HAYABAD

 

L’Hayabad non era una grande stato, ma la sua capitale, Haya­bad, conteneva tutto quello che lo straniero si sarebbe aspettato di trovare in uno stato indiano: caldo, vacche sacre e una grande popolazione misera e gentile.

Hayabad era l’India di fine Ottocento. Il Maharajah, Yahwabata, non era né il sovrano illuminato sognato da Voltaire né un bieco tiranno: era soprat­tutto collerico. I suoi collaboratori dovevano sorbirsi ogni giorno una razione di insulti, di grida, di minacce di licenziamento, ma lo temevano fino ad un certo punto e di fatto gli volevano bene. Perché era anche umano: soffriva per ogni condanna a morte e nei casi più pietosi mandava in segreto un emissario a prender­si cura della vedova e dei figlioletti.

Perché in segreto? gli chiese una volta un colonnello inglese. A Londra le signore fanno beneficenza, sì, ma con la massima pubblicità.

-Vorrebbe indurmi a dire che sono così saggio, e umile, e santo, da far del bene e non vantarmene? sorrise ironico il Maharajah. La realtà è del tutto diversa.  Se si sapesse in giro che le fami­glie dei ladri vengono nutrite da me, la gente si metterebbe a rubare.

E rise di gusto.

*#*

Un giorno che Yahwabata stava cercando di risolvere una controversia fra due feudatari, due uomini dispettosi che avevano insanguinato la loro regione, l’addetto alla minuta beneficenza entrò nella sala e gli si prosternò ai piedi:

-Che diamine vuoi? gli chiese il sovrano.

-Un uomo, maestà, un certo Shazir, chiede che voi gli diate da mangiare perché…

-Mi vieni a parlare di un singolo mendicante, cane rognoso? Dovrei prenderti a calci. Come vi dicevo… Sei ancora qui?

-Maestà, viene da parecchi giorni, attende per ore e dice di essere un poeta. Vorrebbe solo un po’ di cibo…

-Come gli altri!

-Sì, ma lui è un poeta, viene tutti i giorni e dice che…

-Uffa, dagli quello che chiede e sparisci. Guai a te se in futuro mi parlerai di simili sciocchezze.

Fu così che Shazir si guadagnò una sorta di pensione vitali­zia. Quando il sole era al colmo del cielo si presentava alla porta del palazzo, riceveva la sua razione, e spariva. Fino al giorno dopo, a mezzogiorno. In quel clima il vestiario non era certo un problema e Shazir non abbisognava d’altro.

Passarono così ventidue anni.

Il Maharajah ora era ingrassato e aveva i dolori reumatici, mentre Shazir, che nulla aveva indotto a stravizi, si era mante­nuto bene, anche se i suoi capelli erano più bianchi che neri.

Un giorno, mentre il monsone infuriava, Shazir apprese con stupore di avere avuto un colpo di fortuna: era morto un suo zio che abitava lontano, nell’Andra Pradesh, e gli aveva lasciato una consistente eredità. Non che così sarebbe diventato ricco, ma certo non avrebbe più avuto bisogno della beneficenza del Maharajah. Per questo non andò più a presentarsi alla solita porta delle cucine ma comprò un vesti­to decente e andò a consegnare una lettera all’ingresso principale della reggia:

 “Sire,

per anni la Magnificenza Vostra mi ha consentito di vivere con lo sguardo fisso alle stelle. Ora che non sono più bisognoso, sarebbe disonesto che approfittassi ancora della generosi­tà della Magnificenza Vostra. Gradisca dunque l’ennesimo ringraziamento del più devoto ed eternamente obbligato dei Suoi sudditi.

Poiché penso che alla mia morte rimarrà qualcosa, sappia la Magnificenza Vostra che, se si degna di accettare l’eredità, potrà disporne come meglio crede.

                                                                                                                                                                                                                                                      Shazir il Poeta”

Il Maharajah trovò la lettera fra le altre e la lesse con stupore. Shazir il Poeta? E chi era costui? E se prima era un poveraccio come si permetteva, ora, di nominarlo erede? Che gli lasciava, il suo bastone di mendicante?

Interrogò i suoi collaboratori ma nessuno sapeva niente di Shazir e il Maharajah ancora una volta andò su tutte le furie:

-Razza d’imbecilli, gridava, è chiaro che costui è vissuto a mie spese. Qualcuno ha largheggiato con le mie tasche, vero? Ma io gli faccio passare la voglia di vivere, al maledetto ladro! Trovatemi questo capitolo di spesa, ci deve pur essere nei registri, no? Beneficenza a destra e a manca, a vostro nome ed a mie spese! Come se non vi conoscessi, sanguisughe che non siete altro! Voglio una relazione entro un’ora.

Ma un’ora non bastò affatto. Una pratica vecchia di ventidue anni non si ritrova facilmente e fu solo a metà pomeriggio che l’elemosiniere si presentò tremando al Maharajah con un mucchio di fogli in mano:

-Maestà…

-Ebbene?

-Maestà, la pratica Shazir…

-Imbecille, parla, smettila di tremare, non ti mangio mica. Siediti. Siediti, ti ho detto! Allora?

Il pover’uomo inghiottì e disse:

-Oltre vent’anni fa l’elemosiniere era Jawarhalal, Vostra Maestà lo ricorderà certo.

-Non sono del tutto rimbambito, se è questo che vuoi dire.

