DIOGENE E ALESSANDRO

 

Alessandro si chiedeva se fosse il momento giusto, per andare a trovare Diogene. Dicevano che fosse d’umore particolar­mente nero, in quei giorni; che fosse scontroso più del solito e che fosse imprudente andargli a parlare. Matto com’era c’era il rischio di riceverne degli insulti: e lui non poteva permetterselo. Se avesse fatto finta di nulla sarebbe stato come se avesse autorizzato la gente a non prenderlo sul serio; se l’avesse fatto frustare od uccidere, la cosa gli avrebbe fatto cattiva pubblicità. Diogene infatti era conosciuto da tutti ed era considerato un genio straordinario. Certo, molti pensavano anche che fosse pazzo, ma restava un pazzo simpatico. Un’attrazione che la città avrebbe perso molto malvolentieri. Quando diede un’occhiata alla sua agenda fu però costretto a mettere da parte gli indugi: quello era l’unico giorno possibi­le e non gli rimaneva che incamminarsi.

Giunto dal filosofo, tanto per essere gentile, così come avrebbe potuto chiedergli come stesse, gli chiese cosa potesse fare per lui. E mentalmente si domandò se non dovesse aggiungere che poteva dargli una casa, denaro, una carica, qualunque cosa. Si trattenne tuttavia per paura che il vecchio prendesse tutto questo per una sorta di vanteria. “Tanto sa bene chi sono”, pensava. Ma il filosofo lo guardò con indifferenza e gli diede quella risposta che è rimasta famosa nei secoli: “Spostati dal mio sole”.

– Bene, disse Alessandro. Mi hai chiesto di spostarmi ed io mi sposto. Ovviamente non c’è altro che io possa fare per te.

– Ovviamente no, sorrise Diogene, che sperava di urtarlo un po’.

– Però, soggiunse il condottiero, non è detto che tu non possa fare qualcosa per me.

Congedò il seguito sventolando una mano annoiata e poi, con l’agilità dei suoi giovani anni, si sedette per terra incrociando le caviglie:

– Ti devo chiedere una cosa.

 Il filosofo prima si stupì, poi si preoccupò e infine si affrettò ad avvertirlo:

– Io non possiedo nulla, non so nulla e non sono capace di fare nulla.

– Però mi hanno detto che sei un saggio. Un uomo dalla mente e dalla cultura superiore. Puoi negarlo?

– Mah! Chi mai è creduto, quando respinge un complimento ben fatto? Dai del saggio ad un saggio, dai del saggio ad un imbecille, ambedue ti crederanno. Comunque ti avverto che non do lezioni private. Né a pagamento né per l’onore di succedere nella carica ad Aristotele.

Alessandro rise:

– Non ti chiedo lezioni private e fra l’altro credo di aver già superato l’esame della vita. No. Vorrei solo che mi dicessi se ti senti coerente.

– Io? Coerente? si rabbuiò Diogene. Nientemeno mi chiedi se sono coerente mentre vivo in una giara, praticamente d’elemosi­na, mentre ho un solo mantello e recentemente ho anche rotto la mia unica ciotola perché ho scoperto che si può bere nel cavo della mano. Che altro dovrei fare, secondo te? Andare in giro nudo?

– Non ti riscaldare, rispose conciliante il Macedone. Non intendo provocarti e parlo in tutta serietà. Dicono che per te ricchezze, onori, comodità eccetera sono solo vanità e contano solo la virtù e il ritorno alla natura. È esatto?

– C’è molto più di questo, ma per il momento rispondo di sì.

– Se la virtù è per te il valore supremo, come mai cedi alla vanità di esibirla dalla mattina alla sera abitando nel centro della città? È coerente, questo? In secondo luogo: tu disprezzi gli agi e la ricchezza, ma se nella stessa città non ci fosse qualcuno che produce abbastanza cibo da nutrire anche te, come faresti? Sono la benevolenza e la ricchezza dei tuoi concittadini che ti permettono di rifiutare il mio aiuto. È coerente, questo? Ma ammet­tiamo che tu non lavori e ti esibisci per dare l’esempio di quanto sostieni in tema di filosofia: bene. Allora come mai ti preoccupi di dirmi che non dai lezioni private, se la tua stessa presenza in questa piazza vuole essere una lezione per tutti? È coerente, questo? E ancora, ammettiamo che…

– Basta! gridò quasi il filosofo. Come vuoi che risponda alle tue obbiezioni se me ne fai una decina? Chi se la ricorda la prima, quando si è arrivati alla decima? Fra l’altro m’è anche venuta fame. Vuoi un paio di castagne? Non ho altro.

– Grazie, no.

– C’è del vero, in quello che dici, riprese Diogene; e comin­ciò a sbucciare, con le sue unghie orlate di nero, una casta­gna particolarmente grossa.

– Io sono combattuto fra il desiderio di far comprendere a tutti la vanità della vita e l’amore della vita stessa. Infatti se fossi coerente fino in fondo, visto che non attribuisco un grande valore all’esistenza, dovrei uccidermi per togliermi dal fastidio di procurarmi da mangiare e da dormi­re. Se invece fossi coerente nell’altra direzione, nella direzio­ne dell’amore della vita, dovrei concedere di più alle comodità, e magari lavorare per procurarmele. Insomma sto in questa piazza come un cartello che dica a tutti: riflettete e fate un passo verso la saggezza, magari solo un passo, visto che tutta la strada nessuno riesce a percorrerla.

