problema, lo so. Ma non ci posso mettere rimedio. Il rimedio non sarebbe certo quello di sposarci e convivere, così, di malavoglia, solo per fare contenti i tuoi.

‑Ma non dirmi che non è ancora il momento. Il fatto è che… non sono la donna speciale che Don Giovanni sposa. Ecco tutto.

Stefano ebbe la sensazione di passa­re il Rubicone mentre diceva:

‑Può anche darsi.

‑Almeno sei sincero, concluse lei a voce bassa.

Continuando a guidare Stefano si ricordò dei momenti in cui, alla stazione, aveva accompagnato qualcuno che partiva. Si vedeva il treno allonta­narsi, allontanarsi sempre più, fino a mostrare il retro di un anonimo vago­ne.

 

 17

 

Tica lo aspettava sulla porta di casa con aria severa:

‑Come mai torni a quest’ora? Lo sai che ora è?

Stefano la guardò perplesso:

‑Non sono neppure le dieci e non avevo affatto detto che sarei tornato a casa presto. Che razza d’accoglien­za è questa?

‑Avanti, entra, gli ordinò la donna, aiutandolo a posare libri e giornali. Proprio stasera avresti dovuto essere a casa presto. Non so cosa sia succes­so a Igor ma ti ha cercato al telefono e piangeva come un bambino. Era tanto disperato che mi sono preoccupata. Avrei voluto chiamare i suoi ma nean­che tuo padre ha trovato il numero di telefono. Sull’elenco non risulta. Gli è successo qualcosa, ne sai niente?

Cara Tica! Aveva sempre dimostrato una risoluta antipatia per Igor ma di fronte alle lacrime perdeva la testa.

‑Suvvia, non ti preoccupare. Ora lo chiamo, ma non fare così. Magari l’hanno bocciato ad un esame, che so. Sono parecchi giorni che non lo sento.

Poco dopo fu in grado di tranquil­lizzarla: 

-Gli ho parlato. Non ti preoccupare, ha un problema con la sua ragazza. Gli passerà. Passa a tutti, prima o poi. Ma Tica si sentì offesa. Lei non aveva mai dimenticato il suo fidanzato di trent’anni prima, morto in un inciden­te sul lavoro. E infatti commentò, vagamente acida: 

-Certo. Oggi è così che si vuol bene.

Sbocconcellando un panino in auto, visto che non aveva avuto il tempo di cenare, Stefano andò a casa di Igor e questi, attraverso il citofono, gli chiese di aspettarlo: sarebbe sceso lui.

‑Scusami se non ti ho detto di salire, spiegò poco dopo. Ma ho cerca­to disperatamente di nascondere tutto ai miei. Per gli occhi rossi ho parla­to di una crisi allergica e per la cena ho detto che avevo mangiato fuori. Anche se non tocco cibo da stamattina. Ma non posso garantire che da un momento all’altro non scoppi a piangere dinanzi a loro. E ci manche­rebbe anche questa. Mi sommergerebbero di domande. Insomma queste sono cose che uno vuole vivere da solo.

“O in compagnia di un amico”, com­pletò Stefano, mentre lo stomaco gli ricordava che anche lui aveva saltato la cena.

‑Sono distrutto, sospirava intanto Igor. Sono distrutto da tutti i punti di vista. Ti rendi conto? Betta che lascia me! Io le ho insegnato cos’è sognare in due, le ho offerto la mia fantasia, la mia passione, il mio culto per la bellezza e l’ho tirata a forza in un mondo di cui non aveva nemmeno sentito parlare. E lei che fa? Ne ha abbastanza di me! Lei con quei genitori, con quella casa, con la cafoneria dei suoi soldi! E sai qual è il peggio? Sai qual è il peg­gio?

‑Dimmelo.

‑Il peggio è che soffro come un cane. Avevo sempre pensato che con Betta avrei potuto rompere senza grandi problemi. Detto fra te e me, pensavo che una volta o l’altra mi sarei stancato io, di lei. Invece, nella realtà, una volta che la cosa si verifica, piango per un giorno intero e non riesco a concepire la mia vita senza Betta. Ci sono momenti in cui penso “lei mi uccide, io dovrei ucciderla”. Sembra un romanzo d’appen­dice, vero? Ma se uno certe cose le sente, che senso ha nascondersele? Ho l’impressione che la mia vita non abbia più senso. Che non ci sia più nulla di bello da aspettare. Che il mondo sia improvvisamente deserto. In questo momento farei cose da pazzi. Cose da pazzi! gridò quasi, e improvvisamente prese a singhiozzare.

‑E non è… non è tutto… Mi la­scia… per un altro… capisci? Un cretino di cui non mi sarei… mai… abbassato ad essere geloso… perché non era possibile… che lei lo pren­desse in… considerazione… E inve­ce! Dire che io piango… per una stronza che si mette… con un cretino del genere…

‑Calmati, lo invitò Stefano. Non fare così. Parlerai poi. Suvvia, non fare così. Gli batté più volte una mano sulla spalla sentendo con imba­razzo che anche i suoi occhi, per simpatia, s’inumidivano. Igor faceva veramente pena. Per giunta, se lei si era messa con un altro, non c’era rimedio: era veramente la fine.

Nel frattempo erano arrivati ad una piazzola di sosta da cui si godeva il panorama della città e Stefano spense il motore.

‑Io non ho capito niente, fino ad ora, proseguiva Igor riprendendosi. Devo aver commesso un errore da qual­che parte. Un grossissimo errore. Su Betta o su me. E devo chiarirlo. Devo chiarirlo, capisci? perché ne va della mia vita.

‑In che senso?

‑Nel senso che devo capire se mi sono sbagliato sul conto di Betta, e sarebbe niente, o se mi sono sbagliato sul mio proprio conto. E questo sarebbe gravissimo. Mi sento un miliarda­rio americano al quale dicono che ha sognato, i dollari non esistono, sono come le banconote del Monopoly. Lei non possiede nulla, egregio signore, solo banconote del Monopoly! Ah, è veramente troppo. Tu cosa pensi?

‑Che cosa posso pensare? chiese Stefano, tenendo d’occhio le luci di una nave lontana. Innanzi tutto, per quanto tu possa soffrirne, non è la prima volta che una donna lascia un uomo. O un uomo lascia una donna. Dunque bisognerebbe riportare la cosa nei suoi contorni naturali.

‑Ma se io sono disperato, che cavolo riporto, nei contorni naturali? Non mi fare incazzare anche tu.

Poi, visto che Stefano non prosegui­va, gli ingiunse, quasi di malagrazia: 

-Va’ avanti.

‑Poi c’è il problema del divario, del salto, non so come chiamarlo. Del dislivello. Ma se t’incazzi, come dici tu! Non dico che io possegga la verità rivelata, ma se dobbiamo cerca­re la verità dobbiamo avere il corag­gio di fare un’ipotesi.

‑Facciamo quest’ipotesi. L’ipotesi del dislivello, qualunque cosa sia.

‑Io temo che tu non sia solo addolo­rato. Temo che tu ti senta soprattutto umiliato.

‑E non dovrei sentirmi umiliato? L’hai dimenticato che è lei che lascia me e non io lei? E per giunta per un cretino?

‑Igor, mi sento come quei dentisti che ti avvertono: Lei mi dovrà scusare ma ora dovrò farle un po’ male. Mi chiedo se tu sia più addolora­to per l’amore che ti viene a mancare o perché la ragazza ha osato lasciarti. Vedi, dal tuo punto di vista, il tuo rapporto con Betta è nato malgrado un invalicabile dislivello. È stato un atto di degnazione, da parte tua: dunque per te è insop­portabile vedere che la mendicante preferisce il suo pane e cipolla al salmone che le offrivi tu.

‑Credo che tu stia esagerando. Un atto di degnazione! Ammetto soltanto che, come ti dicevo poco fa, Betta ho dovuto trascinarla a forza, nel mio mondo. Ho sempre saputo che, se non avesse incontrato me, sarebbe stata simile a tutte le altre ragazze. Avrebbe vissuto l’amore come lo vivono loro, nella maniera più piatta e borghese. Questo lo sto inventando?

‑Igor, mi devi scusare, ma il pro­blema non è questo. Non si tratta di dislivel­lo quantitativo, per così dire. L’eventuale diffe­renza fra voi non era che tu sapessi più cose di lei, sentissi più cose di lei, ecc. Era una differenza qualitativa. Per te lei era inferiore a te come un coccodrillo è inferiore a un cane. Specie diverse.

Improvvisamente un’auto della poli­zia si fermò accanto a loro, nella piazzola, e ne scesero due poliziotti che si misero uno da un lato e uno dall’altro lato dell’auto. Il terzo, appoggiato all’auto di servizio, teneva con noncuranza un mitra fra le mani.

‑Documenti.

Stefano si sentì invadere da una sorta di collera ma cosa poteva rimproverare, a quegli uomini? Il fatto di non aver cominciato con un saluto? O di aver cominciato col dare un’occhiata per vedere se c’era una donna, là dentro?

‑Questa è la patente. Questo il certificato di assicurazione. Il libretto di circolazione è nascosto nel bagagliaio. Ora ve lo prendo.

