SUCCESSONE: IL SUICIDIO IN DIRETTA!

Appena finita la pubblicità, apparve l’immagine del bersaglio del tiro a segno, il solito coltello colpì il centro e dal punto colpito cominciò a colare il sangue.

Poi venne il titolo della trasmissione: “L’ULTIMO GRIDO”, e di seguito una miriade di altri nomi che la gente sopportava stoica­mente, aspettando l’inizio di uno spettacolo che, almeno fino a quel momento, aveva avuto molto successo.

L’idea era stata semplice. Qualcuno, alla televisione, aveva notato che ogni giorno ci sono persone che si suicidano: perché non invitare gli interessati a suicidarsi in diretta? C’è gente che pur di stare dinanzi alla telecamera è disposta a morire, aveva detto quel regista agli amici: i quali avevano riso ma, pur dandogli del cinico, avevano ammesso che c’era del buono, nell’idea.

Il legale del network aveva fatto osservare che esiste un reato chiamato “istigazione al suicidio”. Bisognava stare attenti. Perché non dribblare il codice penale affiancando a colui che intendeva suicidarsi qualcuno che glielo sconsigliasse? Il network avrebbe così avuto l’alibi d’avere anzi fatto il possibile per evitare che qualcuno morisse.

‑E se poi il conduttore della trasmissione riesce a convincere l’aspirante suicida, che ne facciamo dello spettacolo? La gente si annoierà e cambierà canale, obiettò qualcuno.

‑Si potrebbero superare le perplessità dell’aspirante suicida sparandogli, aveva detto l’ideatore dello spettacolo. Ottenendo una fragorosa risata ma anche un segreto rimpianto.

Il consulente etico del programma aveva poi fatto notare che la morte in diretta incontrava un altro ostacolo, quello che nel Seicento in Francia si chiamava “bienséance”: la morte è una cosa sporca e disgustosa. Dunque nessuno doveva avere il permesso di spararsi in bocca, per esempio. In questi casi le teste scoppiano come melograni, con un carico di orrore che spingerebbe lo Stato a chiudere il network. Bisognava che il suicida si suici­dasse con un massimo di dolcezza: una maschera con l’ossido di carbonio, un’iniezione letale, o anche un colpo di pistola o una coltellata, ma al cuore. Insomma qualcosa che fosse quanto di più vicino ad una morte cinematografica, asettica, simbolica: poi, tanto per fare la differenza con i telefilm, sarebbero intervenuti il medico e il notaio a certificare che il tizio si era effetti­vamente suicidato. Sarebbero entrati i becchini…

Ma c’era un problema che continuava imperterrito a presentar­si: e se poi il tizio cambia opinione e non si suicida?

Fu il titolare di una rubrica del tutto diversa, un talk show, che ebbe l’idea risolutiva.

‑Sentite, disse: nessuno può essere obbligato a suicidarsi. E dunque per questa parte non esistono soluzioni. Però si può spostare lo spettacolo in un teatro: se il tizio si suicida, si trasmette subito la cassetta sul circuito del network, bang! Se non si suicida, niente. Però potrebbe anche succedere che il pubblico ridicolizzi l’aspirante suicida e in questo caso lo spettacoli diverrebbe divertente. La tragedia potrebbe sfociare nella farsa. Sarebbe ancora un eccellente spettacolo. Se invece la storia risultasse commovente e qualcuno salvasse l’aspirante suicida, si trasmetterebbe la cassetta secondo un’altra linea: la televisione è una fata che fa i miracoli, quest’uomo stava per morire ed esce da qui felice, salvato dal nostro sponsor! Happy end. Insomma gli spettatori della televisione non sanno in anticipo se quello che stanno per vedere è un dramma a lieto fine, una farsa o un suicidio quasi in diretta. Il programma infatti dovrebbe andare in onda non più tardi di un un paio d’ore dopo lo spettacolo in teatro: non ci dovrebbe essere tempo per le fughe di notizie e le anticipazioni del finale.

L’idea piacque a tutti ed entusiasmò soprattutto il direttore commerciale.

‑Va benissimo, approvò. Non solo il conduttore cercherà di consolare l’aspirante suicida ma possiamo invitare gli sponsors ad offrire soluzioni agli infelici. Ed ovviamente ci premureremo di sottolineare i loro nomi, i loro prodotti, la loro munificenza. “Oggi l’Amaro X ha ridato la dolcezza della vita al signor…”

‑O.K., non divenire lirico, gli disse il regista. Ma l’idea degli sponsor è perfetta. Risparmieremo sui costi ed avremo l’aria di benefattori.

