IL C.T.U.

 

– A’ Corrà, gli gridò da cinquanta metri Hamid, il marocchino che aveva imparato l’italiano a Roma, te cercano!

Chi lo cercava era un uomo alto, con giacca, cappotto, occhiali cerchiati d’oro, borsa portadocumenti e ombrello. Un dirigente di banca in divisa, pensò Corrado.

– Il dottor Corrado Pesenti? chiese il signore.

– Il professor Corrado Pesenti, rise l’interpellato. Ma, come ha visto, mi chiamano tutti Corrado.

– Sono il dottor Melato. Dolente di disturbarla, ma sono stato incaricato dal Tribunale del suo caso. Lei non ha risposto alla mia lettera.

Corrado si alzò, operazione non del tutto facile, per chi sta seduto per terra, e gli fece un inchino.

– Piacere di conoscerla, e non sia dolente, qualunque cosa debba dirmi. Perché la mia risposta è già preparata: me ne frego! L’inviterei a sedere ma, su questo lato del fiume, non c’è neanche una buona pietra.

– Se lei fosse venuto nel mio studio, si lagnò il dottor Melato, avremmo avuto due poltrone. Lei non ha risposto alla mia lettera…

– Ma la smetta, di parlare di lettere! Come vuole che le riceva? Dovrebbe scrivere per indirizzo “spesso sotto il ponte della Concordia”: pensa che il postino mi troverebbe? Venga con me.

E senza ulteriori commenti si avviò verso il marocchino, seguito dal dottor Melato, che non sapeva che pesci prendere.

– Hamid, abbiamo un ospite. Che cos’hai in dispensa?

– Birra, chinotto e aranciata.

– Che cosa le offro?

– Beh, veramente, potremmo andare a sederci in un bar, appunto. Non vorrei approfittare della sua cortesia.

– Non mi faccia ridere. Do da bere ad Hamid, ai suoi amici, a volte a perfetti sconosciuti, e non dovrei offrire qualcosa a chi viene a trovarmi, e che s’è anche messo la cravatta, in onore mio?

– Beh, non vorrei contrariarla. Berrei un’aranciata. Ma non abbiamo neanche un bicchiere, qui.

– Faccia finta di avere vent’anni e accetti la lattina. Grazie, Hamid. Stai attento a tenere il conto, eh?

– Certo! Se no, secondo la Sharia, tu mi tagli una mano, sorrise il maghrebino. Ne posso bere una anch’io?

– Ci mancherebbe che non fossi invitato! Ciao.

Poco dopo, seduto su una panchina pubblica, godendosi i raggi di un sole che non riusciva ancora a vincere il fresco della notte, Corrado sorrise ancora una volta a Melato.

– E allora, che succede, in banca?

– In banca? si stupì il dottore. Non capisco. Che vuole che ne sappia, della sua banca?

– Lei non viene per conto della banca? Ah già, ha parlato di Tribunale. Comunque, mi dica, che cosa posso fare, per lei?

Il dottor Melato prese un’aria professionale e infelice:

– Sono uno psichiatra. Il Tribunale mi ha incaricato, su ricorso di sua sorella, di avere un colloquio con lei.

– Un colloquio? Vediamo un po’, mettiamo insieme i cocci. Lei è uno psichiatra mandato dal Tribunale per un colloquio con me. E io traduco: mi sorella sostiene che sono pazzo e lei è venuto a vedere se è vero.

Il medico si aggiustò accuratamente i lembi del cappotto sulle ginocchia:

– Ci sono modi meno brutali di dirlo. E poi “pazzo” non è un termine tecnico.

– Eh già, il termine tecnico è paranoico, schizofrenico, idiota e, quando uno è del tutto normale, nevrotico. Dico bene?

– Se me lo consente, le vorrei chiedere di non essere ostile, con me. Non è nel suo interesse e, sempre se lei me lo consente, vorrei solo fare il mio lavoro.