‑Non è necessario. I suoi documenti?

‑Io sono uscito senza, disse Igor. E non essendo alla guida non sono obbli­gato ad averli.

‑Lei non faccia il furbo. Lo sa che la potrei fermare per accertamenti?

‑Senta, intervenne Stefano. Per lui posso testimoniare io. Non so perché loro si siano fermati e ci abbiano chiesto i documenti, ma siamo solo due amici che hanno un problema da discu­tere. Non c’è ragione di innervosirsi.

‑Ma voi a quest’ora e qui dovete discutere?

‑Mi scusi, rispose mettendo una mano sul braccio di Igor, per costringerlo a tacere. Mi scusi, ma che domanda è, la sua? Mi permette di scendere? 

Stefano s’era ricordato del fatto che un uomo seduto che parla ad un uomo in piedi sembra voglia umiliar­lo.

‑Prego.

‑Lei ha visto una macchina sospetta e ha creduto suo dovere fermarsi per controllare. Ha fatto il suo dovere e anzi per farlo ha perduto del tempo. Bene: io le chiedo scusa, anzi, noi le chiediamo scusa per averle fatto perdere del tempo. Ma non credo ci sia altro da dire. 

‑Lei ammette che eravate in atteggiamento sospetto?

‑Ammetto che le è sembrata sospetta un’automobile al buio, ferma qui. Ma, come le dicevo, abbiamo solo cercato un posto panoramico per parlare. Che problema potrebbe esistere, fra noi? Siamo dallo stesso lato della barricata: voi siete dei tutori dell’ordine e noi dei cittadini con­tenti di vedere che fate con scrupolo il vostro servizio.

‑Però fareste bene a non star qui. Vi possono anche rapinare.

‑Questo è vero. Ma la nostra discus­sione è quasi finita. Fra poco ce ne andiamo.

‑L’ho detto nel vostro interesse.

‑E io la ringrazio.

‑Va bene. Andiamo, collega. Buona­notte.

‑Buonanotte.

‑E mi raccomando, ricordate: un posto così è pericoloso, concluse il capo attraverso il suo finestrino.

‑Grazie! rispose Stefano sollevando la mano in un gesto di saluto. E poi si risedette in macchina.

‑Che ruffiano sei! commentò Igor.

‑Si trattava di toglierceli di torno.

‑Io li avrei trattati a pesci in faccia. Tanto, che potevano farci? Noi non abbiamo commesso nessun’infrazio­ne.

‑È vero. Ma la loro arroganza, come dice sempre mio padre, aderisce alla buccia, cioè alla divisa. La polpa invece è un complesso d’inferiorità nei confronti del cittadino che non li teme. Come, costui si permette di rispondere “Non sono obbligato ad avere i documenti perché non guido”? Può dunque essere un magistrato, un avvocato, un miliarda­rio. Uno al quale essi non fanno nessun’impressione e al quale, proprio per questo, sarebbero felici di creare fastidi. Per fargli sentire il loro potere. Ma se uno gli dimostra che li rispetta, la cosa si sgonfia. Ti lasciano in pace e ti sono perfino grati. 

‑Accidenti, ma chi te le insegna, queste cose?

‑Te l’ho detto: mio padre.

‑Guarda che non è detto che sia migliore di me. Io credevo di disprezzare i poli­ziotti, ma lui li tratta da insetti!

‑Veramente sostiene che cercare di capire gli altri è sempre un dovere e spesso un affare.

‑Un vero filosofo, dichiarò Igor. E Stefano non riuscì a capire se era sarcastico o sincero. Ma il suo amico riprese:

‑Magari non ricordi più quello che mi stavi dicendo.

‑Stavo dicendo che tu non consideri Betta inferiore a te per qualche verso e magari superiore per qualche altro verso. Sei sempre stato convinto di appartenere ad una diversa categoria, rispetto a lei. 

‑Ebbene?

‑Ebbene, c’è da stupirsi se lei alla fine si è stancata d’essere la tua dea, il tuo cane, il tuo canarino, la tua adora­trice, tutto salvo che una tua pari?

‑Ma chi le ha mai chiesto di adorar­mi?

Stefano già da qualche tempo pensava che quell’amicizia non sarebbe andata molto lontano. Forse anche lui, come Betta, era un po’ stanco. Per esempio, quella sera Igor non gli aveva chiesto nemmeno una volta se ci fossero novità nel problema con Amelia. Non gli aveva chiesto se avesse avuto il tempo di cenare o se non fosse troppo stanco per uscire a quell’ora. Decise d’essere sincero:

‑Sarò franco con te. E lo sarò con l’intenzione di esserti utile, non di ferirti. Anche se ti offenderai e non ci vedremo più, mi rimarrà la speranza che ogni tanto pensi a quello che sto per dirti. 

-Sei apocalittico, ironizzò Igor. Ma Stefano non gli badò:

-Dunque, tu non credi di aver chiesto a Betta di adorarti. Sai perché? Perché le hai chiesto solamente di trattarti come ti tratti tu. Di consi­derarti come ti consideri tu. Perché tu ti adori e ti consideri un semidio. Ecco perché. E di questo passo rischi molto.

‑Io? Mi considero un semidio? Dici sul serio?

‑Mi dispiace, ma la risposta è sì. Tutto il tuo mondo ruota intorno a te stesso. Gli altri tu li vedi come sbiaditi, piccoli. Vagamente insigni­ficanti e schifosi. Quando stavi con Betta, ti adattavi a stare con lei. Il presupposto era che avre­sti meritato di meglio. Anche quando parli con me non mi consideri tuo pari. Sono giusto all’altezza di capire quello che dici, sono giusto degno di ascoltarti. 

‑Non è vero.

‑Sì che è vero. E non ti viene mai in mente che gli altri sono umani come te, hanno diritto al tuo rispetto, hanno bisogno non solo d’amare ma anche d’essere amati?

‑Ma mi stai calunniando! Io non sono affatto così. Anche per questo non rischio di offendermi.

‑Meno male ma io continuo in ogni caso, ormai. Igor, per l’amor del Cielo, renditi conto che sei un uomo fra gli altri. Se una Betta ti ama, non considerare che fa il suo dovere. Nessuno ha il dovere d’amare. Se nascesse un uomo bellissimo e perfettissimo, non per questo tutte le donne s’innamorerebbero di lui. Molte, anzi moltissime, rimarrebbero fedeli ad un uomo imperfetto e bisognoso del loro aiuto, che però le ama veramente e con il quale hanno stretto un’alleanza. L’amore è dire noi, NOI, capisci? Non io tutto maiuscolo e tu tutto minuscolo. Forse quel cretino con cui si è messa Betta le vuol più bene e la stima più di te.

‑Senti, domandò Igor con voce serissi­ma. Ma tu ce l’hai a morte con me?

‑No. Non sarei qui, diversamente. Solo che ti vedo prendere una brutta china. Ascoltami.

E prese a ricordargli i suoi mille atteggiamenti di protagonista assolu­to, il suo parlare per ore di un suo esame mentre sapeva che lui viveva un problema serio, il suo egotismo che arrivava perfino alla piccola scortesia di non chiedere mai a nessuno “ti disturbo?”, il suo sostanziale disinteressarsi degli altri, considerati più o meno mammiferi superiori incapaci di vero pensiero e di vera poesia.

‑Ora, chi ti sta accanto, magari abbagliato dalla tua elegante passionalità, per un po’ è contento di assistere a questo fuoco d’artificio psichico che è la tua vita. Ma alla lunga c’è il rischio che si stanchi. Temo che Betta, anche se non è un’in­tellettuale, alla fine abbia capito che tu la consideravi molto poco. E che, se scrivevi una poesia per lei, era più per celebrare “te stesso poeta innamorato” che lei. Avrà sentito che rischiava d’essere adorata come simbolo e dimenticata come essere umano. Amico mio, tu rischi la solitudine assoluta. Mi dispiace parlarti così una sera in cui t’ho visto piangere, ma da tempo dovevo dirti tutto questo. E non è sicuro che sia il giorno sbagliato: tu stesso hai sentito il bisogno di sistemare intimamente questa cosa, di sapere come mai soffrivi tanto. Se ti eri sbagliato sul conto di Betta o sul tuo proprio conto. Ecco la risposta: ti sbagliavi su te stesso. Forse sei ancora in tempo per salvarti, ma devi fare un grande sforzo di riflessione e d’umiltà. Diversamente, te l’ho detto, rimarrai solo, nella vita. Assolutamente solo.

Il silenzio che seguì fu di piombo. Infine Igor disse con voce trasognata:

‑Se fossi un amico pietoso, mi spareresti, invece di dirmi tutto questo. 

‑Io non voglio spararti. Io voglio aiutarti, prima che sia troppo tardi.

‑Il dentista mi aveva avvertito, sorrise Igor mestamente.

 

 18

 

La notizia era riportata in cronaca, su tre colonne: “Seminarista si suicida sull’autostrada”. Il sottotitolo era: Il giovane si è gettato giù da un ponte, schiantandosi sul greto del torrente. 

