RACCONTI SCELTI – LA PECORA DAGLI OCCHI AZZURRI

Lo chiamavano tutti Carmelino. Quel diminutivo venato di compassione gli era stato attribuito per affetto da sua madre, povera donna, quando ancora era un bambino bianchiccio e mingherlino. Anche per i compagni di gioco era stato Carmelino, ma più per irrisione che per simpatia e a volte anzi con la perfidia con cui il cacciatore dice al coniglio “Vieni qui, piccolo mio, vieni, ché ti faccio la festa!”Passarono gli anni. Carmelino si laureò, vinse un concorso presso l’Amministrazione Finanziaria della cittadina e i parenti gli trovarono anche una moglie. Divenne il dottor Giuffrida, dell’Ufficio Contenzioso. Un uomo cortese, competente, disponibile, ma maledettamente onesto: tanto che nella cittadina il disprezzo con cui era sempre stato considerato a poco a poco si mutò in odio. Avveniva che la Guardia di Finanza elevava una contravvenzione milionaria ad un commerciante o ad un imprenditore, costui faceva ricorso, andava a trovare il funzionario competente, ed il funzionario competente era nientemeno che il dottor Giuffrida. Naturalmente, nei primi tempi, tutti avevano gioito della circostanza: era un amico d’infanzia, un uomo buono, un fessacchiotto, per dirla tutta, e non ci sarebbero stati problemi. Invece Carmelino, che pure rimaneva gentile, che pure esprimeva con i suoi occhi azzurri tutto il dispiacere possibile di non potere aiutare un amico, confermava la contravvenzione, la multa, il disastro. Da ragazzo qualcuno aveva detto di lui: “Da quando lo conosco so che anche le pecore possono avere gli occhi azzurri”, ma ora fece il giro della città un’altra battuta: “ È una pecora con gli occhi azzurri e i denti di Dracula”

Il suo lavoro gli fece il vuoto intorno. Teneva la propria dichiarazione dei redditi sulla scrivania e cercava di spiegare a tutti che anche lui pagava le tasse – anzi ne pagava troppe – ma non gli perdonavano lo stesso. “Anche se lui è tanto fesso da pagare tutto il dovuto, non vedo perché dovrei essere fesso anch’io”. Poteva anche provare che non aveva mai fatto distinzioni, che aveva trattato con uguale severità amici e nemici, ricchi e poveri, parenti ed estranei, ma questo conduceva a conclusioni spietate: “Significa che non sa che cos’è l’amicizia. È uno che non sa vivere”. E questo era vero. Non aveva accettato neanche le raccomandazioni dei suoi superiori e questi, pure additandolo pubblicamente all’ammirazione di tutti, gli avevano impedito di fare carriera. Rimase in aeternum il dottor Giuffrida dell’Ufficio Contenzioso, terzo piano, stanza quattordici. Finché un ictus secco lo colpì mentre era al lavoro e liberò la città della sua presenza.

Giunse dinanzi all’Ufficio Matricola Paradisiaca senza nemmeno rendersi conto di essere morto. Tutto era stato troppo rapido e non aveva avuto il tempo di prepararsi. Ma presto si tranquillizzò: non aveva nulla da rimproverarsi. Anzi, da credente aveva sempre pensato che almeno in Paradiso ci sarebbe stata giustizia e i veri meriti sarebbero stati premiati. “I miti erediteranno la Terra!” Certo, avrebbe preferito vivere un po’ più a lungo. Avere magari il tempo di fare testamento e dire addio a sua moglie, che dopo tutto non era stata una cattiva compagna, ma visto che era andata così, non aveva che da gioire: il tempo delle vacche magre era finito.

-Carmelino!

Chi lo chiamava era un signore panciuto, dall’aria vagamente familiare ma tutt’altro che amichevole.

-Carmelino! Gran figlio di puttana! Non ti ricordi di me? Sono Musotto.

-No, e spero anzi di non avere mai avuto a che fare con lei. Lei è uno screanzato.