Qualche settimana dopo lo spettacolo partì ed ebbe un incon­tenibile successo.

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Alle prime selezioni fu subito chiaro che non sarebbero mancati i concorrenti, se così si possono chiamare persone che intendono ammazzarsi. Fu necessario procedere ad eliminatorie.

Bisognò, come era prevedibile, allontamare il disoccupato che spera­va, suicidandosi in diretta, di far almeno sopravvivere la fami­glia. Se fosse morto, tutti avreb­bero accusato la televisione di speculare sul dolore dei diseredati. I politici dell’opposizione avrebbero detto che in Italia non si trova un lavoro neanche a costo di morire e questo non sarebbe piaciuto al governo. Se invece qualche sponsor avesse offerto un lavoro al poverac­cio, dal giorno seguente gli studi televisivi sarebbero stati assediati da una torma di gente. Troppo rischioso. Il disoccupato chiese almeno l’iniezione letale ma gli fu negata. Si rischiava, se non l’istigazione, l’aiuto al suici­dio. L’uomo finì la serata nel Naviglio e i giornali, non tutti, gli dedicarono due righe.

Fu invece subito accettato il giovane che non intendeva sopravvivere all’abbandono della sua ragazza. E il suo caso commosse parecchia gente. La disperazione del giovane innamorato deluso ha una tradizione letteraria e il soggetto sembrava aderire a questa tradizione fin nei particolari. Si presentò serio e mite, come stordito dal dolore, deciso a tagliarsi le vene con una lametta se l’amata non avesse cambiato idea, e ascoltò con pazienza il conduttore. Rossetti, infatti, cercò di fargli cambiare idea, spiegandogli che ad un amore ne segue un altro, che finché c’è vita c’è speranza, che l’amore è importante ma non vale la vita… ma il giovane pareva una copia di Werther o di Iacopo Ortis: qualcuno che del suicidio si è fatta una patente di nobiltà.

La bella riluttante fu chiamata al telefono e si vide chiaramente che la ragazza aveva le sue buone ragioni, per abbandonarlo. Il giovane, se non era un pazzo, era come minimo un nevrotico piagnucolone e ossessionan­te, occasionalmente anche violento. La giovane, probabilmente ben consigliata, aveva un preciso argomento logico, per giustificare la propria decisione: “Posso stare con te, tutta la vita, per pietà? Quanto tempo durerebbe la mia pietà? E quanto dure­rebbe la tua gratitudine? L’amore non si dà come l’elemosina, o si sente o non si sente”.

 Bisognò che Rossetti ‑ che pure era un uomo pacioso, tanto che fino a pochi mesi prima aveva presentato un programma di canzoni ‑ togliesse di mano il telefono al giovane: egli avrebbe parlato per ore ed ore, ripetendo le stesse cose con le stesse parole, incurante di tutto e di tutti. Incurante anche del fatto che ogni suicida aveva diritto ad un quarto d’ora in tutto, comunque si concludesse la cosa.

 La giovane, attraverso Rossetti, consigliò al suicida di ripensarci ma lo pregò anche di non cercarla mai più. Questi, con un sorriso mesto, e con l’aria di dire a tutti “ve l’avevo detto”, si rassegnò. Si mise sulle braccia un pietoso lenzuolo e si tagliò le vene. Sorrise ancora per un po’, mentre la telecamera indagava le pieghe del suo viso e i suoi occhi stanchi, e il conduttore gli diceva che poteva ancora salvarsi, volendo. Il giovane scuoteva la testa impercettibil­mente, mentre la telecamera scopriva un imprevisto rivoletto di sangue sotto la poltrona, una macchia sul lenzuolo, e soprattutto documentava il momento in cui il giovane appoggiò la testa sullo schienale, come si fosse addormentato.

Lo spettacolo si prolungò con le meste incombenze di medici e becchini, ma soprattutto, nei giorni seguenti, con un infocato, violento dibattito nazionale.

 La maggior parte della gente, stranamente, dava torto alla ragazza. Anche con ragionamenti sorprendenti del tipo: intanto poteva dirgli sì, in modo che sul momento non si suicidasse, poi avrebbe avuto tempo per lasciarlo di nuovo. Magari quando fosse stato più calmo. Altri – pochi – rispondevano che ognuno è responsabile della propria vita. Non si può pretendere che, per salvare la vita altrui, si rovini la propria. E allora? dicevano i primi. Ragionando così, pensando cioè che chi vuole ammazzarsi può andare al diavolo e basta, perché mai dovrebbero esserci campagne contro la droga? Chi vuole rovi­narsi con la droga si accomodi, tanto voi non muovereste un dito, per salvare i drogati, nevvero?