L’articolo, piuttosto succinto rispetto al titolo, informava soltanto che tale Nunzio Scardilli, un semina­rista di ventidue anni, si era dato la morte, dopo un volo di circa quaranta metri, saltando da un ponte sull’auto­strada. Aveva lasciato l’auto dei genitori in una piazzola di sosta, aveva percorso a piedi la distanza fino al ponte e aveva posto fine ai suoi giorni. S’ignoravano i motivi dell'”insano gesto”, come il giornali­sta, usando senza vergogna un abusato cliché, chiamava il suicidio. 

Seguivano le notizie sull’ovvio sconforto della famiglia per “la morte di un ragazzo nel fiore degli anni”, lo stupore delle autorità del semina­rio e il generico panegirico del defunto. Si vedeva chiaramente che il giornalista non sapeva che dire, forse aveva anche inventato le ovvie reazioni: tutta la notizia era nel titolo, nelle parole “seminarista” e “suicidio” messe l’una accanto all’altra.

Stefano aveva aperto la pagina della cronaca col solito disinteresse e ora era tramortito. Aveva la sensazione di non capire, benché le parole che leggeva e rileggeva fossero chiarissi­me. È come quando si ha un incidente in automobile. Un istante prima si andava in giro tranquilli, pensando ai fatti propri o conversando, e un istante dopo c’è già stato il frastuo­no, le automobili sono quasi dei rottami, c’è gente ferita che si lamenta, altra gente che accorre, qualcuno che grida “chiamate un’ambu­lanza”… Ci si chiede per un istante se non sia un incubo, se non si possa ancora evitare l’incidente mettendo indietro l’orologio e arrivando a quell’incrocio cinque secondi prima o cinque secondi dopo. Ma quel titolo rimaneva lì e l’in­credulità fu presto sostituita da un’infinita pietà. 

Povero Nunzio. Quanto doveva essere stato disperato! Insano gesto del cavolo. L’avevano un po’ tutti sulla coscienza, quel ragazzo. Sì, personalmente era sempre stato gentile: ma avrebbe potuto fare di più. Per esempio avrebbe potuto cer­carlo, qualche volta, invece di la­sciargli sempre l’iniziativa. 

Sono gli inutili scrupoli che vengo­no dopo. Sul momento, da ragazzi, tutti avevano trovato naturale che nel gruppo ci fossero i migliori e i peggiori. Giancarlo per esempio era bello, bravo a scuola, ricco e buon terzino. Ognuno l’accettava senza problemi: Giancarlo era così, il migliore per natura. Al massimo lo si sfotteva per i suoi abiti curati e gli si chiedeva se la mamma gli avesse leccato i capelli prima che uscisse. Ma senza cattiveria. C’era pure Peppe Scalabrino, una sorta di bestione torpido che tuttavia era di gran lunga il migliore quando si giocava al calcio. Gli amici a volte lo ammirava­no per le sue prodezze col pallone, a volte lo sfottevano per le balordaggini che diceva e perché ripeteva quasi tutte le classi. E lui rideva beato di ambedue le cose. Incontestabilmente era uno dei loro. Ognuno s’inseriva nel gruppo accettando serenamente i propri e gli altrui difetti, senten­dosi più o meno nella media, e nessuno pensava alla posizione dell’ultimo. Un Nunzio che era brutti­no, povero e complessato. Ed anche un disastro col pallone. Era famoso per calciare fuori quando era solo dinanzi alla porta avversaria. Lo scherzo classico era: “Abbiamo vinto pur avendo un uomo in meno, visto che Nunzio giocava con noi!” Per Nunzio il contatto con gli altri costituiva una costante serie di frustrazioni.

E dire che era intelligente, questo lo riconoscevano tutti. Aveva tendenza a sviscerare tutto, tanto che s’interessava di filosofia. Anche per questo lui l’aveva sempre difeso, con gli altri. Ma quanto conta la profondità e la tendenza all’astrazione, in un gruppo d’adolescenti? Specialmente se non si sa vendere la propria merce. Nunzio appariva noioso e lui stesso infatti considerava il proprio mondo intimo una sorta di malattia. Avrebbe dato via tutte le sue tendenze mistiche e filosofiche per giocare come quell’animale di Scala­brino.

I giovani sono crudeli. O forse nessuno aveva capito fino a che punto avesse bisogno d’aiuto. Sembra­va naturale che nel gruppo ci fosse un omega e che lui stesso dovesse accettare di esserlo. Del resto, ci sono persone che hanno la fortuna di non sapere quanto siano stupide, che sono accettabilmente serene e anche a novant’anni si aggrappano sconciamente alla vita. Nunzio invece, a ventidue anni, s’era buttato nella spaz­zatura.

C’era stato però un preciso motivo, una causa scatenante? Gli era successo qualcosa? Ecco la domanda che sorgeva spontanea. Ma era poco probabi­le. Quel gesto doveva essere la conseguenza ultima del suo male di vivere. E poteva anche essere collegata alla sua crisi religiosa. In questo caso Nunzio avrebbe dimostrato una terribile coerenza. Morto Dio, che dà un senso alla vita, aveva deciso di morire anche lui, come certe vedove indiane di un tempo.

Una coerenza molto rara. Perfino i filosofi del pessimismo e dell’assur­dità della vita, dopo aver elegante­mente ragionato, si riparano dietro l’istinto di conservazione come un qualunque mammifero. E si battono per diventare titolari di cattedra. Come aveva detto una volta suo padre, “Anche se Dio è morto, sono rimasti i profiterole”. Cioè: tutti ci conso­liamo del vuoto metafisico riempiendo­ci la pancia. A Nunzio i profiterole non erano bastati.

E c’era anche la sua situazione esistenziale: era povero, senza amici e senza nessuna prospettiva di migli­oramento. Se per giunta avesse perso la fede sarebbe dovuto tornare dal seminario, con le pive nel sacco, affrontando l’ironia del prossimo. Tutto questo in un mondo in cui ci si sente ripetere da ogni parte che la gioventù è il tempo felice. Un mondo in cui, a sentire la televisione, il problema è quale detersivo usare, quali biscotti mangiare, quale automo­bile scegliere mentre si abbraccia la propria ragazza.

Era inutile porsi tutte queste domande. Il giornale se la cavava col pezzo di routine e la famiglia non sapeva niente. Per conse­guenza, visto che Nunzio stesso non aveva lasciato un rigo, doveva smet­terla di almanaccare. 

Ma non poteva evitare di sentirsi il cuore a lutto. La raziona­lità gli diceva che, anche se avesse pianto come una fontana, non avrebbe migliorato la sorte del povero Nunzio; che ormai di lui si sarebbero occupati i vermi; e tuttavia non riusciva a non abbracciarlo, idealmente. A non veder­si nell’atto di afferrarlo mentre tentava di saltare giù dal ponte…

Doveva fare le condoglianze alla famiglia, tuttavia? Non era esperto di queste cose. Avrebbe chiesto a suo padre. Cercò di riscuotersi, di andare all’università come previsto, e stava per uscire di casa quando squil­lò il telefono e Tica venne ad annun­ciargli un certo Nino Savoca.

‑Nino Savoca? Non conosco nessun Nino Savoca.

‑Vaglielo a dire tu, disse Tica.

E invece lo conosceva. Era uno dei ragazzi dell’oratorio.

‑Hai saputo la notizia di Nunzio?

‑Sì.

‑Cose da pazzi. Veramente, cose da pazzi. Ma che gli è preso? Comunque, niente, ti telefonavo per dirti che i funerali avranno luogo oggi stesso, alle diciotto, nella nostra vecchia chiesa. Ci andiamo tutti, tutti i vecchi compagni: Salvo Finocchiaro, Andrea Musumeci ‑ ricordi Andrea Musu­meci? ‑ Franz Mayer, Peppe Scalabrino, insomma tutti gli amici di un tempo. Tutti quelli di cui siamo riusciti ad avere il numero di telefono. Il tuo me l’ha dato proprio Franz. Allora vieni anche tu?

‑Certamente.

‑Bene, ci vediamo. Ma tu te la saresti immaginata, una cosa del genere?

‑Una cosa del genere non la immagina nessuno.

‑È vero. Mah. Povero Nunzio. Chissà perché l’ha fatto. Era una bravo ragazzo. Bene, d’accordo, ci vediamo in chiesa. Ciao.

Tornando a casa per il pranzo trovò una busta a lui indirizzata, senza mittente. Conteneva un foglietto con su scritto:

 

Non credo quia absurdum. Non vivo quia absurdum. 

Comunque ti ringrazio, hai fatto il possibile. Non dire a nessuno di queste parole.

Nunzio.

 

Stefano restò in piedi a guardare quel foglio come fosse ipnotizzato. “Non credo perché è assurdo credere, non vivo perché è assurdo vivere”. Il classico suicidio‑elezione. Il suici­dio di Catone l’Uticense. Nunzio aveva portato alle estreme conseguenze la sua posizione intellettuale. Dio mio, in fondo se avesse avuto una vita felice se ne sarebbe fottuto, dell’as­surdità teorica dell’esistere. Come tutti. Gli si strinse dunque il cuore pensando all’abisso d’infelicità, al colmo di disperazione che l’aveva trascinato nel nulla.