-Maestà!

-Lascia perdere. Allora?

Il nuovo elemosiniere gli ricordò i fatti e aggiunse che né Jawarhalal né lui stesso avevano osato riparlargli della cosa.

-E io ho nutrito questo signor comesichiama per tanto tempo! Dovrei farvi frustare tutti.

-Jawarhalal ha detto che Vostra Maestà non voleva che nessuno Le riparlasse della cosa…

-Jawarhalal è morto e non puoi contraddirti, nevvero? Sono circondato dai ladri! Dai ladri e da quelli che fanno i furbi a spese mie. Comunque, quello che è fatto è fatto. Ma almeno questo tizio ci ha spedito i suoi versi?

-Mai un rigo.

-Che faccia tosta! Ho pagato un poeta di corte e questo non ha prodotto nulla. Portatemelo qui ché gli insegno la buona crean­za.

Fu così che la sera stessa, con un occhio nero e in catene, Shazir fu portato in presenza del Maharajah. Questi come prima cosa fece una lavata di capo al comandante delle guardie:

-Chi l’ha ridotto così?

-Maestà, l’abbiamo soltanto arrestato. E poi Vostra Maestà ha detto che voleva insegnargli la buona creanza.

-Io, gliela debbo insegnare, non tu. Hai perduto una settimana di paga, con questa prodezza. Slegatelo e andatevene. Tutti.

Rimasto solo con l’uomo il Maharajah lo fece sedere e gli fece offrire del tè.

-Sicché tu sei il poeta Shazir. Quello che è vissuto a mie spese per ventidue anni senza che lo sapessi. Di’ un po’, sei un imbroglione o che cosa? Nessuno ha mai sentito parlare delle tue opere.

-Non ne ho scritte, Maestà.

-Ah, non ne hai scritte! E allora perché dici di essere un poeta? Per truffare il prossimo?

-Non lo farei mai.

-E allora, come provi di essere un poeta?

-Maestà, se avessi qui diecimila versi, scritti da me, questo proverebbe che sono un poeta?

-Dipenderebbe dalla qualità dei versi.

-Appunto.

-Appunto cosa?

-Scrivere versi non prova che si è poeti e non scriverne non prova che non lo si è.

-Ridimmela, questa frase.

-Vostra Maestà non ne ha bisogno. Se me lo consente le racconterò come è veramente andata.

Shazir era di buona famiglia – per questo sapeva anche leggere e scrivere – ed era vissuto nell’agio fino a diciassette anni. Poi suo padre era stato assassinato da un folle e in poco tempo il suo fratello maggiore aveva dilapidato l’intero patrimonio. Shazir si era ritrovato più povero dei figli dell’omicida che, qualcuno diceva, non si offendesse il Maharajah, ricevevano un sussidio dalla Corte.

-Ma tu non potevi lavorare?

-In che modo? Non solo mi era stata data un’educazione classi­ca, ma avevo imparato a considerare più importante di tutto lo spettacolo delle spighe che ondeggiano, il canto degli uccelli, la grazia di una mangusta. Lavorare mi avrebbe dato la sensazione di disertare un dovere più grande. Il dovere di godere della bellez­za del creato e del sapore della vita. Gli altri, ricchi e pove­ri, non avevano l’aria di occuparsene. Solo io alzavo continua­mente gli occhi per vedere se le nuvole avevano cambiato forma, o se un fiore di cui avevo visto il bocciolo su un ramo ora si era aperto. Maestà, intorno a me tutti si nutrivano con la terra di questo stato, nessuno ne godeva la bellezza. Ci voleva un poeta, per goderne. E non c’ero che io. Poiché però dovevo anche mangia­re…

-Eh, per mangiare sei venuto da me!

-Perché no, Maestà? Un uomo che vendica mio padre facendo uccidere il suo assassino ma che è abbastanza misericordioso per avere pietà dei sui figli è un poeta della vita, anche lui. Sono venuto dall’unico collega di cui avessi notizia.

-Come ti permetti di dichiararti mio collega?

-Maestà, Le chiedo scusa, collega in quanto poeta. Forse avrei dovuto usare un’altra parola.

-Forse. Ma collega mi va bene lo stesso. E cos’è la storia dell’eredità?

-Ho di che vivere fino alla morte. Poi vorrei che quanto rimarrà andasse a Vostra Maestà. Restituirò così anche più di quanto non abbia ottenuto, ma Le sarò immensamente grato lo stesso, perché Vostra Maestà mi ha nutrito quando non avevo nulla, e quello che restituirò non mi costerà nulla: tanto, dopo morto, non potrei goderne…

-Sei onesto, almeno.

-Perché non dovrei esserlo? Ho così poco da difendere, così poco interesse a barare!

-Però se me ne fossi accorto prima, che vivevi a mie spese, ti avrei tolto il sussidio, caro il mio briccone. Ti sei scoperto solo perché mi hai ringraziato.

-Lo rifarei, Maestà, occhio nero incluso. Malgrado quello che la gente dice in giro non credo che avrò un’altra vita. E questa è andata bene solo grazie a Vostra Maestà. Continuo a dirle mille volte grazie.

-Grazie per ventidue anni di pasti gratis.

-Grazie per ventidue anni di pasti gratis, Maestà.

-Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno: rimani a cena.

Gianni Pardo

HAYABADultima modifica: 2012-07-22T15:51:00+02:00da gianni.pardo
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