– Ha ragione. Non rispetto il Tribunale, non rispetto la psichiatria, non rispetto nemmeno il lavoro, ma rispetto l’essere umano. Per questo le ho offerto un’aranciata. Ora le offro anche di mettermi sotto il vetrino del suo microscopio. Cominciamo con la mia anamnesi. Da bambino…

– Ma io non gliel’ho chiesta!

– Scriva, scriva, se no dovrà procurarsela da altre fonti e perderà più tempo.

Gli raccontò le sue malattie, il suo corso di studi, il suo primo matrimonio, la morte in un incidente del suo unico figlio, come fosse poi diventato ricco con quell’invenzione e come, infine, dopo il divorzio dalla seconda moglie, avesse scelto di vivere da barbone. Aggiunse che era perfettamente orientato nel tempo e nello spazio, potevano anche giocare agli indovinelli in storia e geografia, se il dottore amava questi passatempi. Ma il medico rifiutò dicendo che non metteva in dubbio il suo equilibrio a questi livelli. Le sue perplessità erano altre.

– Sentiamole.

– È inutile che io stia a fare il furbo: lei non è né un idiota, né un cretino né un imbecille. Dunque queste diagnosi sono escluse. Non è un “pazzo” evidente, ma questo non esclude che lei, lo dico senza offesa, non esclude che lei…

– Non esclude che io sia ugualmente malato di mente, capisco. Che cosa potrei essere? Uno schizofrenico, un paranoico? Ma mi scusi, dottore, lei tutto questo lo vuole stabilire prima di aver finito quella lattina d’aranciata?

Il dottor Melato era tutt’altro che a proprio agio. Si grattava a intermittenza il lobo dell’orecchia destra e cambiava troppo spesso posizione:

– Dovrei tenerla sotto osservazione, lo so. Questo è comunque un primo contatto. E tutto è reso più difficile dal fatto che lei maneggia con disinvoltura sia la lingua che i concetti. È uno che conosce le regole del gioco. Con lei lo psicologo perde il vantaggio della sorpresa. Proprio per questo, se me lo consente, rinuncio alla solita metodologia, almeno oggi, e le faccio delle domande dirette. Lei sa che cos’è un paranoico?

– Un poveraccio che crede qualcosa, e ci crede solo lui. Se invece ci credono centinaia di milioni di persone, la cosa rimane lo stesso assurda, ma quell’individuo lo chiamano Papa.

Il dottore rise:

– Non è la definizione che c’è nei libri di psichiatria ma mi basta. E ora seguo la sua definizione. Tutti vorrebbero avere il suo denaro, e questa è un’idea normale. Viceversa nessuno, avendo il suo denaro, vorrebbe vivere da barbone, e questa è l’idea assurda di cui parlava lei stesso. Sbaglio?

– Si rende conto che lei sta facendo coincidere il concetto di salute mentale con quello di comportamento corrente?

– Che c’è di strano?

– C’è di strano che, con questo metro, risultano pazzi Socrate, Giordano Bruno, Galileo e tanti altri dinanzi ai quali io, per quanto mi riguarda, mi levo il cappello. Lei se lo calca in testa?

– Me lo tolgo anch’io, certo. Ma questa gente era più che sana di mente, era geniale. Ora lei non mi vorrà dire che il paranoico che attribuisce tutti i mali del mondo agli ebrei, o alla Cia, o al Papa, o alle multinazionali del petrolio, abbia la stessa dignità intellettuale di Giordano Bruno!

– No certo, disse Corrado, che cominciava seriamente a prendere gusto alla conversazione. Ma questo significa soltanto che lei apprezza le idee di Giordano Bruno e non apprezza le idee del poveraccio che delira sulle multinazionali che impediscono l’avvento del motore ad acqua. E io posso essere d’accordo con lei. Ma si rende conto che, invece di psichiatria, stiamo parlando di filosofia, fisica, economia, politica, storia e tutto il resto? Può anche darsi che abbiamo ragione, anzi io do ragione a lei e lei dà ragione a me: ma tutto questo non è scientifico. Chi ci dà l’autorità per giudicare le idee altrui?