Tica gli gridò che si freddava tutto, in tavola, e per il momento si mise in tasca il foglietto.

La sera, alle diciotto, prima che arrivasse la cassa, incontrò tutti gli amici di un tempo. Ragazzini ora trasformati in giovani. Fra sorrisi e pacche sulle spalle si aveva piuttosto la sensazione di una riunione d’ex‑allievi che d’un funerale. Ma ci si poteva salutare senza sorridere, senza chiedersi vicendevolmente delle noti­zie? La vita continua.

Qualcuno gli rimproverò d’essersi rintanato (“Com’è che non ti si vede mai da nessuna parte?”), molti propo­nevano di approfittare dell’occasione per concordare, tutti gli amici d’un tempo, una cena in pizzeria; magari cercando anche i pochi assenti. Infine arrivò il feretro ed ebbe inizio la cerimonia.

Stefano guardava il rito con occhi nuovi. Mentre da ragazzo, ancora credente, aveva tollerato la liturgia come il lato esterno e tradizionale della fede, ora lo spettacolo gli appariva ridicolo e primitivo. Che senso aveva girare intorno ad un cadavere agitando un braciere con un po’ d’incenso? Quei canti, quelle formule, quell’alzarsi e sedersi a comando, che senso avevano?

Ma il peggio fu quello che disse il prete. A parte il tono untuoso, a parte i luoghi comuni, a parte una mozione degli affetti precotta, il senso di quello che diceva era la semplice negazione dell’evidenza. C’era un cadavere, lì dinanzi a loro, e lui diceva che era vivo. C’era uno che era morto di disperazione, e lui diceva che era felice. Nunzio era sparito per sempre e lui diceva che l’avrebbero rivisto. “In Cielo”. Per i primitivi infatti il Cielo era l’infi­nito e nella stessa chiesa erano dipinti santi ed angeli seduti sulle nuvole. Oggi il cielo si chiama tropo­sfera e finisce dieci o dodici chilo­metri sopra le nostre teste. Dopo c’è il vuoto siderale. Non c’è né Nunzio né nessun altro, là.

Cercò disperatamente di non sentire quello che il prete declamava di­straendosi e, innanzi tutto, cercando di tradurre la frase latina che correva da sinistra a destra, alla base della semicupola dell’abside. Presto ricordò quell’altra frase: “Non credo quia absurdum”. Ma chi aveva detto “Credo quia absurdum”? Tertulliano? Sant’Anselmo? Che grande scemo, comun­que. Proclamare che una cosa è assurda e che ci si crede lo stesso che signi­fica: che si è completamente rinuncia­to a ragionare? È come se uno dices­se: lo so che è una prostituta, ma proprio per questo sono convinto che sia vergine. O come affermare: so che due e due fa quattro e per questo scrivo cinque.

Povero Nunzio. Lui aveva scritto quattro. E l’aveva detto solo a lui. 

Che peccato non potergli fare un cenno d’intesa, dirgli ti capisco. Ti voglio bene. Ma Nunzio lo sapeva che lo avrebbe capito. Altrimenti non gli avrebbe scritto. Poverino. Aveva avuto anche la generosità di dirgli “Hai fatto il possibile”. Si era preoccupa­to di far sì che almeno non avesse scrupoli. Anche se aveva fatto così poco. Lui che l’aveva solo accolto come un amico. Naufragando in un mare di fiele Nunzio pensava a ringraziarlo di quella goccia di miele. Povero Nunzio. E si accorse che stava pian­gendo.

 

 19

 

La conversazione era imbarazzante. Era chiaro che Amelia gli aveva tele­fonato per parlargli di qualcosa e voleva da prima creare un ambiente amichevole: ma proprio questa inten­zione di dirgli qualcosa, “dopo”, dava un tono falso a tutto quello che stavano dicendo. Decise di rompere gli indugi: 

‑Amelia, scusami. Ho la sensazione che tu abbia qualcosa da discutere con me. Perché non ci vediamo e ne parlia­mo di presenza?

‑Il fatto è che… innanzi tutto ho poco tempo. Alle dieci ho una lezione all’università. E poi…

‑Poi?

‑Poi l’argomento è sgradito anche a me.

‑Ma non è rinviando che ne usciremo. Ho un’idea: ti vengo a prendere e ti accompagno all’università. Parleremo per la strada.

‑Se lo preferisci.

L’atteggiamento di Stefano poteva sembrare risoluto e tuttavia la verità era che, se non avesse saputo al più presto cosa c’era di nuovo, si sarebbe preoccupato ancora di più. Sembrava impossibile che la situazione potesse complicarsi ulteriormente ma la vita, nell’inventare problemi, ha più fanta­sia di qualunque romanziere.

Amelia apparve all’angolo della strada con un sorriso che gli fece tenerezza. Non era l’Amelia trionfante e sexy di sempre: era una giovane donna preoccupata e vagamente spauri­ta. Per un momento ebbe voglia di gridarle “Farò tutto quello che vorrai ma ti voglio vedere felice!” Poi pensò che purtroppo la vita non è fatta di slanci. 

Fra l’altro c’era da chiedersi se la morte di Nunzio non l’avesse indotto a guardare tutto con occhi diversi. Per esempio quello stesso giorno, dopo mangiato, osservando suo padre di profilo, aveva pensato che forse un giorno avrebbe visto quello stesso profilo mentre suo padre giaceva, morto, in mezzo alla stanza. E questa immagine, invece di suscitare orrore, l’aveva indotto a chiedersi soltanto: Ho qualcosa da rimproverarmi, nei suoi confronti? Gliel’ho detto abbastanza spesso che gli voglio bene?

‑Che hai da guardarmi così?

‑Niente! Ti trovo carina. Dolce e femminile.

‑Non lo sentissi con le mie orecchie non ci crederei. Io, dolce e femmini­le? Ma se m’hai detto cento volte che sono una bomba a mano senza sicura, un gatto che graffia, una tigre nevroti­ca, che altro m’hai detto? ah, che amo la lite per la lite! Hai sbattuto la testa?

Le parole erano quelle dell’Amelia di un tempo, ma era come se le dicesse senza crederci. Come se appartenessero alla vita di un’altra persona. E le diceva sorridendo.

‑Dove ti porto?

‑Alla succursale.

‑Novità?

‑No. Ilda m’ha detto che mi deve raccontare qualcosa ma non so cosa. Per il resto tutto bene.

Dopo una pausa, mentre già si avvi­cinavano alla loro meta, Stefano decise di venire al dunque:

‑Amelia, è un periodo in cui dobbia­mo affrontare seccature che avremmo amato evitare e siamo costretti a fare discorsi odiosi. Tuttavia so che tu non vuoi farmi del male e tu sai che neanch’io voglio fartene. Dunque parla senza preoccuparti. Siamo nella stessa barca. E, fra l’altro ora, abbia­mo poco tempo.

Amelia chinò la testa e parlò senza guardarlo:

‑Quello che ti chiedo non te lo chiedo per me. Sono i miei genitori che mi hanno imposto di proporti questo. Loro vorrebbero… Il fatto è che per loro io dovrei ad ogni costo evitare di essere madre senza essere sposata. Si sono finalmente convinti, anche perché li ho convinti io, che tu non sei disposto a sposarmi per così dire normalmente. E allora…

‑Coraggio.

‑E allora, loro avrebbero pensato che noi potremmo sposarci per poi vivere separati finché non decidiamo di mettere su casa. Oppure… finché non decidiamo di separarci legalmente.

Vedendo l’aria perplessa di Stefano continuò:

‑Non è poi tanto assurdo, sai? Tu sei già disposto a legittimare il bambino. In questo modo legitti­meresti il bambino, me e i miei geni­tori. Perché non dici nulla?

‑Sono sorpreso. Non ti nascondo che la mia prima idea è quella di dire no. È una cosa ridicola. Magari ridicola no, scusami, ma, che so? strana. Come farebbero i tuoi a spiegare ai loro amici che noi ci sposiamo per poi non vivere insieme? Ci siamo separati prima ancora di unirci? La gente oltre tutto capirebbe senza difficoltà e direbbe: lui è stato costretto a fare la mossa ma è chiaro che non intende sposare sul serio la ragazza. Rischie­remmo di non risolvere nulla e di far ridere il prossimo per giunta.

‑L’idea è sembrata balorda anche a me, da prima. È ovvio che personal­mente non posso desiderare un matrimo­nio del genere. Ma, ripensandoci, è una cosa che metterebbe a posto tutto. Si tratterebbe di una formalità per fare contenti i miei e mettere un termine a questa tragedia quotidiana. Nient’altro.

‑Amelia cara, ne dubito. Si tratta in primo luogo della nostra vita e non della loro. Dunque dobbiamo decidere nel nostro interesse. Non nel loro. Fra l’altro, se ci fai caso, ti hanno spinta a questo passo senza tenere conto di quanto poteva essere diffici­le e al limite umiliante, per te, farmi questo discorso. 