-Uno screanzato, nevvero? Sei impagabile! Ma lo sai che mi sono suicidato per causa tua? E allora, non sei peggio di uno screanzato, tu?

Sgomitò per venirgli accanto, travolgendo un paio di persone, e lo prese per il bavero:

-Se non fossi già morto ti ammazzerei io, con queste mani, gran figlio di puttana!

L’aggredito per la prima volta si risentì. Chiunque fosse costui, era sicuro di non avere danneggiato volontariamente nessuno. E se fino a qualche ora prima avrebbe chiesto scusa e si sarebbe informato di com’era andata, pensò che ora, nell’altra vita, non aveva più il dovere di seguire le regole di un mondo in cui i miti devono cedere ai violenti. Perciò gli sibilò:

-Se non mi toglie le mani di dosso le rompo il muso.

-Tu, mi rompi il muso? chiese l’altro, e si piegò in avanti per il gran ridere. Il risultato fu che il montante che gli scaricò sul naso il dottor Giuffrida lo mandò a gambe levate.

-Ah, ma allora fai sul serio! ruggì Musotto. E partì al contrattacco.

Il tafferuglio che seguì turbò le operazioni dell’Ufficio Matricola al punto che San Pietro s’innervosì e quando l’angelo di guardia gli riferì che si azzuffavano Musotto, quello che si era suicidato, e quel rompiscatole di Carmelino, per liberarsene decretò su due piedi: “Mandali ambedue all’inferno”. Fu così che quel galantuomo del dottor Giuffrida, che in vita sua non aveva mai fatto male a nessuno, e che da morto aveva solo esercitato, per la prima volta, il diritto alla legittima difesa, si ritrovò all’inferno.

L’inferno fu una grande delusione. Non perché ci si soffriva, ché anzi questo era l’unica cosa che andava secondo le previsioni. Era una delusione ritrovarcisi dopo un’intera vita condotta nella più stretta alleanza con l’altro partito, quello del disinteresse, dell’onestà cristallina, della virtù. Non si aspettava che lo facessero santo, non era mai stato un ambizioso, Carmelino: ma che lo mettessero con i reietti, senza neppure esaminare il suo caso, essendo trattato da rompiscatole anche lì dove l’essere rompiscatole può condurre alla santità, questo era troppo. Fu per questo che, per la prima volta, s’incattivì. E cominciò col dare un pugno in faccia, senza avvertire, al primo che lo chiamò Carmelino. “Per te sono il dottor Giuffrida, chiaro? O vuoi che lo spieghi con un altro pugno?” Non fu necessario. I suoi occhi fiammeggiavano talmente che l’altro pensò che, oltre ad essere dannato, era anche pazzo.

Da quel momento, senza avere neanche fatto un piano, così, per pura malvagità, cominciò con aria distratta a seminare dubbi fra i concittadini che gli capitava d’incontrare. Gli chiedevano come mai fosse finito all’inferno, proprio lui che era sempre stato tanto onesto, e lui si metteva a sogghignare. “Io, onesto? Ma non mi fate ridere!” E inventava le cose più turpi. All’uno rivelava che Panvini, quello delle scarpe, l’aveva fatto fallire apposta, non riconoscendogli il pagamento di una tassa di cui lui solo aveva avuto in mano la ricevuta. Ricevuta che aveva distrutta. Il barone Savelli, al contrario, era stato sgravato di una multa miliardaria non perché avesse ragione, come aveva millantato, ma perché su sua raccomandazione aveva fatto assumere al comune Pippo Mantelli. “Pippo Mantelli l’hai fatto assumere tu?”, chiedeva sbalordito l’altro. E la risposta era facile: “Perché, secondo te, quel fesso di Mantelli meritava il posto che ha avuto?” E poiché tutti siamo disposti a credere che gli altri hanno successo più per via di corruzione che per il proprio valore, cominciò a girare la voce che quel figlio di puttana di Giuffrida aveva avuto le mani in pasta in tutto. I suoi occhi azzurri cominciarono ad essere visti in altro modo. Non erano più gli occhi di una pecora ma quelli d’acciaio bluastro dell’assassino a sangue freddo. Carmelino, pensavano ora tutti, era stato un dissimulatore formidabile, uno che aveva tenuto in pugno la città, col ricatto e la corruzione, mentre affettava un’umiltà e una correttezza da Tartufo. Faceva impressione perfino all’inferno.

