IL DUE NOVEMBRE

 

Se me l’avessero detto una settimana prima, che il due novembre, per la festa dei defunti, sarei andato al cimitero, non ci avrei creduto. Eppure a volte la Pubblica Amministrazione ci costringe a fare cose assurde. Quando avevo chiesto all’impiegato. “Ma scusi, perché proprio il due novembre, per ficcarmi fra la folla?”, quello mi aveva risposto, asciutto: “Lei ci può andare quando vuole, è ovvio. Ma per un problema come il suo, nel quale sono implicati parecchi funzionari, l’unico giorno in cui li trova tutti lì, e se la cava con un solo viaggio, è il due novembre. Ci vada quando vuole, comunque”.

Compresi allora che il consiglio era del tutto disinteressato e lo ringraziai. Fu così che, qualche giorno dopo, mi trovai in mezzo ad un mare di tombe e di fiori, in un mondo in cui l’aria di festa che dà una gran folla riunita contrastava con l’aria afflitta che tutti si sentivano in dovere di avere. Anche se si coglievano brani di conversazione non sempre edificanti. C’era chi trattava da disonesto un venditore di crisantemi, chi si riprometteva di rompere la faccia a chi gli aveva venduto il loculo, chi parlava d’eredità, e perfino chi, sinceramente, piangeva guardando una lapide.

Risolto il problema in Amministrazione, con una facilità che provava che con gli uffici statali non si può mai dire, decisi di andare a vedere la tomba di mia madre. Facendomi largo tra la folla, commisi l’errore di tenere in mano il foglietto col disegno dei vialetti che mi avevano gentilmente fatto, in Amministrazione e la gente, vedendomi senza un fiore e con un documento in mano, mi prendeva per un funzionario. Mi chiedeva informazioni e poi, costatando la mia ignoranza, mi guardava con aria di rimprovero.

Trovata la cappella, dovetti chiedere permesso più volte, per entrare. Lo spazio, all’interno, non era grandissimo, ed eravamo in venti o in trenta. Qualcuno lustrava la lapide del suo morto, qualcuno parlava del defunto, qualcun altro si lamentava che si fosse staccato il piombo di una lettera del nome sulla lapide. Il cicaleccio era notevole e tutti, benché non ci conoscessimo affatto, tentavamo di rimanere cortesi gli uni con gli altri, come avviene per esempio all’inaugurazione delle mostre di pittura. La vita è tanto diversa dalla morte che non riesce che a somigliare a se stessa.

Ecco lì la lapide di mia madre. 1898 – 1967. Non era arrivata ai settant’anni, la poverina. Lei che amava tanto la vita e meritava tanto di vivere. Anche qui, nessuna somiglianza fra quel marmo freddo e il ricordo di una donna che, senza essere né bella né giovane, era una ventata d’aria fresca per il suo buon senso, il suo coraggio, il suo spirito libero come quello di un gatto selvatico. Quando ormai era nonna da decenni, era facile rivedere in lei la bambina discola che era sempre stata.

– Gli altri portano fiori, io non ti porto niente, madre mia, pensavo. Ma se qualcosa avessi dovuto portarti, ti avrei portato delle salsicce al sugo. Anche nel mio cuore, ogni volta che ho pensato a te, ti ho vista solo viva e allegra. Ti ho tenuta accanto a me, mentalmente, complice dei miei ricordi e di quei principi che credo miei e che in fondo sono tuoi. Principi di cui ti ringrazio. Perché proprio tu, mamma, tu che non hai letto Freud, mi hai insegnato il principio di realtà.

Nel frattempo, quella sfocatura del marmo che da principio avevo attribuito al mio sforzo di ricordare l’immagine di mia madre, andava precisandosi. Assumeva a poco a poco i contorni di una figura sempre più precisa, sempre più grande, sempre più reale. Finché fu come se vedessi mia madre di là dal marmo e fossimo separati da uno specchio.