 ‑E perché dovremmo? Che responsabilità abbiamo nel fatto che si drogano?

 ‑Le responsabilità della società!

 ‑Ma quali responsabilità!

 Questo genere di discussioni erano nulla rispetto allo scandalo nazionale di tutti i moralisti riguardo a quello che fu chiamato lo “Show della Morte”. La morte non può divenire spettacolo, gridavano molti, la televisione è oscena, diseducativa, crudele, cinica, causa di ogni male.

Tuttavia la settimana seguente l’audience fu doppia.

 

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La trasmissione tuttavia si rivelò meno interessante del previsto.

C’era una bella donna di quarant’anni che intende­va suicidarsi semplicemente perché, ammalata di cancro, non voleva sottoporsi alle sofferenze della malattia e al decadimento fisico inevitabile. Aveva occhi di un incredibile colore verde, luminosi, intensi, sembrava di vedere la sua anima in trasparenza.

‑Ormai che sto per morire posso abbandonare ogni modestia, diceva. Sono stata per trentanove anni, presto quaranta, una bella donna. E voglio morire da bella donna, morire prima che la morte divenga desiderabile, prima che perfino i miei cari me la augurino…

Qualcuno, nel pubblico, si asciugava una lacrima, soprattutto fra le signore. Ma lo spettacolo prese una piega imprevista quando il condut­tore cominciò a chiederle di quale malattia, esattamente, sof­frisse. Risultò che la donna era effettivamente malata di cancro ma di uno dei meno gravi: le cure sareb­bero state efficaci ancora per molto tempo ‑ anni ‑ e non era neanche escluso che guarisse.

Risultò pure che i suoi medici gliel’avevano già detto, tutto questo, e che lei era stata ostinatamente e nevroticamente pessimista. Si attaccava a quella parola: se era cancro, diceva, era mortale a breve scadenza. E basta. Alcuni grandi specialisti, per telefono, confermarono la diagno­si del suo medico generico ‑ che gliel’aveva comunicata per primo ‑ e la donna, che non aveva creduto agli specialisti consultati, credette alla televisione. Abbandonò il suo progetto di suicidio e andò via facendo gli occhi dolci a Rossetti.

La gente fu un po’ delusa.

Nel corso della trasmissione si era purtroppo passati da un gesto eroico ed elegante ad una diagnosi di tumore benigno aggravato dalla nevrosi.

 

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 Un caso molto commovente e strano fu quello del cassiere di banca che, grandissimo competente di ragioneria e di computer, per anni aveva sistematicamente rubato, facendo vivere nell’agio la propria famiglia e i propri figli. Ora si era messo in moto un meccanismo per cui tutto, con assoluta certezza, sarebbe stato scoperto nel giro di una setti­mana ed egli non voleva sopravvivere al disonore. Ecco perché era venuto, disse: e posò sul tavolo una pistola. Il conduttore cercò di dissuaderlo. Il suo era dopo tutto un furto ‑ un furto pluriaggravato, certo ‑ ma non era reato da pena di morte. Inoltre, che ne sarebbe stato della sua famiglia? E poi, tutti possiamo sbagliare! Egli poteva benissimo espiare il misfatto andando in carcere per il tempo che la giustizia degli uomini avrebbe stabilito. Era un uomo abbastanza giovane, aveva decenni di vita, dinanzi a sé.

Il cassiere, gentilissimo e paziente, era stato ad ascoltarlo, ma alla fine era stato semplice e conciso:

 ‑So benissimo che reato ho commesso. So benissimo tutto quello che ha detto lei. Ma mi condanno a morte per due ragioni: la prima, per il mio orgoglio. Ho infatti a lungo creduto che non mi avrebbero scoperto. La seconda, per servire da lezione a tutti coloro che avessero la tentazione di fare come me. Credetemi, non ne vale la pena. L’ansia, e alla fine il diso­nore, per voi e per la vostra famiglia, sono troppo, troppo costosi. Non ho altro da dire: e il resto sarebbe spettacolo.

Ciò detto, prima che qualcuno potesse rispondere qualcosa, prese la pistola, se la puntò al cuore, e fece fuoco.