‑Credo che a questo non penserebbero mai perché, dal loro punto di vista, io ho il diritto ad essere sposata da te. Sono fatti così e penso sia troppo tardi per fargli cambiare mentalità. No, loro credono di avere trovato una soluzione che mette a posto tutto e tutti.

‑Si sbagliano. Se un giorno finissi­mo con lo sposarci veramente, la loro soluzione avrebbe solo anticipato e spoetizzato il momento del matrimonio. Se invece finissimo con l’allontanar­ci, invece di dirci “grazie di tutto, ci vediamo per il bambino”, avremmo anche il problema delle mille scartof­fie: separazione legale, divorzio, spese e fastidi. Che senso ha? Perché fare una stupidaggine che non deside­riamo né tu né io?

‑Ha senso per la mia pace. Ha senso perché non ne posso più. Avevi ragione tu, non avrei dovuto parlare con i miei di questa dannata faccenda. In un modo o nell’altro avrei trovato il coraggio di abortire, come qualunque altra ragazza. E buona notte al sec­chio. Ma ormai sono in trappola. Tu dici che mi vuoi ancora bene, che ‑ anche se non sei innamorato di me ‑ non vorresti vedermi soffrire: bene, posso almeno chiederti di non rispon­dermi subito? Non ti costa niente. Ti telefono io domattina.

‑Io…

‑Sta’ zitto e dammi un bacino. Poco dopo sparì dentro il portone e a Stefano non rimase che rimettere in moto e tornare a casa, senza neanche vedere che strada faceva. Quasi avesse un pilota automatico.

Il suo cervello rimuginava quella proposta, rivoltandola da tutti i lati, come quegli artisti di circo che, sdraiati sulla schiena, fanno girare vorticosamente un cilindro con i piedi. Ma l’esercizio era sterile. Le conclusioni erano sempre due: primo, oltre a riconoscere il bambino e contribuire al suo manteni­mento, non era disposto a null’altro. E questo spiegava la chiarezza delle sue risposte. Secondo, benché sentisse di aver ragione, non sopportava l’idea di far soffrire Amelia. L’Amelia che aveva appena visto: ragionevole, adulta, stanca. E tuttavia non poteva sposarla, neanche per finta. Non sono cose che si fanno per far piacere a qualcuno. Il cilindro aveva ricomin­ciato il giro.

Fra l’altro, si diceva, il matrimo­nio cos’è, se non una formalità? Si dice ai quattro venti, invitando quanta più gente ci si può permettere, “badate che andrò a letto con questa donna e i figli che dovessero nascere saranno miei figli”. E allora, riconoscendo il bambino non era come se dicesse a tutti che era andato a letto con Amelia? Non era abbastanza pubblica, la cosa? Non avrebbe aggiunto nulla, sposandola. A meno che poi, insieme, non avessero messo su casa come tutte le giovani coppie. 

In queste condizioni la gente avreb­be pensato a un matrimonio riparatore, come nell’Ottocento. Ridicolo! La sua posizione era in linea con la verità mentre quella dei Prestigiacomo era un pasticcio in cui, con la forma, si credeva di salvare la sostanza. E per un capriccio del genere lui avrebbe dovuto inguaiarsi? Sottostare ad una cerimonia che a questo punto sarebbe stata assurda e patetica?

Dal punto di vista razionale non c’erano dubbi: avrebbe dovuto resiste­re e dire di no. Sarebbe stato duro, Amelia ne avrebbe sofferto, ma era la soluzione conforme alla verità e dunque, più che probabilmente, la solu­zione giusta. Un giorno ambedue ne sarebbero stati contenti. La realtà si vendica di tutte le posizioni che intendono violarla: non è questo che rende dolorosa la nevrosi?

Varcando il portone di casa gli fu chiaro che quel pomeriggio avrebbe studiato poco e male. Se ci fosse riuscito.

 

 20

 

‑C’è di là una certa signorina Ilda Ardita che cerca te.

‑Ilda?

‑Ha detto così. Non la conosci? chiese meravigliata Tica.

‑Sì che la conosco. Solo non m’aspettavo che venisse qui. Arrivo.

‑Scusami, lo salutò Ilda, notando che era spettinato e in pantaloncini, sono venuta senza tele­fonare prima perché non ho il tuo numero e…. 

‑Cara Ilda, ma che vai dicendo! Accomodati, accomodati. Vieni nella mia stanza. C’è il solito disordine, ovviamente.

Tica era rimasta a guardare e Stefa­no tornò indietro per presentarla:

‑Questa è Tica, una persona di fami­glia.

‑Piacere, disse Ilda, e le due donne si strinsero la mano con imbarazzo.

‑Che nome è Tica? chiese poi Ilda. È il diminutivo d’Antica? 

‑No, di Scolastica. Era lei che, bambina, chiamava se stessa così. Comunque è la provvidenza di questa casa.

‑Malgrado il nome.

‑Malgrado il nome. Poi, una volta seduti, le chiese: Come va?

‑Come vuoi che vada, rispose la giovane, rabbuiandosi improvvisamente. Male. Credo che Amelia ti abbia parla­to della mia vicenda.

‑Un po’, sì. 

Stefano non desiderava comprometter­si molto. E poi non sapeva se le confidenze Amelia le avesse ricevute col vincolo del segreto o no.

‑Immagino tu sappia che amo dispera­tamente un uomo sposato.

‑Questo me l’ha detto.

‑E ora quest’uomo non vuol più sentirne di me. Abbiamo avuto una brutta lite, ieri mattina.

Tica venne a proporre un caffè che fu accettato con entusiasmo. Poi, dal momento che lei non continuava, tanto per dire qualcosa, lui dichiarò che gli dispiaceva che avessero litigato.

‑Una brutta lite. Bruttissima. Figurati che ha minacciato di prender­mi a schiaffi, di andare a parlare con i miei genitori, di andare a denun­ciarmi ai Carabinieri, insomma mi ha detto che se solo lo chiamo al telefo­no succede il finimondo. Non credevo potesse odiarmi a questo punto.

‑Presumo che non siate arrivati a questa situazione di punto in bianco.

‑Certo che no. Prima io ho tentato di conquistarlo in tutti i modi e lui ha tentato in tutti i modi di allonta­narmi. Poi gli ho detto mille volte che non riesco a vivere senza di lui, ho fatto follie per vederlo, sono anche andata ad aspettarlo all’uscita dal lavoro. E lui è diventato sempre più violento e insofferente. Devo ammettere che mi sono comportata come una pazza. Ma che posso farci? Mi credi se ti dico che non riesco a ragionare, che sono talmente presa di lui che non rispondo di me stessa? A volte penso che se dovessi pagare con la vita una settimana di felicità, accetterei. Sono folle, vero?

Stefano la guardava. Era ben vesti­ta, parlava a bassa voce, aveva tutta l’aria di una ragazza della buona borghesia e tuttavia diceva cose che facevano pensare alla Carmen, et si je t’aime prends garde à toi!

‑Folle no. Tuttavia… Per il momento va avanti.

‑Ti stai chiedendo perché sono qui da te, perché ti racconto queste cose.

‑Non importa. Se intendi solo sfo­garti, raccontarmi tutto. Ti ascolto.

‑Vorrei chiederti un favore.

‑Se posso! rispose Stefano, già preoccupatissimo. 

‑Credo di averlo perduto. Credo che Michele non sopporti nemmeno l’idea che io esisto. Ma nel momento stesso in cui so che l’ho perduto per sempre non posso accettare l’idea che lui mi odii. Non può finire così. Gli vorrei almeno chiedere scusa, dirgli che lo aspetterò, anche anni, che se gli ho creato dei fastidi me ne dispiace… Capisci, vorrei avere un addio decen­te, un ultimo momento di dolcezza. Non si concede una sigaretta, ai condanna­ti a morte? Dimmi, non sei d’accordo?

‑Francamente, rispose Stefano con imbarazzo, dopo tutto quello che è successo, credo che questo non sia il momento migliore. Penso che come prima reazione lui ti sbatterebbe la porta ‑ o il telefono ‑ in faccia.

‑È proprio così. Ed è per questo che… ecco il favore che ti chiedo. Lo potresti chiamare tu, che sei un uomo e che lui non conosce, gli potresti chiedere per pietà solo tre minuti di telefonata con me?

Stefano scosse la testa.

‑Guarda, insistette Ilda: Non corri nessun rischio. Non è necessario che ti presenti. Il peggio che ti possa succedere è che ti chiuda il telefono in faccia quando sente il mio nome: che altro?

‑Su questo hai perfettamente ragio­ne: ma parliamone, propose. Non è per me, che esito, è per te. Vedi, Ilda, i fiumi vanno verso il mare. Pregarli di risalire le montagne non è molto ragionevole. Se siete arrivati a questo punto, ti devi rasse­gnare. Se continui a disperarti, a tentare l’impossibile, a farti sbatte­re il telefono in faccia, non farai che prolungare il momento peggiore. Sei come qualcuno che continua a chiamare un morto nella speranza che si risvegli. I morti non si risve­gliano. Più insisti, con quest’uomo, più lui si chiuderà a riccio. Nessuno può forzare un altro ad amarlo e anzi, se ci si prova, si ottiene il risulta­to contrario. Si può avere a che fare con qualcuno che non ci è simpatico, purché i rapporti siano superficiali; non si può sopportare qualcuno che ci ama disperatamente proprio perché vuole introdursi nella nostra vita. Nel nostro io, nei nostri sentimenti. Devi voltare pagina.