– Sei venuto, finalmente, disse lei, sarcastica. Che è successo, è morto il papa? Ma già, in tanti decenni, di papi ne saranno morti almeno un paio. A cosa devo l’onore?

– Mamma, io…

Fui disturbato da un guardiano che, ripetendo ad alta voce “Si chiude, si chiude”, spingeva tutti fuori. Io mi apprestavo a obiettare che il mio caso era speciale quando lui dichiarò senza esitare “Lei può rimanere, ovviamente”.

E poco dopo fui solo, nella cappella. Mi madre si era seduta sulla sua cassa, col mento nel cavo della mano, come usava fare, e ripeté tranquilla la sua domanda:

– Come mai sei venuto?

– Io sarei venuto molto più spesso, che so, una volta al mese, dissi con grande imbarazzo, se avessi saputo di poterti parlare così. Ma tu…

– Io?

– Insomma, mi dispiace dirlo con queste parole: ma non sei morta, tu?

– Sì. Ebbene?

– Come, “ebbene?” I morti non parlano, non vedono, insomma, non vivono. Se no che morti sarebbero?

Mia madre ebbe un moto d’impazienza, come dovesse spiegare qualcosa ad un suo alunno di seconda elementare.

– I morti, tanto per cominciare, sono tutti uguali, stabilì. E dunque non sono morti, fra loro. Chiaro?

– Per niente.

– Che testone. Dunque, cominciamo dal principio. Quando uno muore viene messo in una cassa e portato in un posto come questo. Giusto? Da prima, visto che gli hanno parlato del sonno della morte, dorme. Poi gli capita, svegliandosi un po’, di annoiarsi, sdraiato lì, e per questo si guarda in giro e vede se altri morti sono svegli. Per farla breve, si vive come in una casa di riposo. Ci s’incontra, si parla del più e del meno e ci si distrae come si può. Se la noia è eccessiva uno può sempre rimettersi a dormire. L’insonnia qui non esiste.

– È un vantaggio.

– Certo che lo è. Qui, purtroppo, non succede mai niente di nuovo. Alla fine ognuno conosce tutti i ricordi degli altri, e non c’è più niente di cui parlare. Non si ha neanche la sorpresa saporita di scoprire che i ricordi di quel vecchio colonnello, nel loculo in alto, sono falsi, che quell’avventura da cui ci ha raccontato di essere uscito vincitore di fatto l’ha visto soccombente. I colloqui divengono sempre più noiosi.

– E allora?

– Allora, te l’ho detto, uno si rimette a dormire e dorme sempre più a lungo. Non vuole più svegliarsi, ecco la verità: non ne vale la pena. È meglio essere morti. Ma da principio no, capisci? Per questo hai fatto male a non venirmi a trovare. I morti freschi sono contenti di rivedere i parenti e gli amici. In seguito, è naturale, i parenti e gli amici vengono sempre più raramente, se vengono, e ai morti importa sempre meno di loro. Anche perché sono sempre più diversi da come li ricordavano. Io stessa faccio uno sforzo a riconoscerti come mio figlio. Sei un signore con la barba bianca che a momenti ha l’età che avevo io quando ho avuto l’infarto. Sei troppo diverso dell’uomo vigoroso che ho visto l’ultima volta. Saresti dovuto venire anni fa.

– Mi dispiace, mamma. Se avessi saputo quello che ora mi hai detto, sarei certo venuto, credimi. Spesso, anche. Ma come potevo immaginarlo? Tutto questo è assolutamente inverosimile.

– Inverosimile?