– Mi sembra tuttavia che diciamo cose ovvie.

– Ovvie? Può darsi. Ma non ovvie scientificamente. Lei, scientificamente, non può distinguere le idee filosofiche giuste da quelle sbagliate. Rischia dunque di tornare al metro della normalità corrente, e secondo la normalità corrente Giordano Bruno è un pazzo pericoloso. Casella di partenza.

– La casella di partenza, sospirò il dottore, è che io sono qui per uno scopo preciso, non per rifondare la psichiatria. Mi scusi. Inoltre, il Tribunale non vuole sapere in base a quali sacri principi sono giunto alle mie conclusioni, ma soltanto che impressione m’ha fatto lei. Per questo, sia buono, lasci perdere il concetto di paranoia, o almeno, lo lasci giudicare a me, che intanto le do già fraternamente una buona notizia. Per quanto ho visto fino ad ora, lei non mi sembra schizofrenico.

– Oh che bellezza. Forse non sono neanche un delinquente abituale e per tendenza. E forse non sono neppure un umanoide cibernetico, che fra poco potrebbe scoppiare fra fuoco e fiamme per un corto circuito. Non mi stia troppo vicino.

– La prego!

– E va bene, che cosa vuole che le dica?

– Sia paziente e risponda alle domande che le faccio, anche se le sembrano banali e cretine. Lei ammette di vivere come un barbone?

– Non come, da barbone.

– Bene. La domanda è: perché?

Corrado lo guardò con attenzione. Ci sono domande facili che ammettono risposte facili (“Qual è la capitale della Svezia?”) e domande facili con risposte difficili o impossibili, a meno che uno non se la cavi con una battuta. Perché credo in Dio o non ci credo? Perché ho sposato mia moglie, perché ho divorziato?

Decise di prendere tempo:

– Ovviamente lei si rende conto che, se volessi darle una risposta seria e completa, dovrei parlare a lungo. Per questo vorrei prima essere sicuro che ne valga la pena e faccio un’ipotesi: io le dico tutto e lei conclude “Questo è pazzo”, lo scrive nella sua relazione e buonanotte. Bene, è normale. Ora invece facciamo l’ipotesi che io le spieghi perché vivo come vivo e lei concluda: “Ma sai che quest’uomo ragiona in maniera mirabile? Diogene non avrebbe detto meglio”. A questo punto che fa, conclude lo stesso “Questo è pazzo, perché vive da barbone”? Perché in questo caso non mi strapazzerei a parlare con lei di tutto questo. Non è che voglia mandarla via ma non parleremmo degli affari miei.

– Lei vuole che io distingua fra il poveraccio che ce l’ha con le multinazionali e Socrate.

– Per l’appunto.

– Sa qual è la mia difficoltà? È quella di farmi capire dal giudice. Dovendo fare una relazione su Diogene correrei il rischio di sentirmi dire: “Belle parole, belle idee, bravo, ma lei mi gabella per normale, anzi per geniale, uno che vive in una botte?” Invece di giudicare normale Diogene, giudicherebbe un incompetente me.

– Andiamo bene. Le posso dare un consiglio, dottor…

– Melato.

– Scriva che non mi ha trovato ed io intanto l’invito a pranzo. Non sotto i ponti: c’è un buon ristorante, qui vicino, dove mi conoscono e mi lasciano entrare. Si mangia bene.

– Grazie per l’invito. Ma sono solo le undici e mezzo. E poi se scrivo che non l’ho trovata questa cosa andrà avanti, dovrò far finta di cercarla ancora. Vediamo di uscircene.

– Ma come, con lei che scrive comunque che sono pazzo?

Il dottore riprese a grattarsi l’orecchia destra, infine si rassegnò.