Ilda non sentiva ragioni. Anzi, più esattamente, riconosceva esatto tutto quello che lui affermava, ma era come se da quella telefonata si aspettasse un improbabile miracolo. E alla fine Stefano si confessò che, per quanto imbarazzante, quello che gli veniva chiesto non era impossibile. Pensò anche a Nunzio: bisogna stare attenti, con le persone disperate. Fece il numero, sentì la voce dell’uomo, si annunciò e chiese la grazia di tre minuti (disse anzi “centottanta secon­di”) di conversazione d’addio.  Ilda, gli disse, lo chiedeva come l’ultimo desiderio del condannato a morte. Ma quel tale Michele gli rispose con poche parole:

“Lei si presenta cortesemente e le risponderò cortesemente. La risposta è no. Ilda non è condannata a morte e soprattutto non è capace di mante­nere la parola data. Non sarebbero tre minuti e, per lei, non sarebbe un addio. Mi scusi se butto giù il tele­fono. Buongiorno”. Sentendo la parola buongiorno Ilda, che ascoltava dal telefono del soggiorno, gridò “Miche­le!”: ma Michele aveva già chiuso.

Tornò nella stanza con le lacrime che le scorrevano lungo le gote senza che ci facesse il minimo caso e Stefano la prese fra le braccia:

‑Non puoi pregare i fiumi di risali­re le montagne, le ripeté.

‑Ma come vivrò? Io non posso vivere, se non ho la speranza di riaverlo, quell’uomo. Che colpa ne ho, se la vita mi sembra priva di senso, se ho voglia di piangere dalla mattina alla sera, senza di lui? Credi che non mi renda conto che devo sembrarvi pazza, a tutti? Ma è pazzo qualcuno che fa l’impossibile per non affogare?

Stefano sentiva che gli occhi gli s’inumidivano.

‑Siediti, Ilda cara. Calmati, se puoi. Non piangere. Io non posso parlarti con la saggezza di chi ha avuto mille esperienze. Ma posso dirti che il tempo è il medico dei grandi dolori. Se ti dibatti così, ritardi il momento in cui comincerai a sentirti meglio. La vita continua. Sei una donna giova­ne, hai ancora mille possibilità. Suvvia, reagisci!

‑Per il momento ho la possibilità di sentirmi morire.

‑Non parlare di morte. Ho perduto un amico, in questi giorni, e sentir parlare di morte mi pare una bestem­mia. Rassegnati. Rassegnati e aspetta la prossima occasione. Qualcuno mi diceva, tempo fa…

Tica bussò alla porta ed entrò:

‑C’è Amelia al telefono che ti chiede se vi potete vedere oggi pome­riggio alle quattro, invece di domattina. No, non ti alza­re: le ho detto che c’è la signorina Ardita e mi ha detto che vuole una risposta a sì o no.

‑Dille di sì, allora. Andrò a prenderla alle quattro. 

-Porto il caffè?

-Va bene, portalo. Grazie, aggiunse poi, vedendo che Tica s’era risentita del suo tono brusco. 

Poco dopo, mentre Ilda, con gli occhi nel vago, lasciava raffreddare la sua tazzina, le chiese:

-Che cosa dicevamo?

‑Qualcu­no t’aveva detto qualcosa, tempo fa.

‑Ah sì. Un amico di mio padre mi raccontava di essersi sentito distrutto quando era stato piantato senza una ragione dalla donna che amava. Così, vedendo che non riusciva a riprendersi, s’era detto: se, come sembra, non riuscirò a rasse­gnarmi, saprò che sono nevrotico. Se invece soffrirò per un paio di mesi e ne uscirò, saprò che sono normale. Era normale. Spero che sia normale anche tu. Come vedi non ti sto promettendo che starai di nuovo bene fra un giorno o fra una settimana. Ti sto solo proponendo di non farne una trage­dia. Se invece anche fra qualche tempo fossi ancora disperata e incapace di vivere, significhe­rebbe che il guaio non è Michele, ma tu stessa.

Lei rispose senza alzare la testa:

‑Mi proponi di vegliare il cadavere di quest’amore fino a stancarmi di guardarlo.

‑Piccola Ilda, c’è un’altra soluzio­ne?

‑Forse no. Ma mi aiuterete, tu e Amelia? Lo so che noi appena ci cono­sciamo, ma io ho bisogno d’aiuto, lo chiederei a chiunque. Scusami, questa è una gaffe. Non intendevo…

-Lascia perdere.

-Ho un bisogno disperato di conforto, se non mi date una mano forse fermerò qualcuno per la strada e gli chiederò di aiu­tarmi, andrò dal parroco, all’anonima alcolisti o in una comunità di ex-drogati. Sto crollando. Posso chiamarti se sentirò che sto impazzendo?

‑Ma certamente. Anzi, mi farai felice, perché avrò la sensazione di sdebitarmi con l’ombra di quel mio amico. Ti racconterò la sua storia una volta o l’altra. Conta su di me e telefonami quando vuoi.

-Anche la sera tardi?

-Telefonami stasera verso le undici e mezzo, per cominciare. Ho un telefono accanto al letto. 

Ilda andò via. Guardando le sue spalle Stefano ebbe l’im­pressione che avesse dieci anni di più di quando era arrivata.

 

21

 

Alle quattro meno dieci Stefano era già all’angolo della Via Cavour. Avrebbe dovuto essere curioso, per quest’appuntamento anticipato, ma non riusciva più ad averne la forza. Era da troppo tempo che rimuginava quel problema, che formulava ipotesi e cercava soluzioni. Era troppo stanco. Oltre tutto, da qualche tempo aveva da fare solo con disastri: Igor e Ilda piantati, Nunzio morto, Amelia incinta. Ora lei voleva veder­lo di presenza, subito, probabilmente per fare ulteriori pressioni ma, comunque fossero andate le cose, anche se lei avesse pianto, anche se lui avesse pianto con lei, la risposta era no. Un matrimonio per finta non serviva a niente. Creava solo complicazioni. Ci aveva riflet­tuto a lungo e la conclusione non poteva essere che quella: chi, per la pace di un giorno, compromette un futuro di anni, commette un’enorme sciocchezza. Del resto era stato anche il parere di suo padre: fino a nuovo ordine, riconoscere il bambino e contribuire al suo manteni­mento.

Gli dispiaceva per lei, tuttavia.

Probabilmente Amelia all’inizio era stata superficiale. Aveva creduto che in un modo o nell’altro, se fosse rimasta incinta, la cosa non avrebbe potuto che rinsaldare il loro legame. Solo in seguito, dinanzi agli sviluppi concreti, aveva visto che la sua gravidanza aveva guastato tutto: e, infatti, il giorno prima aveva ammesso che, se avesse potuto tornare indie­tro, non avrebbe detto niente ai suoi e avrebbe abortito. Questa nuova Amelia stanca, stressata e quasi supplice, gli straziava il cuore. 

Ora sapeva esattamente cosa sentiva per lei: per certo, non ne era innamo­rato e non intendeva passare la sua vita accanto a lei. Tuttavia le voleva veramente bene. Questo verbo, che pure normalmente è tanto dolce, diventava in quel momento un’irrisione. Significava che lei, da passione sessuale fiammeggiante, si era trasformata in un’amica con cui condivideva un pro­blema. Che tristezza.

Lei apparve improvvisamente, girando l’angolo, e da lontano gli fece un saluto allegro con la mano. Le rispose con un gesto analogo, anche se meno convinto, e le aprì la portiera.

‑Ancora questo catorcio! commentò lei come sempre, sedendosi. Ma col tono di chi dà una pacca ad un vecchio cane.

‑Poveraccia, questa macchina fa più servizio dell’altra. E non si guasta mai.

‑E che si deve guastare? rise lei. Ci sono sì e no quattro ruote e un motore!

‑Ma almeno un motore l’abbiamo: dove ti porto? Devi andare all’università?

‑Proprio per niente. Sono libera come un passero.

‑E anche allegra, constatò lui un po’ sorpreso.

‑Non dovrei esserlo? chiese lei con l’aria impertinente d’un tempo. Dimmi perché non dovrei esserlo.

Stefano, che era stato obbligato a fermarsi dinanzi ad un semaforo, si girò a guardarla:

‑Ilda è pazza e lo sappiamo. Ma tu sei sulla buona strada.

‑Mi vuoi dire che non dovrei essere allegra perché sono incinta e i miei fanno casino, vero?

‑Non dico che non dovresti, dico che mi stupisce.

‑Il fatto è che non sono incinta.

‑Non sei…

‑Guarda avanti! Non sono più incinta. Sono venuta a darti la notizia che mi sono venute le mestruazioni. Aborto spontaneo. Non è bellissimo?