In sala, a teatro, qualcuno vomitò, molti svennero. Il dibattito sulla liceità di un simile spettacolo salì alle stelle, ma salì pure l’audience.

 

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Qualche settimana dopo si presentò un signore distinto, sui sessant’anni, esilissimo ed altissimo, afflitto da un grande naso e da una barba ispida e grigiastra. Sembrava uno spaventapasseri, o una gruccia per abiti appesa troppo in alto.

Posò dinanzi a sé un revolver a canna lunga, lucido e pesante, che sembrava un cannone.

‑Lei non si accorda nessuna possibilità, con un’arma simile, sorrise il conduttore.

‑Quest’arma è molto originale, infatti, mio caro Rossetti. Sa perché?

‑Perché?, chiese interessato il conduttore.

‑Per una ragione che lei sembra non immaginare nemmeno. Gliela dico in un orecchio.

‑Ma no, la dica a voce alta, anche gli altri vogliono sentire. Sempreché non sia qualcosa d’osceno.

‑Gliela dico all’orecchio, forse potrebbe dispiacere a lei, dirla a voce alta.

‑A me? Ma dica, dica, non si faccia scrupoli!

‑Quest’arma ha una caratteristica che, viste le osservazioni da lei fatte prima, non sembra immaginare: è fatta per uccidere.

Il pubblico sbottò a ridere, e il conduttore non seppe che rispondere.

‑La mia…, balbettò mentre ancora la gente rideva. La mia era un’osservazione… Un’osservazione banale, d’accordo. Ma bisogna pur rompere il ghiaccio. E lei non dice mai niente di banale? Che so, buongiorno, che bella giornata?

‑Oh sì, disse placido il signore. Ma la gente si sente tremare le gambe, al momento di apparire in televisione, perché una banalità, nella vita normale, non la nota nessuno, mentre in televisione essa appare per quello che è, una scemenza. E non è giusto che voi possiate dirle, le banalità, per dimostrare quanto siete brillanti, mentre alla gente comune fate fare una figura di merda.

‑È da prendere con le molle, questo, disse Rossetti rivolgen­dosi alla platea e alla telecamera. Ma il pubblico, divertito, fu tenden­zialmente con il candidato suicida.

Risultò dalla conversazione successiva che l’anziano signore si chiamava Leopardi, sì, come il poeta. Del resto era marchigiano di origine. Era un ex‑professore di matematica con l’hobby della filosofia, che si era messo in pensione da sei mesi, e che purtroppo non aveva molto da vivere. Una malattia l’avrebbe ucciso a poco a poco, pur se senza farlo soffrire.

‑È molto triste, riconobbe generosamente Rossetti. Ma una volta o l’altra dobbiamo morire tutti, e lei ha l’aria di pren­derla con filosofia.

‑Ottimo accenno al mio curriculum! Però ha ragione: non me la prendo affatto calda.

‑E allora perché vuole suicidarsi? Lei ama la vita: non sarebbe naturale che cercasse di goderne finché può?

‑Non durerà a lungo.

‑Certo. Ma non è meglio di niente?

Il vecchio fece spallucce:

‑Certo, è meglio di niente. Ma io posso giocarmi questo quasi niente per un nobile scopo.

‑Un suicidio etico, alla Catone l’Uticense? suggerì Rossetti, chiedendosi se il pubblico avrebbe capito.

‑Ma come parla bene lei! esclamò sarcastico Leopardi. Il pubblico scoppiò in una risata e Rossetti cominciò a desiderare che l’uomo si togliesse di mezzo, in un modo o nell’altro.

‑No, non si tratta di un suicidio etico. Sono venuto qui per la derattizza­zione.

‑Con un pistolone di quel genere? E poi, dove li ha visti i ratti? domandò, dando uno sguardo alla platea, con l’aria di dire “Questo è pazzo”. Poi guardò l’orologio, per vedere quanto si era vicini alla fine del quarto d’ora accordato, ma l’improvviso silenzio che si fece in sala gli fece rialzare gli occhi. Leopardi lo guardava sorridendo e gli puntava in pieno petto la pistola.

‑Ehi, che le prende, metta giù quell’arma!

‑Neanche per idea. E se qualcuno si avvicina a me, sparo, aggiunse dando un’occhiata in giro. Sia chiaro.

‑Ma, ma, ma… annaspava Rossetti, guardando dietro le quinte, da dove i collaboratori gli facevano dei segni disperati, come per dire: che possiamo fare?

‑Il ratto che devo ammazzare è lei.