– Ascoltami: come ti dicevo poco fa, essere morti significa non pensare, non parlare, non muoversi. Che dico! Non avere più tutto quanto serve per pensare, per parlare, per muoversi. Nei film dell’orrore a volte mostrano scheletri che camminano, parlano, maneggiano oggetti. E io rido, regolarmente. Perché quelle ossa, per muoversi, avrebbero bisogno di muscoli, mentre gli scheletri non hanno muscoli e dunque non possono far nulla. Non possono maneggiare nessun oggetto. Gli scheletri, stai pur certa, non si muovono. Nello stesso modo, un cranio vuoto non può pensare. È il cervello la cosa che pensa, non il cranio. Ora mi dici che voi parlate, dormite, vi annoiate. Ma tutte queste sono attività da vivi, capisci? Il problema è dunque: siete vivi o siete morti? Perché se siete morti tutto quello che mi hai raccontato non è vero. Ma dal momento che me l’hai raccontato, significa che almeno tu sei viva. E allora, perché non torni a casa con me, invece di rimanere qui?

– Ti piace sempre giocare con le idee, nevvero? rise mia madre. Anche da ragazzino ti davano del filosofo. Non posso tornare a casa con te, è ovvio. Ti ricordo invece che stamattina qui c’era una gran folla. Oggi in questo cimitero sono venute decine di migliaia di persone. Che sarebbero venute a fare, se i morti fossero morti nel senso che dici tu? Che gliene sarebbe importato, ai morti, della loro visita?

– Nulla, mamma, ma è proprio quello che penso io! Ai morti non gliene frega assolutamente nulla dei marmi e dei fiori, e di tutta questa pagliacciata. La gente viene qui perché è mentalmente primitiva, perché non capisce che significa essere morti, dal punto di vista scientifico. Che è poi l’unico punto di vista di cui sono capace. Essere morti significa non godere più di nulla, non percepire più nulla, non pensare più nulla. Significa non vivere, appunto. E se già dormendo non c’importa assolutamente nulla del fatto che qualcuno ci ami o ci odii, ci venga a trovare o ci trascuri, che vuoi che ce ne importi, se siamo morti! Tutta questa gente è venuta qui perché è al livello dei selvaggi. Non accetta la realtà che ha sotto gli occhi.

– Quale realtà, esattamente? chiese mia madre, la cui immagine mi sembrava un po’ più sbiadita.

– Non accetta il concetto di morte, ecco tutto. Non solo è difficile ammettere che moriremo tutti ma è ancora più difficile ammettere che dopo il trapasso non esisteremo affatto. Non godremo né della bella tomba che ci siamo fatta né del pianto, o quanto temporaneo! dei sopravvissuti. Per questo non sono venuto a trovarti. Perché non potevo trovare te, ma solo una lapide di marmo. Anche aprendo la cassa non avrei visto che qualche osso, e che cosa avrebbe avuto a che fare, quel misero resto, con te, che sei stata così gloriosamente viva? La gente viene qui perché segue le convenzioni. Hai dimenticato che proprio tu sei sempre stata contro le tradizioni, contro la retorica, contro le illusioni della massa? E ti meravigli che io, tuo figlio, la pensi come te?

– Sì, ma oggi mi rendo conto che quelle illusioni sono a volte consolatorie, sospirò la povera vecchia, mentre io avevo sempre maggiori difficoltà a percepire la sua voce.

– Ci si può consolare con un’illusione? Forse sì, alcuni ci riescono, ma proprio tu sei stata allergica all’autosuggestione. Quanto a me, non posso rinunciare alla mia razionalità, alla verità, insomma, per quanto posso, alla corretta percezione della realtà. Alla realtà che è quella che è, e non può essere altro. E neanche tu l’avresti fatto. Oltre tutto, perché le illusioni siano consolatorie non bisogna vivere fino alla disillusione. Ma perché ti vedo sempre peggio? Mamma! Mamma, stai svanendo, fermati! Perché te ne vai?

– Non è che voglia andarmene, figlio mio, fece la voce, sempre più flebile. È che sono morta. Morta nel senso che dici tu…

Gianni Pardo

IL DUE NOVEMBREultima modifica: 2012-07-22T15:46:00+02:00da gianni.pardo
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