– D’accordo, rischierò di passare per pazzo anch’io. Un momento, sempre che quello che lei mi racconterà penda dal lato di Socrate piuttosto che da quello del manicomio. Mi sto solo impegnando ad essere onesto nelle mie conclusioni.

– Accetto il suo impegno. Dunque, perché sono divenuto un barbone? La prima risposta è “Perché fare l’imperatore della Cina era troppo faticoso”. Ma questa è una risposta da pazzi, giusto? E allora mi spiego.

L’imperatore della Cina, buonanima, non frequentava chi voleva, ma chi doveva frequentare. Non faceva quello che voleva, ma quello che doveva fare. Non mangiava quello che voleva, ma quello che gli concedevano i suoi medici. Non sposava chi voleva ma chi era utile per la dinastia e per i giochi politici di corte. Non era un uomo libero. Che vita, la sua! Ma questa affermazione vale solo per lui? Certo che no. Qualunque persona importante ha dei doveri imprescindibili, proprio perché occupa quella posizione. Il politico non può esimersi dall’ascoltare discorsi noiosi, partecipare a cerimonie noiose, avere a che fare con persone disoneste, tramare contro altri e difendersi dalle trame degli altri, e via di seguito. Che vita, la sua! Ma scendiamo ancora, scendiamo al piccolo borghese. Anche lui ha l’orario d’ufficio, i vicini rumorosi, la dichiarazione dei redditi, l’automobile col solito guasto misterioso, l’assemblea di condominio, il figlio che ha cattive compagnie, la moglie inacidita, e una macchia nel soffitto della camera da letto. Che vita, la sua!

– Non esageriamo, intervenne il dottore, non tutte le mogli sono inacidite, non tutti i figli sono dei poco di buono. Lei ha solo detto che tutti abbiamo piccole noie.

– Piccole?

– Va bene, tutti abbiamo delle noie. È la vita.

– C’est la vie, certo. Ma se l’imperatore della Cina ad un certo momento dicesse, come Carlo V: amici, ne ho abbastanza. Continuate senza di me. Mi rifiuto di vedere gente che non mi è simpatica, mi rifiuto di giocare il gioco, dico no a tutto, mando al diavolo anche la macchia d’umidità sul soffitto della camera da letto, a costo di rinunciare ad avere una camera da letto. Basta!

– E si trasforma in un barbone. Ma si rende conto di quante comodità non ha, chi vive da barbone?

– Vive male, certo, il servizio militare al confronto è una vacanza. Ma questo è il punto: si tratta di scegliere una vita comoda con molte piccole o grandi catene, e una vita scomoda ma libera. Ricorda la favola della Principessa sul pisello?

– Quella che non aveva sopportato un pisello sotto parecchi materassi?

– La Principessa si rivelava tale perché abituata alla massima comodità. Io mi rivelo imperatore della Cina nel momento in cui la macchia d’umidità sul soffitto, che mi costringe a parlare col vicino del piano di sopra, mi è del tutto insopportabile. E preferisco dormire su una panchina pubblica che sotto quella macchia. Da barbone non ho più doveri di nessun genere. Hamid è un bravo ragazzo e mi è grato per quello che gli vado regalando, ma se mi desse fastidio mi basterebbe spostarmi in un altro giardino pubblico. Non solo non sono obbligato a parlare con Hamid, ma neanche col sindaco o col Premio Nobel in visita alla mia università. Se voglio proprio incontrarlo faccio una doccia, compro un abito da cerimonia, l’incontro, poi butto l’abito da cerimonia nell’immondizia e mi rivesto da barbone. La mia panca mi aspetta, nel parco, e gli altri barboni me la conservano libera. Non mi occupo di nulla. Dormo una media di tredici ore al giorno. Mi diverto a leggere, come giornali, quelli che la gente abbandona nei cestini della spazzatura. Sono libero come l’aria, la mia libertà è totale anche perché, ci badi, sono anche libero di non essere barbone, se lo desidero. L’ho invitata al ristorante e rinnovo l’invito: non solo me lo posso permettere, ma lo stesso proprietario sa che, se lo volessi, potrei comprare il suo intero ristorante con una semplice firma sotto un assegno. Neanche Caligola, con la sua libertà di schizofrenico, è stato libero quanto me. Ecco perché sono un barbone. Un barbone con la marcia indietro. Uno che, se il freddo esagera, come due anni fa, invece di morire, come qualche collega, va in un buon albergo, per due o tre notti. Che gliene pare?