– Se ammetti di volerti porre come esempio, come argomento di riflessione, come mai poi ti precipiti a dirmi che non dai lezio­ni private?

Diogene sorrise, finalmente sereno.

– Una volta che ho deciso di posare lo scudo, posso dirti tutta la verità: insegnare mi annoia a morte. Mi piace che gli altri mi rubino i pensieri, i consigli, quel po’ di cultura che potrebbe capitarmi d’avere. Mi piace insegnare senza averne l’aria, per esempio a gente che, come te, è capace di sedersi per terra con tanta eleganza. Invece dare lezioni private mi dà fastidio. Chi paga si accosta alla cultura come il cliente si acco­sta al barbiere: si mette comodo e aspetta che l’altro faccia tutto. Questo è insopportabile. Nell’insegnamento l’unico che viene esaminato è il maestro, non lo scolaro. Se lo scolaro resta un somaro, la colpa è del maestro. Se diviene colto, è un eccel­lente alunno. Il maestro è uno scalino per arrivare agli scaffali alti del sapere, ma non vale più di uno scalino. E allora prefe­risco mandare tutti al diavolo. La cultura non ha bisogno di nessuno, non ha bisogno d’apostolato e, per così dire, meno persone colte ci sono meglio è.

– Vorresti tutti analfabeti?

– Vorrei che pochi pensassero di essere colti. Quando i molti vanno a scuola, quando completano gli studi, pensano d’essere colti. D’avere il diritto di pensare e di parlare. E non è vero.

– No?

– Nessuno s’aspetta d’essere un grande cantante solo perché ha studiato canto, mentre tutti credono d’essere degli intellet­tuali perché hanno fatto qualche anno di studi. Costoro li prefe­rirei analfabeti.

Alessandro, le cui gambe cominciavano ad intorpidirsi, si sdraiò su un fianco:

– Sei perfino più orgoglioso e più pessimista di quanto dicono in giro.

– Non lo sono abbastanza. Se lo fossi al punto giusto, dovrei star zitto, sempre; e non far nulla, mai: solo questo corrisponde a quello che val la pena di dire e a quello che val la pena di fare. Invece dopo giorni di silenzio mi viene voglia di scherzare con un bambino che passa, mi viene voglia di chiedere notizie sulla salute di suo figlio al signore che mi lascia un pezzo di pane, e m’accorgo d’essere disperatamente umano anch’io, io che vorrei essere canino. Ma anche i cani hanno i loro affetti, le loro gioie e le loro tristezze. Dovrei trovare un modello al di sotto dei cani.

– Non potrebbe essere che la tua teoria della virtù, o comun­que la teoria che ti fa vivere come vivi, sia inumana? Se non riesci a seguirla neanche tu…

-A questo non avevo pensato, si stupì Diogene, che dimenticò perfino di mangiare il pezzo di castagna che aveva appena pulito. Io vorrei tornare alla natura, vorrei tornare alla saggezza primitiva, e scopro che la natura dell’uomo è poco saggia. Che l’uomo naturale, chiamiamolo così, ama gli agi, le ricchezze e gli onori. Ora capisco perché mi considerano pazzo: perché le persone normali non solo vogliono una casa, ma la vogliono anche più bella di quella del vicino. Sicché c’è da chiedersi se fra l’amo­re della saggezza e il ritorno alla natura non ci sia contraddi­zione.

– Me lo chiedo e te lo chiedo, lo incalzò Alessandro.

– Lo chiedi a tutti e due ma la risposta la vuoi da me! rise Diogene. Innanzitutto bisognerebbe stabilire se l’uomo primiti­vo, quello che abitava nelle caverne come io abito nella mia giara, ci stesse comodo o no. Chissà che non sognasse una casa moderna, con tutti gli agi delle case moderne?

– E come lo si può stabilire?

– Non si può. La conclusione è che gli altri seguono forse la loro natura vivendo come vivono mentre io, visto che mi piace dormire all’addiaccio o nella mia giara, ritorno alla natura vivendo così. E poi ci sono altri vantaggi: non ho problemi di condominio, non ho problemi di riparazioni, non ho problemi di tasse… insomma guardo gli altri come un ragazzino in vacanza guarda gli adulti che lavorano.

– I quali, sempre seguendo la tua teoria, potrebbero essere vicini alla natura mentre sgobbano per guadagnare, per quegli agi e quelle ricchezze che tu disprezzi.

– Te lo dicevo che non avevo il diritto di insegnare nulla! trionfò Diogene.

– Purtroppo non m’insegni neppure a lasciar perdere questa carriera di conquistatore nella quale mi sono impegnato. Forse il mio ritorno alla natura, il mio ritorno a me stesso consiste nel percorrere spazi sconfinati vincendo battaglie. O magari perden­done una e rimanendo ucciso. Tu nella tua giara ed io sopra il mio Bucefalo siamo due poveracci che vanno dove la vita li manda.

Gianni Pardo, 1994

DIOGENE E ALESSANDROultima modifica: 2012-07-22T15:43:00+02:00da gianni.pardo
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