Nel frattempo imparava parecchio sulla psicologia del prossimo. Scopriva quanto sia facile recitare una parte, una volta che il personaggio sia stato accettato. Ora gli attribuivano malefatte cui egli non aveva nemmeno pensato e lui certo non le smentiva: sorrideva con l’aria d’intesa del Don Giovanni cui sono accreditate avventure con donne sposate che, da gentiluomo, non può né smentire né confermare. Prese addirittura a trattare con sufficienza i diavoli, i quali lo rispettavano come uno che ne sapeva più di loro. Cominciò insomma una nuova vita e approfittò del suo potere per intrigare, per raccomandare questo e per far soffrire ancora di più quell’altro, per dare consigli perversi ed efficaci a tutti, fino a divenire una sorta di Grande Vecchio dell’inferno, come era stato – a quanto credevano tutti – una sorta di Grande Vecchio della sua città.

La posizione di capo è comoda in tutte le situazioni. È comoda in ospedale e in galera, in guerra e in pace, in Terra e in Cielo. Gli altri erano condannati senza condizioni, lui cominciò ad ottenere qualche vantaggio speciale, un’uscitina fuori dalla porta, qualche libro da leggere, informazioni su qualche conoscente e anche il regolamento dei Diavoli, per curiosità. Era sempre stato un secchione: molto presto conobbe quel testo meglio degli stessi demoni e prese a ricattarli. Se non mi fai questo favore rivelo all’Arcidiavolo Capo che hai fatto questo e quest’altro. E dopo che li aveva ricattati per una marachella, li ricattava perché lo avevano favorito, malefatta ancor più grave. Era più malvagio di loro. Ma proprio per questo incrementava il suo potere. Arrivò perfino a cavarsi il capriccio di farsi portare – benché ai poveri diavoli cui l’aveva richiesto la cosa fosse costata infinite difficoltà – il regolamento del Paradiso. E quest’ultimo studio, portato a termine col solito scrupolo, gli diede un’idea.

Chiese udienza all’Arcidiavolo Capo e gli domandò se sapeva a quali conseguenze si sarebbe esposto se avesse tenuto lì qualcuno che era destinato al Paradiso. L’Arcidiavolo da prima rise e disse che cose del genere nella sua Sezione non si erano mai verificate; poi, quando Carmelino gli chiese di esibirgli la sua condanna all’inferno, cambiò atteggiamento. Scoprì infatti che il documento mancava. Carmelino era stato mandato lì non con una condanna, ma con uno scarabocchio su un pezzo di carta, che San Pietro aveva firmato per toglierselo di torno. Era un’irregolarità gravissima.

-Ma non tocca mica a me, controllare la regolarità delle condanne! Tocca ai funzionari della Matricola Infernale, protestò l’Arcidiavolo. Pensava di deviare verso qualcun altro la grana.

-Giusto, gli rispose sereno il dottor Giuffrida. Ma chi ne ha nominato il capo? Chi risponde del loro operato? E siamo sicuri che sia la prima volta? Le conviene che venga fatta una verifica in tutti i registri della sua Sezione?

Non gli conveniva affatto. Fu dunque lieto di vedere che Carmelino chiedeva soltanto una libera uscita per andare a ripresentarsi alla Matricola Paradisiaca. Tanto, spiegava l’interessato, se ho ragione, non torno più e nessuno ne sa niente, se mi condannano torno con regolare sentenza e tutto rientra nell’ordine. L’Arcidiavolo non cercò neppure lo stampato: gli scrisse di suo pugno l’autorizzazione ad uscire e l’accompagnò fino alla porta.