Stefano fermò la macchina appena possibile e si appoggiò allo schiena­le, come stesse per avere un collasso. Amelia gli dava intanto altri particolari:

‑Stamattina, svegliandomi, mi sono sentita umida e non ho capito che succedesse. Ho dato un’occhiata e, voilà! fine del bambino. Ieri avevo avuto piccoli dolori ma, capisci, non essendo mai stata incinta, che ne potevo sapere di cosa significavano? Mia madre mi ha detto… 

Lui era tramortito e l’ascoltava come da molto lontano. La notizia era eccellente, certo. Avrebbe dovuto fare salti di gioia. Di fatto, al contrario, l’eccesso di problemi ed emozioni degli ultimi giorni produceva un effetto di ingol­famento. Una sorta d’incredulità, per cominciare. E la strana voglia di piangere che ha qualcuno tirato fuori indenne da un palazzo crollato.

‑Ti senti bene? chiese infine lei, con aria seria.

‑Sì.

‑Hai una faccia!

‑Cerco di deglutire questa notizia, spiegò lui, senza riuscire a sorridere. Dunque sei sicura.

‑Sicurissima. Non hai sentito tutto quello che ti ho detto?

‑E significa con certezza che è un aborto spontaneo?

‑Non ti fidi, eh? Anche quando ti dicono che è tutto finito, temi che sia un inganno. Che la natura voglia fregarti meglio.

Lui annuì.

‑E invece niente. Tutto finito. 

‑Bene.

‑Sei contento? Avanti, dimmi che sei contento.

‑Non metterti a ridere: mi sento sotto choc.

‑Che esagerazione!

‑Vedi, spiegò lui, è stata la prima volta in vita mia che mi sono sentito preso al laccio dagli avvenimenti, da qualcosa cui non potevo sfuggire. Ho quasi distrattamente commesso il mio primo e definitivo errore. Improvvisamente ho dovuto dar conto delle mie decisioni a tutti gli altri, ai tuoi, a mio padre e presto persino a un bambino. Partendo da niente, senza avvisaglie e con l’aria della più totale normalità, è successo qualcosa che avrebbe avuto influenza sui miei studi, sul mio futuro, su tutto. Ho letto da qualche parte che nell’In­ghilterra del diciottesimo secolo a volte i marinai della marina reale erano reclutati a forza, erano più o meno rapiti, visto che pochi volevano fare quella vita da forzati. Bene, io mi sono sentito un contadinello, povero ma libero, che qualcuno aveva sbattuto su una nave per farlo lavora­re come uno schiavo, insieme con energumeni puzzolenti.

‑Non è che tu mi stia facendo dei complimenti, rise Amelia, evidentemen­te risoluta a non offendersi.

‑Tu non c’entri, piccola. Parlavo di tutto ciò che questo fatto avrebbe comportato. Io, padre? Io che non so se mai avrò figli, anche fra vent’an­ni? Sposato, io che non ci ho mai pensato, neanche una volta, fino ad ora? Ho avuto la netta sensazione di essere trattato come un oggetto, qualcosa che si può vendere o compra­re, mettere qui o mettere là, senza chiedergli che cosa ne pensa.

‑Appunto, cerca di non pensarci più. E’ stato un brutto sogno. L’incubo di avere a che fare con me è finito! concluse ridendo.

Stefano la baciò affettuosamente su una guancia e proseguì:

‑Credimi, quello che mi fregava, in tutta questa storia, è che non riusci­vo ad avere un punto di vista sano, intendo un punto di vista risolutamen­te egoistico.

‑Ah perché, bisogna essere egoisti? domandò Amelia, improvvisamente seria.

‑O anche un punto di vista altrui­stico, se è per questo. L’egoista avrebbe detto ai tuoi genitori e anche al bambino andate al diavolo; l’al­truista ti avrebbe sposata solo per far piacere ai tuoi e far avere una famiglia al bambino: il cretino come me ha sofferto come un cane per la soluzione che non adottava.

Amelia sorrise ironica:

‑Però in totale hai scelto l’egoi­smo.

‑Può darsi. Ma non perché mi conve­nisse e basta: perché era la soluzione giusta.

‑Come fai a saperlo?

‑Mi conosco. Ho bisogno di molta solitudine, di molta pace, di molta autonomia. Sarei stato un pessimo marito, soprattutto se avessi vissuto in casa dei tuoi.

‑Guarda che i miei genitori sono persone per bene. E anche affettuose.

‑Non dico di no. Ma non mi ci vedo, sposato con loro.

‑E neanche con me, lo sappiamo!

Amelia sorrideva. 

Non l’aveva mai vista tanto risoluta a non offendersi, a non cominciare una lite. E dire che in quell’occasione si erano presentate parecchie occasioni: era così per la felicità dello scampa­to pericolo o cercava di riconquistar­lo, di riportare l’orologio a prima di quel dannato incidente?

‑Non lo so, proseguì. Una cosa è sicura, per il momento non riesco affatto a vedermi come un uomo sposato.

‑Perché sei già sposato con te stesso.

L’espressione era strana ma si rese presto conto che non era assurda:

‑Magari hai ragione. Sono sposato con me stesso. Sei tu che hai detto ad Ilda che io sono “dietro di me stesso”. Se mi sposassi, saremmo in due, là dietro. Troppa folla. Forse in futuro cambierò. In meglio. Ma per ora è così e, in ogni caso, ognuno di noi può dare molto, moltis­simo, ma non se stesso. E se lo fa sbaglia.

‑Soprattutto uno come te. Ilda per esempio mi ha detto che ti ha trovato straordinariamente dolce, straordinariamente comprensivo e rassicurante. Questo significa che con te una ha l’impressione che non sarà difficile stabilire un rapporto di comunicazione; e anche d’affetto. Col tempo si scopre invece che tu rendi molto facile la prima parte del per­corso e impossibile l’ultima parte. Il sancta sanctorum deve rimanere invio­labile, come hai appena detto. È lì che tu adori te stesso.

‑Mi pare un colpo basso, questo.

‑Non credo. E anzi ti dirò qualcosa che ti farà piacere: ho ben capito che non sei innamorato di me. Che sei stato con me soprattutto perché ti piaccio dal punto di vista sessuale. Ma non posso offendermi. Ho la sensazione che non riusciresti a dare di più neanche ad un’altra donna. Forse questo è il tuo modo d’amare. Te l’ho detto: senza proclamarlo sui tetti, senza le ridicolaggini narcisi­stiche di Igor, tu sei il tuo proprio dio.

Per fortuna, poco dopo si ritrovaro­no seduti l’uno accanto all’altro, in un cinema, e Stefano cercò disperata­mente di distrarsi. 

 

22

 

Al buio, a letto, Stefano si rese conto che non aveva molte speranze di dormire. Fino a quel momento, al cinema, e poi da amici, con suo padre, aveva rinviato tutto. E ora si sentiva chiamato a rapporto. Troppe emozioni, troppi pensieri si agitavano nel suo animo, perché potesse sperare di prendere sonno. Doveva prima sistemarli. 

La prima sensazione era quella, molto confortante, d’essere solo. Non si sentiva appiccicato addosso il vagito di un bambino e neppure la voce di Amelia o quella dei suoi genitori. Era di nuovo un individuo, in grado di disporre della propria vita. Quando Amelia gli aveva detto di essere incinta, lui aveva fatto il paragone con una dia­gnosi infausta. Ora gli era stata fatta la diagnosi inversa. Come prima si era sentito improvvisamente condannato a perdere le sue care abitu­dini, a snaturare il suo progetto d’esistenza, così ora ritrovava, con sentimento di gratitu­dine, il fatto di essere semplicemente un giovane come tanti. Col problema dell’università come unico impegno serio e con una totale libertà riguardo al proprio futuro.

E tuttavia non era più lo stesso.

Le esperienze fatte in quel breve periodo rappresentavano una lezione capace di ridimensionare tutta la realtà. S’impara l’importanza di avere due gambe solo quando ci è impedito di cammi­nare. E quanto sia facile avere un incidente s’impara quando è avvenuto. Quei giorni gli avevano mo­strato che tutto è fragile, cangiante, imprevedibile. Perfino crudele. Se mai avesse avuto bisogno di una riprova del fatto che nessuna intelligenza superiore governava la realtà, l’aveva sotto gli occhi. Quanti uomini non sono stati amati, come Igor, benché abbiano disprezzato la donna che li amava? Quante donne, innamorate come Ilda, non sono state ripagate con la stessa moneta, creando delle coppie invidiabili ed eterne? Quante donne, soprattutto, non sono state sposate solo perché erano rimaste incinte? Per il momento, lui era sfuggito ai mecca­nismi della realtà che strito­lano gli individui, ma non per merito suo. Lui il suo bravo errore l’aveva commesso.

Si sentiva quasi un disertore. Suo padre gli aveva parlato d’un amico d’infanzia, giovane brillantissimo negli studi che, rimasto orfano, aveva dovuto abbandonare tutto per divenire idrau­lico e nutrire sua madre e i suoi fratelli. Era divenuto un eccellente idraulico, certo: ma non quel grande giudice, quel famoso ingegnere che meritava d’essere. Quel poveraccio non era stato graziato, lui sì. Così, a caso. Perché la fortuna è bendata e fortuna, in latino, significa anche sfortuna. 