Rossetti sbiancò, impietrito e il cameraman non si lasciò sfuggire un efficace primo piano.

‑Mi ascolti. Anzi mi ascoltino tutti, per favore, visto che dopo, in carcere, per molto tempo non mi ascolterà nessuno.

Io ho poco da vivere, e pagare con sei mesi o un anno un omicidio è uno sconto notevolissimo. Un affarone. Ma devo spie­garvi perché voglio uccidere questo verme.

La prima ragione, tanto perché non crediate che mi aspetti la vostra approvazione, è che ammazzo lui soltanto perché non posso ammazzare tutti voi. Tutti voi, tutti quelli che ci vedono da casa e tutto il personale della televisione.

Vi siete divertiti, per settimane, a veder cacciar via dei falliti che cercavano aiuto. Vi siete eccitati con l’ansia di sapere se il gladiatore sarebbe soprav­vissuto o sarebbe morto. Vi siete commossi approvando il gesto dello sponsor che con un regalo salvava la vita di un povero nevrotico: e questo vi ridava anche una buona coscienza. Vi siete procurati un’emozione letteraria, da letteratura d’appendice, con il suicidio dell’innamorato sciocco e rompiballe. Insomma avete fatto di questo teatro, e della platea televisiva, qualcosa di peggio del Colosseo al tempo dei Romani. Lì, almeno, al gladiato­re non si chiedeva cosa pensasse e che uomo fosse, prima di mandarlo a morire. Il lanista chiedeva uno spettacolo nel senso latino di cosa cui si assiste con gli occhi, non brandel­li sanguinolenti di anime. Questo lanista qui, invece, prima ha giocato col cuore del prossimo, e ne ha posto in vetrina debolezze e squilibri. Poi ha fatto la mossa ipocrita di cercare di aiutarlo. Infine si è fregato le mani di contentezza se il tizio ci rimet­teva la pelle. Solo di questo, si è preoccupato, di far felice lo sponsor, di fare audience e di avere successo, lui personalmente.

Tutto questo è francamente eccessivo. Qualcuno deve pagare. Mi dispia­ce che a pagare sia un cretino come questo Rossetti, ma un botto ci vuole. Qualcosa che faccia uscire questa oscena trasmissione dalla pagina degli spettacoli e la faccia passare in prima pagi­na. Che ne dite?

Nessuno osò fiatare. Ma Leopardi si fece più benevolo:

‑Suvvia, dite la vostra. Gli sparo?

‑Noooo! tuonò la sala.

‑Va bene, il Rossetti potrebbe essere graziato, chissà. Stia fermo, intanto che ragioniamo.

Ma se graziamo il Rossetti, e se non mi sparo io, che ne sarà dello spettacolo? Se non muore nessuno, che spettacolo è? Che Colosseo è? Ci annoieremo tutti, e questo è intollerabile. Ho un’idea: in fondo, se esiste la televisione, se circolano questi Rossetti, è perché la gente vuole questo tipo di spettacolo. E allora la soluzione è semplice. Ve la dico ma non vi muovete dalle sedie, tanto prima bisogna discuterne. Suggerisco un per­fetto e moralissimo contrappasso, che permetterà di punire questo genere di televisione e di pubblico, salvando per giunta lo spettacolo: sparo a caso nella sala, al primo che si muove per scappare, per esempio. D’accordo?

‑Noooo!, rispose il pubblico.

‑Eh, certo, no! Veder morire qualcuno è uno spettacolo, morire noi stessi è un altro paio di maniche. Vergognatevi. Avvoltoi che non siete altro. Avvoltoi con una buona coscienza: tanto mamma televisione non è cattiva, aiuta anzi chi può. Certo, se poi qualcuno insiste ad ammazzarsi…

La televisione ha reso i sentimenti e le vicende umane argo­menti di telefilm. La realtà è sbiadita e scolorita, rispetto al piccolo schermo. Ciò che non viene mostrato non ha importanza. Sapete perché non ho sparato a Rossetti e non sparerò a nessuno? Perché io sono un uomo normale, ed anzi un non violento. Ma siamo giunti al punto che la non violenza, per farsi ascoltare, deve presentarsi con un pistolone.

Posò l’arma e si diresse verso i due carabinieri che discreta­mente si erano avvicinati al palcoscenico.

 Il pubblico non seppe trattenersi dall’applaudire.

 Gianni Pardo

 

 

SUCCESSONE: IL SUICIDIO IN DIRETTA!ultima modifica: 2012-07-22T13:26:00+02:00da gianni.pardo
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