Nel fare la fila, Giuffrida si accorse di non essere più lo stesso di un anno prima. Guardava gli altri dall’alto in basso, non dava confidenza a nessuno, e quando un viso conosciuto lo salutò con un cordiale “Ciao, Carmelino!”, gli rispose con un gelido: “Buongiorno”.

Giunto dinanzi all’angelo usciere sillabò:

-Io devo parlare con San Pietro.

-Sua Eccellenza non ha tempo. Può dire a me.

-No che non dico a lei, rispose il dottor Giuffrida, con tono secco ed aggressivo. Mi faccia parlare con San Pietro in base all’art.79 del Regolamento.

-L’articolo 79?

-L’articolo 79, appunto, e se non lo conosce non starò a spiegarglielo. Vada ad annunciarmi.

E poiché l’angelo lo guardò perplesso per un paio di secondi aggiunse, sibilando: “Subito”.

-Allora, che abbiamo di così importante? domandò San Pietro, seccato.

-Abbiamo che siete nei guai, voi dell’Ufficio Matricola.

Spiegò tutto quello che era successo e concluse che s’era fatto un anno d’inferno senza averlo meritato.

-Senza averlo meritato? s’irritò il Santo. Lo vuole decidere lei, se lo ha meritato o no?

-Infatti, non intendo deciderlo. Ma non può deciderlo neanche lei.

-Ma come si permette, vuole anche insegnarmi il mio mestiere? Qui il giudice sono io. E basta. Fra l’altro, lei è così presuntuoso che, a naso, penso meriti proprio l’inferno.

-Chiacchiere inutili. Io ho diritto al Paradiso ai sensi dell’art.28 dell’Appendice, risarcimento errori, ma soprattutto ai sensi dell’art.51 del Testo Unico, secondo comma, errori insanabili. Dovrebbe saperlo, che l’avermi mandato all’inferno senza regolare condanna costituisce errore insanabile. Dunque anche se Lei, che dice di essere il giudice ma mi pare più presuntuoso di me, mi volesse mandare all’inferno, non ha più il diritto di giudicarmi. Deve aprirmi la porta del paradiso, e presto. Prima che mi arrabbi e mi metta a rapporto.

-È pazzo? chiese Pietro, a questo punto più stupito che offeso.

-No, io sono una persona bene informata e lei no. Lei non ha idea dei guai cui può andare incontro, avendomi fatto fare un anno d’inferno. Quanto tempo è che non legge il Regolamento?

-Io lo conosco a memoria, il Regolamento!

-Lei non conosce un tubo, è incompetente e presuntuoso, gli gridò Carmelino, mentre il Santo lo guardava smarrito. Ma prima che potesse reagire l’altro insistette: Prima di sparare altre stupidaggini, legga il Regolamento, ne ho una copia io. Qui.

-Se solo non ha ragione al cento per cento io la mando all’inferno per l’eternità, gli promise San Pietro, furente: e senza ulteriore giudizio, chiaro? mi basta il suo comportamento oggi, qui! Che screanzato!

-Legga, legga, lo invitò serafico Carmelino, e la smetta di minacciare. Lei è come tutti gli sciocchi: più avete torto, più sbattete il pugno sul tavolo.

Qualche minuto dopo, accompagnandolo alla Porta, il santo non si trattenne dal dirgli:

-Sicché ha vinto Lei. Però, francamente, fa male al cuore vedere andare in Paradiso, per un cavillo, un uomo malvagio come lei.

-A me un anno fa ha fatto ancora più male al cuore vedere andare all’inferno un galantuomo come me.

Gianni Pardo

RACCONTI SCELTI – LA PECORA DAGLI OCCHI AZZURRIultima modifica: 2012-07-22T16:05:00+02:00da gianni.pardo
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