– Confesso che lei mi dà la vertigine. Parla come un acrobata che passeggia sulla corda ed insiste a dire che è facile, che è naturale, che sono sciocco a non seguirlo. Io so che se solo cercassi di fare un metro, su quella corda, cadrei e mi romperei il naso.

-Dovrebbe adattarsi. Dovrebbe imparare. Ma imparare si può. Nihil humanum a me alienum…

– Non parli in latino.

– Non c’è niente di umano che io reputi alieno da me, ha scritto Terenzio. Se un altro l’ha fatto, anch’io potrei farlo.

– Ma tutto questo che cos’ha a che vedere col fatto che lei, miliardario, ha fatto un testamento in cui non lascia uno spillo a sua sorella e ai suoi nipoti?

– Questa è tutt’altra storia. E mi secca parlarne. Le dirò, in sintesi, che questa gente è interessata ai miei soldi, non a me. Io ho detto loro che li capisco: infatti anch’io sono interessato ai miei soldi, non a loro. E dunque che vadano al diavolo!

– Ma lei è generoso con Hamid e con i colleghi barboni, il suo è il testamento di un filantropo, centinaia di studenti meritevoli beneficeranno della sua generosità, e lei non vuol dar nulla ai suoi nipoti?

– Sono perfettamente logico e coerente. Lei stesso ha parlato di “studenti meritevoli”, cioè intelligenti. I miei nipoti non hanno avuto nemmeno l’intelligenza di nascondere la loro avidità. Per loro ero come un limone da spremere, un limone che non potevano amare perché era restio ad essere usato e gettato via. Non sono meritevoli, neanche come furbastri.

– Ma hanno vincoli di sangue, con lei.

– Dolente, i vincoli di sangue sono cose da selvaggi e io non mi riconosco in nessuna tribù. Quando ad Einstein chiesero di scrivere, nella scheda d’immigrazione, la sua razza, scrisse “umana”. La penso come lui. Nella scheda alla voce famiglia scrivo “nulla”, come per i segni particolari. E poi, dottore, non sono loro che l’hanno mandata qui perché scriva che sono pazzo? E questo affinché mi possano espropriare del mio denaro? Dovrei beneficare questa gente? Sono stupidi. Se non fossi sano di mente, se avessi qualcosa da temere, pur di non dare niente a questi avvoltoi apprendisti, sposterei tutti i miei averi in un paradiso fiscale del Pacifico. Lo sa che la mia ricchezza è puramente finanziaria?

– Sì.

– Cioè io e il mio denaro possiamo emigrare da un momento all’altro. Se solo un politico presentasse un disegno di legge per limitare la circolazione dei capitali io andrei via da questo paese nel giro di una settimana. Allora, andiamo a mangiare?

– Nel suo ristorante?

Corrado rise:

– Non l’ho ancora comprato! E non intendo farlo. Non voglio possedere nulla che mi obblighi ad avere a che fare col prossimo. Come prossimo mi basta il direttore della banca, che è un amico d’infanzia. Suvvia, andiamo a mangiare. Anche i pazzi hanno fame, dopo mezzogiorno.

Il dottore si alzò e gli sorrise:

– Qui i pazzi siamo due. O almeno, questo è quello che penserà il Tribunale.

Gianni Pardo

IL C.T.U.ultima modifica: 2012-07-22T15:58:00+02:00da gianni.pardo
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