Era come se avesse perso l’innocen­za. Aveva perso la sensazione, un po’ infantile, che se ci comportiamo bene non può succederci nulla. Era stato ad un passo dall’esser risucchiato nella vita corrente. Sarebbe potuto diventare come tutti coloro che, fatti prigionieri da una situazione esistenziale, girano eternamente la macina come asini bendati. Animali rassegnati ad essere un ingranaggio montato da altri, ormai privi d’ogni anelito di libertà.

Avrebbe dovuto essere felice. Era di nuovo giovane, libero e sereno. Ma era come se avesse avuto accanto i corpi di altri giovani che la vita aveva ferito o ucciso, dimostran­do spietatamente la loro vulnerabili­tà. Come essere felici, in queste condizioni?

Igor rappresentava la sconfitta del punto di vista aristo­cratico. Era stato piantato da Betta e non solo ne aveva sofferto molto più di quanto non pensasse, ma il suo migliore amico gli aveva sostanzialmente detto che, continuando così, si sarebbe ritrovato del tutto solo. Ed era la verità. Igor si avviava a divenire un uomo senza amici, capace di atteggiarsi a trion­fatore mentre prendeva continuamente tranquillanti e sua moglie lo tradiva a tutto spiano. Già lui stesso cominciava ad avere un sentimento di fastidio all’idea di passare un’intera serata con lui.

Ilda rappresentava la sconfitta dell’amore. Non basta amare, c’inse­gna la vita: bisogna amare la persona giusta. Solo che è difficile dirlo al proprio cuore. Indubbiamente si poteva affer­mare che la ragazza era stata eccessiva, magari un po’ pazza: ma chi dice cose del genere, quando un amore è corrisposto? Tutti si levano il cappello. La ragazza era stata sfortunata. Certo, sarebbe arrivata a rassegnarsi. A poco a poco. E infine avrebbe incontrato un giovane del quale non era innamora­ta ma a proposito del quale avrebbe finito col chiedersi, un po’ come abbiamo fatto tutti, una volta o l’altra, “perché no?” E, senza amore, senza magia, col solo buon senso, si sarebbe unita a lui in un matrimonio maledettamente normale, per una vita maledettamente normale, in un mondo maledettamente normale. Un mondo in cui l’innamoramento di un tempo sarebbe stato considerato con ironia. Importanti sarebbero state le bollette della luce, le rate del condomi­nio, le malattie esantematiche dei figli e le beghe con i colleghi di lavoro.

Quanto ad Amelia, poverina, rappre­sentava la sconfitta del sesso. Sia lei che lui stesso avevano creduto che quel loro rapporto fosse qualcosa di serio. Che magari le piccole liti fossero soltanto il pepe sopra un legame per il resto solido e piacevo­le. Invece, non appena si era prospet­tata la possibilità, anzi la necessità di passare, da un frizzante incontro sessuale, alla normale vita quotidiana, lui s’era ritratto atterrito. Magari si era comportato male, con Amelia. Perché, se lei aveva creduto che lui l’amasse sul serio, quell’esperienza doveva averla disillusa completamente. Aveva appreso a sue spese che, se un uomo sembra impazzire per il rapporto sessuale con una donna, non per questo il legame è completo. Dura quanto dura il desiderio e un nuvolone, come nel loro caso, poteva distruggere tutto. 

Chissà quante donne hanno vissuto questa delusione, pensava. Forse perché in loro il sesso ha più implicazioni sentimentali di quante ne abbia nell’uomo. La colpa è anche della lingua che, nel verbo amare, include sia quel senti­mento che può rendere gradevole un’in­tera vita vissuta insieme, sia la passione sessuale. Qualcosa che si può avere con una buona partner, anche se ci si conosce poco e male. Bisognerebbe avere due verbi diversi, pensava. Che so, aderire per quanto riguarda lo spirito e delirare per quanto riguarda la carne, oppure amare per le anime e gradire, come si dice per i dolci, per il sesso. Invece i Francesi, con aimer, parlando indifferentemente di sentimenti, di sesso e di dolci. Naturale, che si faccia confusione. Comunque era inutile che si occupasse di riformare la lingua. Nessuno gli avrebbe dato ascolto. E poi, chissà che l’umanità non avesse lungamente approfittato di quell’equivoco semantico!

E Nunzio, visto che parlava di sconfitte?

Nunzio rappresentava la sconfitta del pensiero, della passione intellet­tuale, della coerenza. Indubbiamente era stato un giovane privo di molte delle caratteristiche che dànno il successo: ma proprio tali qualità l’umanità affetta di disprezzare. Quale filosofo, quale moralista ha mai proclamato l’importanza di un bell’aspetto, di non eccedere in scrupoli e di vendere perfino un po’ di fumo? Tutti a dir bene della profondità di pensiero, della nobiltà degli atteg­giamenti, del rigore concettuale. Nunzio aveva cercato d’avere proprio queste qualità ed esse gli erano servite soltanto per capire che, per il mondo com’è, era interamente sbagliato. Da buttare via, giù da un ponte. 

Nunzio rappresentava la prova dell’infinita ipocrisia della società. Essa è capace di levarsi il cappello dinanzi a tutti gli idoli, quali l’onestà, la bontà, l’altruismo, ma poi fa sfacciatamente i propri interessi, in ogni occasione. Magari prendendo in giro quello stupido che gli idoli li ha presi sul serio e non si è limitato a cavarsi il cappello. Quel povero seminarista sarebbe rimasto nei suoi ricordi come un eterno monito: ricordati che la socie­tà è crudele e bugiarda. Non seguire troppo da vicino i suoi precetti. Te li predica per approfittare di te. Perfino coloro che proclamano la poesia della povertà, come certi intellettuali oggi, e come la Chiesa per secoli, se ne tengo­no accuratamente lontani.

E lui stesso, che cosa rappresenta­va?

Non se lo chiedeva solo per ragioni di simmetria. Se lo chiedeva perché si sentiva effettivamente sconfitto. Anche se, per una volta, il caso l’aveva graziato, la grazia non è un’assoluzione. Lui che era tanto più posato e razionale di Ilda era stato sconfitto ugualmente. Ilda rappresentava l’amore scatenato come la gente immagina che si ami quando si è giovani, mentre lui aveva un atteg­giamento da uomo di mezza età. Sembra­va la replica di suo padre. Ma il risultato era stato lo stesso. La sua era l’ultima sconfitta, quella del buon senso e della ragione. 

Inoltre era sconfitto un po’ come Amelia, nel campo del sesso. Quegli avvenimenti gliene avevano tolto l’entusiasmo. Sembrava qualcuno che, dopo avere avuto un grave incidente automobili­stico, evita di andare in automobile. La voluttà, aveva perduto la sua magia: era avvelenata dalla coscienza che poteva comportare il rapporto stabile con una donna. E magari la procreazione, Dio liberi. Era morta l’innocenza di un piace­re dato e ricevuto, di qualcosa che si aveva la sensazione d’avere appena inventato. Prima d’ogni cosa bisognava chiedersi: e se mi ha mentito, sul suo ciclo? E se si rompe il preservativo? E se rimane incinta? E perfino: se avesse una malattia? Come abbandonarsi alla passione, in queste condizioni?

Per quanto riguardava il parallelo con Igor, poteva affermare d’essere meglio sistemato di lui, ma fino ad un certo punto. Il suo amico era egotico e irragionevole e lui si senti­va ragionevole: però il fatto di essersi trovato nei guai fino al collo, più di Igor, non dimostrava forse che la sua ragionevolezza non bastava? C’era da imparare che chi è ragionevole corre meno rischi di chi non lo è, come chi guida bene corre meno rischi di chi guida male. Ma non si deve presumere che non si avranno mai incidenti. La ragionevolezza dà un piccolo vantaggio, nulla di più.

E del resto, il suo porsi a metà strada fra Igor e Nunzio non signifi­cava affatto che avesse ragione. Igor avrebbe potuto proclamare che seguiva il proprio istinto, il proprio estro, che nuotava entusiasticamente nel fiume della vita senza chiedersi in quale mare sboccasse. Nunzio poteva allineare ragionamenti incontro­vertibili che avrebbero condotto all’obbligo filosofico di buttarsi da un ponte dell’autostrada. E lui cosa poteva sostenere? Il proprio buon senso, il proprio egoismo, la propria meschinità? Amelia aveva forse ragio­ne, quando diceva che lui era il suo proprio dio. Igor adorava se stesso senza pudore, lui praticava questa religione con maggiore accortezza, ma solo per ottenere migliori risultati.

Insomma mentre gli altri arrivano alla mediocrità, cioè alla prosa dell’età adulta, perché gli anni avevano limato le loro punte, lui era un adulto per vocazione. Uno che nella vita aveva una sola ambizione reale: sostituire suo padre nella titolarità della farmacia.

Se questa era la realtà, non avrebbe dovuto limitarsi a rigirarsi nel letto ogni dieci minuti. Avrebbe dovuto vegliare per tutta la notte la sua giovinezza morta per sempre.

Fine

L’ERROREultima modifica: 2013-05-26T17:31:00+02:00da gianni.pardo
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